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lunedì, 7 gennaio 2008

INTERVISTA A DANIELA MARCHESCHI

Vi propongo questa intervista che Daniela Marcheschi, italianista ed esperta di letterature scandinave, ha rilasciato ad Andrea Di Consoli.

Intervista interessante che abbraccia varie tematiche: dalla critica letteraria alla storia della letteratura.

Credo che molte delle risposte fornite possano prestarsi per avviare dibattiti. Leggetele con attenzione e, se volete, esponete le vostre opinioni.

(Massimo Maugeri)

_____________________________

_____________________________

Intervista a Daniela Marcheschi

di Andrea Di Consoli

Daniela Marcheschi, italianista, esperta di letterature scandinave (ne scrive su “Il Sole 24 Ore”) e traduttrice di Karin Boye, August Strindberg, Edith Sodergran, Brigitta Trotzig, curatrice dei Meridiani Mondadori di Giuseppe Pontiggia e Carlo Collodi, ha al suo attivo un’attività saggistica di livello internazionale. Ha pubblicato, tra le altre cose, Una luce del nord. Scritti scandinavi (1979-2000) per Le Lettere, e Sandro Penna per Avagliano.

——–

Lei ha parlato più volte di tradizioni letterarie in contrapposizione a tradizione. Cosa significa esattamente?

Puntare alle tradizioni vuol dire cogliere la pluralità delle esperienze letterarie e artistiche, delle estetiche, poetiche, filosofie, dei generi, degli stili, delle forme. Significa cogliere e avvicinarsi alla complessità stessa delle esperienze letterarie e artistiche; e anche verificare i modelli storiografici che tendiamo a confondere con la storia stessa della letteratura. Da questo deriva oggi una critica povera, perché vista come cronaca, rassegna dell’esistente non inserita nel quadro più problematico delle tensioni della storia. Sta prevalendo una critica scissa dalla storia, e una storiografia scissa dalla critica. Stiamo facendo critica e storia della letteratura ingabbiate su visioni storiografiche ereditate dalle generazioni precedenti.

Qual è la differenza tra la critica letteraria e la storia della letteratura?

Non ci può essere una storiografia nuova senza una visione critica delle tradizioni, e non si dà una critica nuova senza una visione storica delle tradizioni e delle loro interconnessioni. E, sopratutto, non si può fare letteratura, né come autori né come critici, se non ci si rende conto che i valori vengono sempre discussi e negoziati, e che bisogna essere consapevoli perché certe esperienze si sono affermate, o sono state sostituite. I valori vanno sempre continuamente ridiscussi.

Chi è il più grande critico letterario del ‘900?

Da questo punto di vista Carlo Dionisotti (1908-1998) non è solo il più grande storico della letteratura nel ‘900, ma è anche un grande critico: lo provano il travaglio profondo della “premessa e dedica” a Geografia e storia della letteratura italiana e di pagine mirabili dei Ricordi della scuola italiana. Tenga presente che Dionisotti ha potuto pubblicare Geografia e storia della letteratura italiana, libro fondamentale, solo a 59 anni, quando l’Accademia di Svezia già gli chiedeva pareri riservati su eventuali candidati al Nobel.

Cosa pensa del dibattito sulla critica letteraria iniziato sul “Corriere della sera” a partire dal Dizionario della critica militante (Bompiani) di Filippo La Porta e Giuseppe Leonelli?

Considero questo dibattito fragile, poco consapevole della complessità dei problemi in campo. E’ un peccato, perché l’Italia si sta sempre più chiudendo in se stessa, incapace di esportare valori e proporre idee ed esperienze letterarie davvero persuasive.

Lei insiste spesso sull’isolamento dell’Italia, sul suo provincialismo. Come ci si apre al mondo, in che modo può avvenire quest’apertura?

Se siamo consapevoli che si conosce “per tradizioni” siamo poi anche in grado di leggere la trama delle varie tradizioni europee. Dobbiamo cominciare a individuare gli autori europei di lingua italiana, non gli scrittori italiani e basta. Come diceva Vincenzo Gioberti, travisato da certe letture fasciste, e come dice Amedeo Anelli (direttore della rivista “Kamen’”, n.d.r.), bisogna ragionare su quali siano gli scrittori europei di lingua italiana, perché gli scrittori italiani sono meno necessari.

Mi faccia alcuni esempi novecenteschi di scrittori europei, e provi a spiegare cosa significa essere uno scrittore europeo.

Uno scrittore europeo di lingua italiana, per il lavoro sui contenuti, sul romanzo, sullo stile, è stato Giuseppe Pontiggia. Basta leggere quello che la critica europea ha scritto sui suoi libri. Uno scrittore è europeo nel momento in cui è capace di porsi problemi che interessano le culture internazionali, quando è profondamente italiano ma sa lanciare problematiche di interesse non locale. Scrittori europei di lingua italiana, per esempio, sono stati Italo Svevo e Luigi Pirandello.

E Alberto Moravia?

Moravia è uno scrittore di grande mestiere, di grande abilità, ma è uno scrittore sempre dentro l’attualità, e in ciò è debitore del naturalismo. Moravia è il prototipo degli opinionisti di oggi, di questa cultura dominante della chiacchiera mediatica. Naturalmente aveva intelligenza da vendere. Moravia non è uno scrittore che ha allargato più di tanto le “barriere del naturalismo”, come invece diceva Renato Barilli in un saggio del 1964. La sua letteratura è fortemente radicata nella letteratura russa, come ormai tutti sanno. Anzi, è spesso più paragonabile alla “fattografia” del realismo socialista.

Che cos’era la “fattografia”?

Era una poetica che proponeva un romanzo radicato nella cronaca, per essere più aderenti agli indirizzi del regime comunista. Dostoevskij è stato molto amato da Moravia, che però non ne aveva lo spessore filosofico e religioso. Di fatto i modelli russi di Moravia sono principalmente altri.

A quali modelli si riferisce?

Glielo spiego partendo da Dino Terra (1903-1995), uno degli scrittori più importanti fra la fine degli ‘20 e la fine degli anni ‘40. Aveva fondato l’Immaginismo, un movimento letterario e artistico per unificare tutte le ricerche d’avanguardia, intesa questa come metodo, come arte sperimentale. Autore di vaste frequentazioni internazionali, Terra fece conoscere la psicoanalisi alla sua cerchia (Moravia, Bontempelli, i Bragaglia, Pirandello, Marinetti, Ungaretti, Chiaromonte, De Libero, Gallian). Tra quei giovani aveva fatto molto effetto il romanzo La famiglia Golovlioff di Michail Saltykov-Scedrin, pubblicato in Italia da Carabba in due volumi nell’aprile del 1918, con la prefazione di Federico Verdinois. In due interviste inedite allo storico Paolo Buchignani nel 1993, Dino Terra diceva che quel romanzo era stato decisivo per alcuni di loro.

Questo cosa significa?

Questa testimonianza non è un’inezia, ma mette lo storico e il critico della letteratura sulle tracce di un testo che ha a lungo influenzato l’opera di Moravia, all’epoca molto amico di Terra. Se noi prendiamo La famiglia Golovlioff, a parte la coincidenza del nome di Saltykov con quello di Michele de Gli Indifferenti, dobbiamo constatare che tutta quanta la costruzione del romanzo, dei personaggi e del loro carattere morale, le atmosfere, addirittura lo stile, hanno forti analogie, se non palesi “copiature”, con il romanzo d’esordio del giovane Moravia.

Quali sono gli elementi che supportano questo sospetto di “copiatura”?

Anche ne La famiglia Golovlioff i personaggi principali sono cinque. Una madre, Irene, che, per insensibilità e vuoto interiore, per i suoi modi grotteschi, somiglia alla madre di Carla e Michele. Sua nipote, Annin’ka, è il personaggio più lucido del romanzo di Saltykov e quello in cui si riscontrano analogie non casuali con Carla. Anche Annin’ka cerca letteralmente una “vita nuova, vera”, e pur di averla si dà a un riccone, ma capirà il vuoto e l’illusorietà di una simile aspirazione. Allo stesso modo Carla, ne Gli Indifferenti, nel desiderio di una “vita nuova”, si getta tra le braccia di Leo pur non amandolo, e di fatto gli si dà per avere un benessere, proprio come fa Annin’ka. Colpisce il fatto che Leo abbia in parte il carattere di Porfìrij, detto piccolo Giuda, che agisce solo per interesse e lussuria. Porfìrij, come Leo, è cinico, ipocrita, interessato, vive un erotismo puramente utilitaristico, senza profondi sentimenti, pronto a rovinare i suoi famigliari pur di accumulare ricchezze e impadronirsi di una villa. Poi ci sono gli atri due fratelli, Stepàn e Pavel, i quali vivono nell’indifferenza, nella finzione, nell’incapacità di qualsiasi applicazione, in una “nebbia di parole” che è la nebbia del vaniloquio e dell’impossibilità di sentire e volere.

Lei coincidenze sono solo di contenuto?

Colpiscono anche le coincidenze formali. Ad esempio ne La famiglia Golovlioff, proprio come nel romanzo di Moravia, ci sono il vaniloquio e un grande uso del discorso indiretto libero, che abbonda soprattutto nell’ultima parte. Michele ne Gli Indifferenti immagina l’ipotetico processo che seguirebbe l’uccisione di Leo, ma in realtà questo non avviene, perché Michele non uccide Leo. Tale processo, invece, nel romanzo russo c’è davvero. Ma le corrispondenze non finiscono qui, ve ne sono in grande quantità.

La letteratura nasce sempre dalla letteratura, di questo lei è consapevole. Quindi immagino che la sua riflessione vada più nella direzione della ricerca storica, che non nella direzione di una provocatoria polemica.

Che i libri nascano anche dai libri è cosa nota, ma è forse meno noto quanto questo romanzo russo abbia significato concretamente per quel gruppo di giovani scrittori romani. Per esempio, il carattere stesso de L’avaro di Moravia richiama ancora una volta un tratto molto caratteristico di Porfìrij, incapace di amare e assumersi qualsiasi responsabilità che non sia quella di accaparrarsi beni materiali. Ne L’amore coniugale il confluire di norme morali e convenzioni sociali è un tema che richiama un altro tema del ricco romanzo di Saltykov. Negli stessi Racconti romani il vizio della pignoleria, portato all’estremo grado, rimanda ancora a un motivo di Saltykov. La famiglia Golovlioff ha personaggi a tutto tondo che incarnano, nello svolgersi delle vicende, tutta una serie di vizi e carenze morali assai suggestive per l’opera di Moravia. Così si riconferma ancora una volta il radicamento di Moravia nel dibattito culturale degli anni ‘20 e ‘30, che dovrebbe essere studiato di più. Il libro di Saltykov aveva già influenzato Terra, basti pensare a un romanzo sperimentale come Ioni, del 1929, considerato l’anti-Indifferenti.

Dal suo discorso si profila addirittura uno “scontro” in sede di canone tra Moravia e Dino Terra. O forse è più esatto dire che lei auspica una maggiore attenzione sui cruciali anni ‘20.

Andrebbero studiati meglio l’ambiente delle riviste degli anni ‘20 (“La bilancia”, “La ruota dentata”, “Interplanetario”, “Occidente”, “Caratteri”, riviste in cui spesso si ritrovavano fascisti rivoluzionari, giovani comunisti, socialisti, anarchici, apolitici, tutti legati dalla volontà di costruire una nuova letteratura), la narrativa degli anni ‘20, il movimento dell’Immaginismo, la Roma di sostanza internazione ed europea di quegli anni. All’interno di questo quadro si gettano le basi per un realismo nuovo, in cui ha uno spazio il meraviglioso, basti pensare proprio a Riflessi di Dino Terra. Quindi siamo di fronte a una pluralità di tradizioni che la prevalenza di una storiografia ingessata e arretrata ha spesso cancellato, mentre ha lasciato tracce di vitalità nella narrativa italiana almeno fino agli ‘70 (si pensi agli autori di favole per adulti: Zavattini, Guareschi, Terra). Se noi paragoniamo Ioni a Gli Indifferenti, pubblicati entrambi da Alpes nel 1929, ci rendiamo conto della novità sperimentale di Ioni, costruito per micro e macro sequenze, per pluralità di voci, per molteplicità dei punti di vista. Moravia legge attentamente Saltykov e ne ricalca la tecnica romanzesca. Terra, invece, cerca di rinnovarla ulteriormente. A questo punto possiamo capire perché Dino Terra fosse considerato, in quel tempo, uno degli scrittori più importanti. Meno persuasivo, invece, è ritenere Moravia una delle punte di diamante della letteratura del ‘900.

Andrea Di Consoli


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Scritto lunedì, 7 gennaio 2008 alle 22:41 nella categoria Senza categoria. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.

292 commenti a “INTERVISTA A DANIELA MARCHESCHI”

Intanto ringrazio Andrea Di Consoli per avermi inviato l’intervista…
-
Una piccola nota iniziale.
Questo è un post molto “letterario” per cui vi prego di assumere un tono piuttosto serio.
Solita raccomandazione (scusatemi, eh?) sul rispetto di “persone e opinioni altrui” (che non significa “non dibattere” o non esprimere opinioni divergenti).
Grazie
:)

Postato lunedì, 7 gennaio 2008 alle 22:46 da Massimo Maugeri


“Rubo” un po’ di domande ad Andrea Di Consoli.
Secondo voi:
- Qual è la differenza tra la critica letteraria e la storia della letteratura?
- Chi è il più grande critico letterario del ‘900?
- Cosa pensate dell’(eventuale) isolamento dell’Italia, e del suo (eventuale) provincialismo?

Postato lunedì, 7 gennaio 2008 alle 22:50 da Massimo Maugeri


@ Sergio Sozi.
Lo so che su Moravia mi “sommergerai”.
Lo so, lo so…
;)

Postato lunedì, 7 gennaio 2008 alle 22:51 da Massimo Maugeri


A interessante intervista porto via un’indicazione, il libro di Carlo Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana. Spero di trovarlo facilmente. Grazie e ancora buon anno a tutti
Elisabetta

Postato lunedì, 7 gennaio 2008 alle 23:16 da elisabetta


L’intervista mi sembra interessante soprattutto nella prima parte, un po’ meno nella seconda, che si concentra troppo accanitamente su Moravia e sui suoi punti di riferimento letterari. Ad ogni modo, la questione centrale, toccata in apertura, mi sembra questa: presa coscienza di un declino e di un immiserimento del nostro attuale panorama letterario, e preso atto della morte della critica militante, trasformatasi in chiacchiera da salotto e, quando va bene, in una fiera di presunti capolavori (basta leggere le farneticazioni di D’Orrico o certi sedicenti critici dei nostri maggiori quotidiani nazionali), si può davvero dire che esista un “caso” tutto italiano? e che la soluzione sia quella di aprirsi a un non meglio specificato dibattito eurocentrico? Siamo davvero convinti che la crisi della letteratura sia tutta interna al nostro sgangherato post-umanesimo? A me sembra che la questione sia molto più che italiana, e investa certamente geografie altre e, perché no?, ancora sconosciute. E’ tutta la nostra tradizione che va a rotoli, semplicemente perché non siamo capaci di capire cos’è, oggi, una tradizione…tanto più quando le traiettorie si intersecano e aggrovigliano, senza margini di chiarezza.
Grazie per il post, interessante.
A presto,
Marco Gatto

Postato lunedì, 7 gennaio 2008 alle 23:25 da Marco Gatto


@ Elisabetta Bucciarelli:
ogni tanto ti fai vedere, eh?
;)
Dài, aspetto un commento più analitico…

Postato lunedì, 7 gennaio 2008 alle 23:31 da Massimo Maugeri


@ Marco Gatto
Ottimo commento il tuo. Contribuisci al dibattito rilanciando ulteriori domande. Ti ringrazio.
Le metto in evidenza. Tu domandi:
preso atto della morte della critica militante, trasformatasi in chiacchiera da salotto e, quando va bene, in una fiera di presunti capolavori, si può davvero dire che esista un “caso” tutto italiano?
e che la soluzione sia quella di aprirsi a un non meglio specificato dibattito eurocentrico?
Siamo davvero convinti che la crisi della letteratura sia tutta interna al nostro sgangherato post-umanesimo?

Postato lunedì, 7 gennaio 2008 alle 23:36 da Massimo Maugeri


@ Marco Gatto (e agli altri)
Quando la critica è militante?
E quale deve essere, oggi, il compito della critica militante?

Postato lunedì, 7 gennaio 2008 alle 23:40 da Massimo Maugeri


le domande su Moravia sono giustificate dal fatto che quest’anno decorre il centenario dalla nascita. Si potrebbe discutere sui cento anni, tra virgolette, di questo scrittore così noto

Postato lunedì, 7 gennaio 2008 alle 23:52 da Matteo


Ciao Matteo, ti confermo che l’intervista è volutamente incentrata su Moravia di cui, peraltro, abbiamo già discusso qui:
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/11/25/ricordando-alberto-moravia/

Postato lunedì, 7 gennaio 2008 alle 23:55 da Massimo Maugeri


Sembra che il caro e valido amico Marco Gatto mi abbia letto nel pensiero. Mi resta in mano dunque solo una manciata di domande irrisolte, che porrei alla signora Marcheschi assieme alle relative motivazioni – sperando ch’ella voglia rispondervi in questo luogo.
1) L’analisi della scissione fra Storia della Letteratura e Critica Letteraria mi sembra individui nel nostro attuale produrre ”Critica e storia della letteratura ingabbiate su visioni storiografiche ereditate dalle generazioni precedenti.” Insomma Lei, Marcheschi, lamenta l’assenza di una Storiografia nuova” e ci fornisce questa spiegazione di tale assenza: ”Non ci può essere una storiografia nuova senza una visione critica delle tradizioni, e non si dà una critica nuova senza una visione storica delle tradizioni e delle loro interconnessioni”.
In soldoni, Lei fin qui ci dice che i critici e gli storici letterari italiani vivono in stanze a tenuta stagna e quindi provocano un blocco nella crescita della Letteratura italiana attuale.
Poi spiega che, pero’, la Letteratura italiana ha un senso solo se vista come la Letteratura degli italofoni, non degli Italiani, presentando come esempio illuminante le figure dei nostri scrittori (Terra, Bontempelli, ecc.) che ebbero respiro, formulazioni estetiche ed ispirazione a sua detta ”europei”. E rafforza il concetto facendoci capire quanto sia insignificante limitare la Letteratura italiana al panorama degli autori italiani che parlavano dell’Italia. Le sembra che un critico o un autore siano troppo autoreferenziali, statici ed inconcludenti, insomma, laddove rimangano entro le tradizioni millenarie del nostro Paese.
E infatti, coerentemente, Lei dice anche che ”Non si può fare letteratura, né come autori né come critici, se non ci si rende conto che i valori vengono sempre discussi e negoziati, e che bisogna essere consapevoli perché certe esperienze si sono affermate, o sono state sostituite. I valori vanno sempre continuamente ridiscussi.”
A questo punto Le chiedo, sperando di non ricevere delle risposte evasive o frettolose:
- Come definirebbe, Lei, la ”cultura europea” cui dovrebbe far riferimento l’autore e il critico di oggi? Cosa sarebbe, insomma?
- (Questo appurato spero da parte Sua), continuo chiedendoLe:
ammettendo ab absurdo che la Sua proposta si avverasse, come potrebbe un letterato italiano usare la sua propria lingua madre senza esser anche al contempo carico dei valori italiani che tale lingua lega a se’?
- Visto come semplice individuo, un qualsiasi uomo di cultura, deprivato di uno sguardo chiaro, netto e definitivo sulle proprie tradizioni nazionali, quali future bellezze letterarie dovrebbe offrire all’Europa – un’Europa che a tutt’oggi e’ ancora ben basata sui principi nazionali dei partners?
- Preso atto che vivere da uomini di cultura voglia – anche per il sottoscritto – significare un continuo ricercare e chiedersi il senso delle cose e i loro misteriosi legami, non pensa, Lei, che per esser dei validi scrittori si debba anche comunque basare le proprie opere letterarie sulle proprie, almeno temporaneamente certe, visioni storico-critiche del posto in cui si vive e della relativa Storia Letteraria?
PorgendoLe i miei Migliori Saluti Le auguro un Felice Duemilaotto
Sergio Sozi

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 00:27 da Sergio Sozi


P.S.
Mi scuso per dei refusi, dovuti anche al mezzo elettronico. Spero tuttavia che il senso delle mie modeste riflessioni ne sia salvo.

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 00:31 da Sergio Sozi


Errata corrige
Al rigo 4, dopo ”individui”, manca: ”le sue cause”.

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 00:34 da Sergio Sozi


Caro Massimo e cari tutti,
mi chiedi (ci chiediamo, tutti insieme: e questo è un buon segno) quando la critica è militante? Se rispondessi “la critica è militante quando… o nel caso in cui…”, postulerei l’esistenza di una critica non militante. Con questo voglio dire che, a mio parere, la critica, quando è critica, è sempre e comunque militante, si occupi di Boccaccio o di un qualsiasi scrittore postmoderno ultimo arrivato. Perché critica militante vuol dire semplicemente che esiste una civiltà del dialogo che ragiona su testi letterari e che, partendo da questi, riesce ad attualizzare il loro messaggio, meglio se complicandolo e rendendolo contraddittorio rispetto ai nostri tempi. E’ ovvio che ciò esclude qualsiasi pretesa di narcisismo: la critica ha un messaggio intersoggettivo, mira alla condivisione del sapere, presuppone sempre un destinatario sociale. Non condivido, per queste ragioni, le recenti apologie del critico militante come dio o come boia (mi riferisco a Manacorda e alla sua “Apologia del critico militante”), come essere titanico che decide, addirittura!, tra la vita e la morte, senza capire che la letteratura è, nel bene e nel male, una finzione.
Vengo al dunque: ho detto che la critica militante, per esistere, presuppone l’esistenza di una comunità di lettori. Tutto questo è oggi impossibile, essendo venuta meno l’autorità della letteratura (e del critico-intellettuale).La domanda, alla Lenin, è la solita: che fare? Se per la critica è vitale, credo, l’esistenza della socialità, i critici stessi devono oggi mirare a creare le condizioni per un rinnovamento, per un risanamento, per una creazione ex novo (chiamiamola come vogliamo!) del rapporto fra letteratura e pubblico, fra autore e lettore, fra intermediario e destinatario sociale. Come? Scommettendo su quei testi (di ieri e di oggi) che, maggiormente rispetto ad altri, parlano di noi, della nostra condizione, riabilitando un paradigma educativo che si è perso nell’orizzontalità della nostra vita postmoderna. Ma qui il discorso si complica e non voglio tediare.
A presto,
Marco
marco.gatto@alice.it

Ps: si sarà capito lo spirito di questo intervento, e soprattutto il tipo di modello critico a cui si ispira? Non a caso, alla domanda “chi è il maggior critico del Novecento”, senza dubbio risponderei Giacomo Debenedetti.

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 00:36 da Marco Gatto


Sergio, spero che la professoressa Marcheschi possa leggere le tue riflessioni e le tue domande. E rispondere di conseguenza.

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 00:37 da Massimo Maugeri


@ Marco Gatto
Grazie per il tuo nuovo intervento.
E a chi rivendica, oggi, differenze di ruoli e compiti tra critica militante e critica accademica cosa rispondi? (Cosa rispondete)?

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 00:40 da Massimo Maugeri


E critica militante e critica accademica possono coincidere?
-
Ora chiudo. A domani sera.

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 00:41 da Massimo Maugeri


Prima di chiudere anch’io, provo a rispondere alla tua stimolante domanda. Davvero sarò breve. Il punto è che proprio nella scissione tra critica accademica e critica militante sta il “caso italiano”. Noi abbiamo un’accademia sempre più chiusa a riccio nel microfilologismo (in gran parte derivante dalle ultime propaggini di strutturalismo non aggiornato), che ormai ha chiuso i conti con ipotetici lettori non specialistici; dall’altra parte, c’è una critica militante profondamente narcisistica, quasi artistica, che dice Io senza poter dire Noi: ha sostituito l’elzeviro con la recensione idolatrante o, nel peggiore dei casi, con l’intervista divistica. In mezzo cosa c’è? C’è il lavoro paziente di qualche critico, diviso tra vita accademica e senso civico, che scommette ancora sulla letteratura e, a volte a pena dello stile, scrive, quando è aperta la porta dell’editoria, parlando non alla sua cerchia, ma a tutti: semplicemente con la consapevolezza che parlare di letteratura sia parlare di vita, di società, di politica, di tutto quel che ci interessa. A questo livello, un massimo di erudizione accademica, unito a un interesse “democratico” e non autocelebrativo per il pubblico dei lettori (anche non specialisti, ma semplicemente interessati), può far la differenza. Penso che Debenedetti abbia inaugurato questa strada, che pochi, però, si ostinano a seguire. Avete qualche nome? I miei li tengo in serbo per i prossimi commenti.

Buona notte,
Marco G.

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 00:51 da Marco Gatto


Sono dell’avviso, cari Marco e Massimo, che critica ”militante” e accademia possano coincidere, anzi ”confluire”, solo se la nostra epoca finisse per qualche motivo (non saprei quale: mancanza di energia elettrica, magari) e pertanto lo stile di vita degli Italiani tornasse sui binari della Storia Vera: quella che ha preceduto le innovazioni scientifiche cui dobbiamo l’attuale stato della Nazione e dell’Europa intera – uno stato deprimente per ogni arte, ammettiamolo.
Infatti, se, oggi (come diceva giustamente Marco), a parlare con la gente di Letteratura (in maniera divulgativa ma intelligente e profonda), resta solo una piccola minoranza di ”critici veri” divisi fra accademia e comunicazione, cio’ vuol significare semplicemente che la Letteratura non interessa alla gente e che troppi scrittori valgono poco, troppi critici valgono poco e troppi cittadini comuni valgono poco. E’ inesorabile, a volte, l’aritmetica.
Una rifondazione della nostra societa’ e’ possibile solo tornando alle epoche precedenti alla modernita’. Un ritorno alla cultura-tradizione, sacra, ineffabile e condivisa da tutti i cittadini.

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 02:09 da Sergio Sozi


Chi è il più grande critico letterario del 900? Oggi mi sento di rispondere che è Italo Calvino, anche perchè sono fresco reduce della lettura del meraviglioso Perchè leggere i classici ,appunto di Calvino. Un altro critico che mi ha sorprendentemente e favorevolmente colpito è il Pasolini di Descrizioni di Descrizioni , uno stupendo volume che raccoglie le critiche del defunto scrittore-regista-poeta.Se poi devo scegliere un critico di professione, allora ricorderei Contini. In quanto al provincialismo della letteratura italiana, io non sono affatto d’accordo con quest’affermazione ed invece ribalto l’accusa. Basta leggere La Capria, Calvino e molti altri per capire che invece noi Italiani non siamo affatto provinciali in quanto conosciamo profondamente le altre culture che al contrario non ci conoscono e che ci snobbano. Con il tuo permesso Massimo vorrei segnalare ai blogghisti che si interessano di Fotogiornalismo il mio nuovo sito: http://www.poterefotografico.com

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 07:36 da Pino Granata


Questo post è molto interessante, ma pure molto “tecnico”. Per non dire stupidaggini starò zitta e leggerò i commenti di chi ne sa più di me.
Auguro a tutti una bellissima giornata.
Smile

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 08:09 da Elektra


A me pare che in questi ultimi mesi ci sia stato un ritorno e una rivendicazione del ruolo della critica. Credo sia già qualcosa

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 08:31 da Ruben


Concordo con Marco Gatto nel ritenere Debenedetti uno dei più importanti, se non il più grande critico del ‘900.
Quello che secondo me conta sottolineare è che il metodo su cui si basa la critica letteraria non può essere scevro dal contesto storico e dalla sua attualizzazione in materia (appunto) letteraria. Ecco perché – se pensiamo al nostro oggi- tanti critici parlano a pochi e pochi critici parlano a tanti. È il generale disamore per la divulgazione della letteratura intesa come vivere e sentire condiviso che blocca la critica militante.
Ed è un peccato perché secondo me c’è tanta gente che avrebbe voglia di stare ad ascoltare cose sensate e ispirate.
Kiss a tutti
Ciao Massimo, ciao Sergio, ciao Elektra!

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 10:46 da Silvia Leonardi


Le domande di Sergio alla Marcheschi trovano forse risposta nell’esempio di Moravia.
Siamo ancora parte di quella cultura “europea” (esistita per Curtius almeno fino alla sopravvivenza dell’uso vivo del latino, espressione della koinè culturale europea) se attingiamo a una più grande tradizione (le cui radici sono comuni a tutta l’Europa) per vivificare la nostra.
Ossia se, anziché plagiare, Moravia avesse riscritto il romanzo russo attingendo alle proprie radici culturali italiane in modo significativo, avrebbe fatto qualcosa di europeo.
Per spararla alta, come fa Goethe con Marlowe per Faust (e poi di nuovo Mann con Goethe!), o come fa Shakespeare con la storiella veronese da cui trae Romeo e Giulietta ecc ecc.

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 12:00 da Paolo S


”Le domande di Sergio alla Marcheschi trovano forse risposta nell’esempio di Moravia.
Siamo ancora parte di quella cultura “europea” (esistita per Curtius almeno fino alla sopravvivenza dell’uso vivo del latino, espressione della koinè culturale europea) se attingiamo a una più grande tradizione (le cui radici sono comuni a tutta l’Europa) per vivificare la nostra.
Ossia se, anziché plagiare, Moravia avesse riscritto il romanzo russo attingendo alle proprie radici culturali italiane in modo significativo, avrebbe fatto qualcosa di europeo.”

Ottima, intelligente, sensata, razionale risposta, sig. Paolo S. La faccio mia, magari permettendomi di integrarla con un particolare in piu’: l’abuso dei mezzi tecnico-scientifici offertici della societa’ attuale danneggia il perseguimento di questa riunificazione del misero presente moderno coll’illustre nostro passato. Le altre societa’ nazionali europee, piu’ equilibrate nel ”dosaggio” di tradizioni e modernita’, ne sono meno succubi e quindi scelgono cosa accettare della modernita’ e cosa rifiutare, senza perdere di vista le eredita’ positive delle tradizioni (anche li’ urge distinguere fra grano e loglio).
La ringrazio sentitamente salutandoLa gentilmente
Sozi

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 13:35 da Sergio Sozi


Sono d’accordo anche col sig. Pino Granata – le cui considerazioni potrebbero esser accorpate alle mie e a quelle del sig. Paolo S. sopracitato.
Sozi

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 13:38 da Sergio Sozi


Un bel saluto alle dolci Elektra e Silvia
Sergio

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 13:40 da Sergio Sozi


P.S.
Per quanto riguarda la considerazione in cui tenere i critici italiani del Novecento, personalmente non mi sento di esprimere una preferenza netta: si son viste in Italia diverse generazioni di grandi critici, che hanno tutti contribuito (chi piu’ chi meno ma non importa) all’approfondimento della nostra produzione letteraria. Una storia lunga che parte dal Boccaccio quando commenta Dante e arriva agli ultimi, pochi, grandi del Novecento (Asor Rosa, Contini, Dionisotti, Calvino, Pasolini, Debenedetti, ecc.). Preferisco insomma pensare ad un pensiero critico articolato e vario che ha creato nel suo insieme degli strumenti d’analisi, al fine di ottenere una maggior comprensione della nostra Letteratura – e di quella degli altri popoli.
Sozi

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 13:48 da Sergio Sozi


Attendo comunque delle eventuali e ben gradite risposte da parte della prof. Marcheschi. (Vedansi sopra le domande).
Sozi

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 13:50 da Sergio Sozi


Il punto debole, e da me incondivisibile, dell’analisi della prof. Marcheschi, preciserei infine, e’ quel suo ”I valori vanno sempre continuamente ridiscussi”. Credo infatti che i valori aspirino ad una loro tenace fermezza e stabilita’, se sono veri e ponderati, sia in Letteratura che nell’etica e nella morale.

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 13:59 da Sergio Sozi


Non sono minimanente in grado di prendere parte al dibattito, ma voglio segnalare che -secondo me- il provincialismo italiano esiste eccome. E non è affatto vero che all’estero siamo sempre e solo fraintesi nella nostra grande cultura, quando invece saremmo ottimi conoscitori delle altrui realtà nazionali…Questa credenza fa parte appunto del nostro naturale crederci migliori e più acuti osservatori di modi di vita alternativi a quello italiano. Su questo genere di discorso, credo, si innestasse Giorgio Bocca quando ci accusava di essere tutti fascisti; e in questo senso di provincialnazionalismo a complesso di inferiorità manifesto con sottastante complesso di superiorità sommerso, credo avesse proprio ragione.

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 14:23 da Giulio


Confesso la mia pressoché totale ignoranza sull’argomento. Da quel poco che conosco personalmente ritengo di grandissimo spessore Natalino Sapegno ma ammetto senza remore di essere a corto di idee

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 14:48 da Enrico Gregori


secondo me il grosso problema della critica, sia essa militante che accademica, è che è lontana dalla gente e tende ad essere elitaria.
è giusto che sia così?
è un bene o un male?
scusate se ho scritto banalità

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 15:26 da luisa


io penso che blog come questi possano aiutare a creare un ponte tra la critica letteraria e la gente.
bravi massimo, andrea, sergio, marco e tutti gli altri voi. tornerò a leggervi stasera o domani.
ciao

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 15:28 da luisa


Cosa si intende per critica letteraria? Forse questa è una domanda basilare per chi, come me, non è un esperto in materia.
Tento di apportare un piccolo contributo al dibattito inserendo un articolo sulla critica letteraria preso da wikipedia. Non so se può essere utile.
————
LA CRITICA LETTERARIA
Per critica letteraria si intende l’insieme di strumenti teorici, contenuti e studi, dedicati alla valutazione della letteratura, in generale o in riferimento a specifiche opere letterarie o insiemi di opere. Una definizione più ampia può intendersi estendendo gli scopi dell’insieme sopra identificato allo sviluppo della teoria dello scrivere.

Gli interventi e la produzione di opere di critica letteraria, in special modo nella sua definizione più ristretta, si sono articolati attorno ad una metodologia che ha segnato in epoche diverse numerosi punti di definizione sistematica.

Con riferimento all’esistenza di una metodologia della critica letteraria e all’impegno specifico di autori e studiosi della letteratura dal punto di vista della critica, si può dire che la critica letteraria, e il saggio letterario nella fattispecie, rappresentano lato sensu uno dei generi di letteratura esistenti.

Tra gli scrittori che si sono maggiormente occupati di critica letteraria si segnala, tra gli altri, Maria Corti. È vero, anche, che in realtà il metodo, per meglio dire “i metodi” della critica letteraria sono una attualizzazione della storia e della teoria critica. Il metodo è, allo stesso tempo, l’attualizzazione storica di una visione teorica della letteratura. Il formalismo, la filologia, la psico-critica, i cultural studies, la psicoanalisi sono metodi critici in quanto sono modi di lettura della letteratura fondati sulla teoria della psicoanalisi interconnessa alla storicità della lettura critica attraverso la quale si legge la letteratura.

Se, ad esempio, parliamo dei metodi maggiormente frequentati negli anni ‘70, con tutto l’universo di riferimenti storico, sociologici e culturali, la principale lente di lettura che appare, nei lavori critici di quell’epoca, è sicuramente quella psicoanalitica. Quindi il metodo nasce dall’intersezione di una determinata storicità con un universo di riferimenti concettuali che maggiormente si avvicinano a quel vissuto storico. Il vissuto rientra a sua volta nell’indagine critica, tale da restituire, attualizzata alla lettura del critico, il prodotto di un’elaborazione personale, secondo gli schemi del metodo, che finiscono per restituirci indagini critiche di grande spessore.

Il metodo è così importante in materia di critica, perché costituisce un supporto teorico all’analisi critica ed allo stesso tempo produce conoscenza. Potremmo dire, riassumendo la sequela di concetti appena enunciati, che l’oggetto della critica letteraria è la produzione di conoscenza sull’arte e la magia della letteratura che, per quanto storica, costituirà in sé un unicum di conoscenza ed un apporto importante all’interpretazione dei significati che l’umanità dalla sua nascita fino ad ora, si pone come argomento dell’arte e della simbologia dell’essere.

Fonte: Wikipedia Italia

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 15:40 da La critica letteraria (postato da Cicerone 1)


Carissimi,
siamo dunque arrivati, mi sembra, a una conclusione inequivocabile: esiste un degrado tutto italiano in materia di letteratura e di critica. Aggiungo: esiste un degrado anche in materia di vera e propria teoria della letteratura, a sua volta trasformatosi in un genere pressoché autoreferenziale. Escono in Italia, quasi a cadenza mensile, saggi e saggetti che ci parlano di condizione postuma della letteratura, di neoilluminismo, di vetero-strutturalismo, ma, a conti fatti, di idee nuove non ce ne sono… Dove va la critica senza teoria? Addirittura esistono critici che non conoscono le teorie letterarie!
Siamo un paese, poi, chiuso mentalmente, forse troppo orgoglioso della sua particolare antropologia (che, concordo col Bocca citato Giulio, è nel peggiore dei casi intimamente fascista). Non riusciamo ad accogliere i termini di discussioni a largo respiro: pensate al dibattito sul postmodernismo in Italia! Quanti dei nostri critici di sono confrontati con Jameson, Said, Eagleton e col mondo critico americano? Siamo indietro…(come nell’economia, nella scuola, nella ricerca e, da meridionale, aggiungo nello smaltimento dei rifiuti!).
Questa discussione, però, merita un’attenzione particolare. Offre una speranza, come ha detto Luisa. Che ci siano ancora spazi di condivisione pubblica, che la letteratura stia a cuore a molti, che ci sia una possibilità di salvezza, di reversibilità, che si possa guardare ancora al futuro, magari con la lezione del passato, un po’ come l’angelo di Klee/Benjamin.
Ciao a tutti,
Marco

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 15:56 da Marco Gatto


@Massimo
Sono ignorante come un cavallo sordo, ciò detto, mi farò spiegare tutto da Elektra.
Fermo restando (relegando un attimo l’umorismo in un cassetto socchiuso), qualsiasi post tu posti mi arricchisce enormemente e mi tiene attento allievo al banco, compito e mai stanco.
Grazie Massimo

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 16:08 da francesco di domenico


Spiacente, Marco, ma qui divergiamo: la vedo come Pino Granata.
Saluti Cari
Sergio

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 16:18 da Sergio Sozi


Reputo molto difficile stilare una classifica sul più bravo critico letterario.
Molto dipende dall’angolazione dalla quale si deve partire per tale valutazione. Ritengo ottimi per il loro apparato culturale oltre che critico, Carlo Bo, Giorgio Luti, Geno Pampaloni, Giorgio Manacorda che hanno tastatato con etica obbiettiva, il polso del Secondo Novecento. Ve ne sono moltissimi altri che stimo, ma mi astengo da un giudizio aleatorio senza averli seriamente approfonditi. A Daniela Marcheschi vorreii chiedere come mai i nostri scrittori italiani trovano più difficoltà per la traduzione delle loro opere all’estero, rispetto ad autori americani non sempre eccelsi. Saluto Daniela caramente e spero che in questo decennio ormai trascorso non si sia del tutto dimenticata di me. Le rammento che Lucca non è troppo distante da Siena…Anch’io ritengo Giuseppe Pontiggia uno dei migliori autori e conoscendo il rigoroso impegno e la nota preparazione letteraria della Marcheschi, ben comprendo la spiccata predilezione spirituale per questo bravo autore. Pontiggia, aveva l’inesausto gusto dello sperimentalismo scritturale e riusciva ad analizzare ambienti , cose, persone profilando i caratteri e la loro psicologia, con la cura meticolosa di entomologo. Ancora ricordo con quanta sensibilità e carica umana Pontiggia ha trattato la tematica autobiografica sulle problematiche dei diversamente abili, nello struggente romanzo dedicato al figlio,” Nati due volte” uscito nel duemila.Voglio esternare un plauso particolare anche ad Andrea Di Consoli ,per la sua notevole ed accurata intervista e mi congratulo con Massimo per l’nteressante tema che ci ha proposto.M. teresa
M. Teresa

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 17:36 da M. Teresa Santalucia Scibona


Cara Maria Teresa, quel libro di Pontiggia che citi, “Nati due volte”, lo lessi d’un fiato in treno mentre tornavo in Sicilia e mi fece venire i brividi. Bellissimo!
Un abbraccio

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 17:52 da Silvia Leonardi


@ Sergio

sono contento di averti convinto :-D per quel che riguarda il dosaggio di modernità e tradizione, secondo me esiste una frattura non sanata nel nostro recente passato, dovuta al ventennio fascista, che ha inventato una tradizione (sì, le tradizioni in parte si inventano, come sa bene Walter Scott), sulle cui macerie non si è più costruito a livello nazional-popolare, per dirla con Gramsci. Anzi, le stesse elite al potere hanno di fatto abiurato le ascendenze latine!
Attenzione, non sto facendo apologia, né giustificando le operazioni di Mussolini, sto ipotizzando un nesso tra culto della romanità infranto e povertà tradizionale attuale. Di fatto, una repubblica debole e giovane come quella italiana non ha dalla sua la potenza mitica della Francia o dell’Inghilterra, coi suoi pro e coi suoi contro.
Oggi, di fatto, usare alcuni “serbatoi” di tradizione è diventato un tabù a livello scolastico, e a causa di alcune bolle (per una volta non papali) semplicemente non ci si abbevera più ad alcune delle nostre fonti tradizionali. 2 a caso: Virgilio, D’Annunzio. Guardate cosa se ne fa nelle antologie dei licei, che tanto il livello universitario resta per pochi.
Nel dopoguerra c’è stata molta incertezza, e a volte si è costruito senza fondamenta. Guardate quali contorsioni funamboliche deve compiere Calvino per ammodernare, sdoganare i classici dall’aura che emananno e che, forse, dovrebbe continuare a essere percepita. Per me, l’introduzione di Calvino alle Metamorfosi di Ovidio è semplicemente ingiusta, ne manca la grandezza.
Solo esempi. Insomma, ci sono dei motivi concreti per cui il paese si trova in questa situazione, e l’elitarismo della critica è un altro di questi. Avrei altro da dire, e forse sono già troppo sintetico e propongo passaggi troppo personali, chissà che mi direte :-/

Continuo domani, cordiali saluti

P

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 17:55 da Paolo S


Caro Sergio,
non ho ben compreso: non sei d’accordo sul degrado italiano? Sarò apocalittico, ma vedere Ammaniti tradotto in 23 lingue e Celati prendere 700 euro all’anno di diritti (dato di Marco Belpoliti su “Alias” di qualche settimana fa) fa male al cuore! Abbiamo avuto, fino alla morte di Pasolini, ottimi scrittori-intellettuali, di respiro davvero europeo (penso a un gigante come Fortini, a un uomo come Volponi, per non parlare del corsaro). Ma poi? Sarò ingiusto, ma la mia modesta e personale opinione è che Calvino ha contribuito a sdoganare una figura di intellettuale per i fatti suoi, “leggero” e disimpegnato, pur nella sua grandezza di scrittore.
Approfitto per inserire una domanda: qual è il critico che più seguite su quotidiani o riviste? qual è il critico che indirizza le vostre letture, che vi dà garanzia di onestà?
ciao
Marco

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 18:27 da Marco Gatto


A me piace molto Dario Fertillo (o Fertilio)? che scrive sul Corsera.

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 18:37 da Giulio


Sono molto contento di come si sta sviluppando questo post.
Avete espresso opinioni divergenti e lo avete fatto in maniera reciprocamente rispettosa e civile.
Io credo che avere opinioni diverse e saperle comunicare senza cadere (o scadere) nella zuffa siano due presupposti fondamentali per la crescita. E in tutti i campi, non solo per quanto concerne la letteratura.
Grazie davvero!

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 21:40 da Massimo Maugeri


Grazie a tutti per i vostri commenti.
A Didò dico: nessuno e ignorante e siamo tutti ignoranti.
E siamo qui per arricchirci in maniera reciproca.
:)

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 21:42 da Massimo Maugeri


Caro Paolo S., che ti diremo, ti chiedi in chiusa d’articolo. Be’, io ti diro’ solo che sono d’accordo con te. Con l’unico piccolo particolare aggiuntivo che l’aspetto analitico-critico di Calvino spesso mi piace – soprattutto, piu’ che nelle introduzioni ai libri, nel suo bel saggio ”Perche’ leggere i classici”.
L’aura dei classici e quel che consegue al nostro inavvertirla e’ una tua considerazione perfetta.
Sergio Sozi
P.S.
Io delle Metamorfosi apprezzo tutt’ora, si’, l’edizione einaudiana a cura di P. Bernardini Marzolla da te citata. Ma leggo l’ottima introduzione del curatore e lascio da parte gli ”Indistinti confini” del tardo Calvino (la scrisse nel Settantanove).

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 21:48 da Sergio Sozi


Caro Marco,
non mi sono spiegato compiutamente: la vedo come Pino Granata sul singolo aspetto del ”provincialismo italiano”: l’Italia mi sembra generalmente anche fin troppo aperta alle correnti di pensiero straniere. Fino ed oltre l’esterofilia piu’ assurda o quanto meno gratuita.
Salutoni
Sergio

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 21:51 da Sergio Sozi


Massimo, grazie a te! Avevo proprio bisogno di un ”post” serio. Da rivista letteraria d’alto profilo.
Sergio

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 21:54 da Sergio Sozi


P.S. per Marco Gatto
inoltre non credo ci sia molto d’interessante nel confrontarsi con gli Statunitensi. In genere sono loro a doversi, giustamente, riferire a noi Italiani ed Europei. Anche perche’ sovente inventano cose gia’ inventate (da noi).
S.

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 21:59 da Sergio Sozi


@ Sergio.
Grazie a te! ;)
Domani proverò a contattare Daniela Marcheschi e la metterò al corrente di questo dibattito invitandola a partecipare.
-
Vi porto i saluti di Andrea Di Consoli. È in giro e non è riuscito a connettersi. Domani sarà a Uno Mattina (Raiuno, intorno alle 10 circa). Se volete andate a dare un’occhiata.

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 22:00 da Massimo Maugeri


Per quanto concerne gli scrittori americani, Sergio – come potrai immaginare – il mio pensiero è più vicino a quello di Marco Gatto. Autori come Philip Roth, Don DeLillo, Michael Cunningham, Cormac McCarthy (ne cito solo alcuni) sono di certo tra i grandi del pianeta.

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 22:04 da Massimo Maugeri


P.P.S.S. per Marco
…be’ pero’ sono con te quando sottintendi che attualmente non ci sono critici-maestri-guide affidabili e sicuri sulla stampa nostrana. Carena, Asor Rosa, Fertilio, Pedulla’, Del Corno… va bene… ma i personaggi seri e precisi di trent’anni fa ce li sogniamo. Hai ragione, Marco.

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 22:04 da Sergio Sozi


Caldo grazie anche a Di Consoli. E attento alla tivu’: morde!

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 22:06 da Sergio Sozi


@ Marco Gatto.
Scrivi: “Siamo un paese, poi, chiuso mentalmente, forse troppo orgoglioso della sua particolare antropologia. Non riusciamo ad accogliere i termini di discussioni a largo respiro: pensate al dibattito sul postmodernismo in Italia! Quanti dei nostri critici di sono confrontati con Jameson, Said, Eagleton e col mondo critico americano?”
Secondo te ha dunque ragione la Marcheschi quando parla di “critica povera, perché vista come cronaca, rassegna dell’esistente non inserita nel quadro più problematico delle tensioni della storia”?

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 22:11 da Massimo Maugeri


@ Marco Gatto (again).
Come sai sul potmodermismo le posizioni sono molto divergenti (persino sullo stesso concetto di postmodernismo).
Tu citi giustamente Jameson e proprio oggi sulla pagina culturale de “Il Mattino” è stato pubblicato un articolo di Guido Caserza sul postmodernismo e su Jameson.
Lo inserisco nel commento seguente a beneficio tuo e di tutti.
Credo sia interessante.

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 22:14 da Massimo Maugeri


da IL MATTINO di giorno 8/1/08
La questione capitale
Merce, cultura, utopia Arriva in Italia l’edizione integrale del saggio di Jameson
—-
di Guido Caserza

Accolta con una profluvie di apprezzamenti apologetici, la traduzione italiana dell’ormai leggendario Postmodernismo, ovvero la logica culturale del tardo capitalismo (Fazi, pagg. 464, euro 39,50) di Frederic Jameson, pubblicata in contemporanea con il saggio Il desiderio chiamato utopia (Feltrinelli, pagg. 300, euro 30), ha però mancato di innescare quella discussione sulle questioni trattate dal grande teorico americano, che avrebbe potuto aggiornarne la lezione o metterne in rilievo i punti teoricamente deboli. Volgarizzato dai suoi emuli, che hanno prestamente tradotto il postmodernismo da categoria storica e fenomeno culturale a mera questione di stile, il pensiero di Jameson è in realtà molto complesso e articolato. Per questo merita una verifica: la sua analisi della società postmoderna e postcapitalistica era efficace tre lustri or sono, quando il saggio apparve, o lo è ancora oggi? Ne abbiamo parlato con Edoardo Sanguineti, letterato da sempre attento a quelle grandi narrazioni ideologiche che Jameson dà per tramontate, e con Aldo Bonomi, sociologo, collaboratore di Giuseppe De Rita al Cnel e soprattutto profondo conoscitore delle dinamiche produttive e industriali, su cui Jameson spende molta parte del suo saggio. Professor Sanguineti, condivide l’opinione di Jameson, secondo cui il tardo capitalismo non obbedisce più alle leggi del capitalismo classico, ovvero al primato della produzione industriale e della lotta di classe? «Come sostenevano già i classici del materialismo storico – è la risposta – lo sviluppo capitalistico e la classe borghese non solo hanno rivoluzionato il mondo, ma sono sono formazioni sociali che continuamente si rivoluzionano. È vero che le cose sono mutate, ma sono mutate perpetuamente, dall’economia del capitalismo comunale per arrivare a oggi. Dire che non ci sono più le classi sociali, mi pare dunque un’affermazione da prendere con molta cautela. Esiste piuttosto un altro fenomeno che è quello della perdita della coscienza di classe, perché il trionfo della globalizzazione comporta questa ideologia dell’unica ideologia, ovvero l’ideologia del capitale finanziario». Il tardo capitalismo di cui parla Jameson sarebbe in mano a padroni senza volto. Questo comporta un’assenza di norma, la pervasività di un sistema simbolico in grado di riassorbire ogni critica, dunque la mancanza di una precisa ideologia contro cui lottare: sul piano stilistico è il trionfo del pastiche, la morte della parodia. Puntualizza Sanguineti: «Nel momento in cui il mondo si omogeneizza, esso appare incomprensibile. Al centro, in realtà, ci sono i giochi del capitale finanziario dal volto anonimo, e se questo comporta l’idea che le ideologie non funzionano più, è per negare la possibilità di qualsiasi atteggiamente critico. Il problema centrale – conclude – è allora ricostruire una distanza ideologica che permetta di ripristinare la realtà che viene verbalmente negata, anche perché questo è un mondo giunto alla sua implosione. Per il resto, non mi fonderei molto sulla contrapposizione fra idee stilistiche come la parodia o il pastiche. Ciò che è tipico è piuttosto la mescolanza radicale di tutte le forme: il divenire del gusto è ora gestito dal capitale con una rapidità che è la medesima con cui si confondono le culture, quella alta con quella bassa per cui è impossibile localizzare un prodotto culturale, trasformatosi in merce circolante». Anche lei, Bonomi, è critico nei confronti di una posizione che teorizza un post-capitalismo non riconducibile alle leggi classiche? «Oggi – propone il sociologo – esistono in realtà quattro grandi tipologie di forme produttive che possiamo così schematizzare: esiste un capitalismo fondato sulla primazia del virtuale, che è quello americano, a cui Jameson fa riferimento, in cui la produzione di merce è sussunta all’interno di una sfera comunicativa e simbolica e che implica la messa al lavoro e la trasformazione di quella che io chiamo la lunga vita, che comprende il Dna, la capacità di memoria e quella simbolica. Esiste però anche una fascia di capitalismo ancora fondato sulla primazia dell’operaio massa: penso ovviamente alla Cina, il cui modello produttivo ha tutti i tratti del neo-fordismo. C’è poi un terzo livello, tipico del nostro capitalismo basato sulla sofisticazione di quello che era l’universo manifatturiero: è il livello delle produzioni complesse in cui interagiscono contemporaneamente la forma produttiva e il simbolico. Un quarto livello, infine, è quello delle economie informali, per cui la sopravvivenza di molte persone dell’America Latina o dell’Africa dipende dalle economie del dono». Bonomi, allora converrà che Jameson aveva ragione sostenendo che le forme della produzione sono cambiate e sono dunque cambiate le formazioni sociali. «Il capitalismo oggi non ragiona più solo in termini di catena del valore, ma in termini di ragnatela del valore. Ciò significa che sussume al suo interno i desideri dell’utente-cliente: vince chi incorpora già nella produzione della merce il desiderio, il pensiero, persino l’essenza dell’uomo. Il ragionamento di Jameson sul simbolico incorporato nella merce è dunque esatto. Tuttavia bisogna distinguere, perché dentro questa transizione rimangono fasce ampie i cui bisogni sono ancora quelli elementari, del mangiare, dormire, abitare, per cui vengono fuori nuove forme di conflitto sociale. Non credo insomma che la società odierna possa essere letta esaustivamente con la categoria della postmodernità: il mondo è più complesso, il capitalismo ha sussunto al suo interno la dimensione umana, è cioè diventato capitalismo personale, ma se qualcuno pensa che in virtù di ciò siano stati aboliti i conflitti ovviamente si sbaglia».
-
Fonte: “Il Mattino” dell’8/1/08, pagina cultura

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 22:16 da Massimo Maugeri


Cara Luisa, cari tutti,
secondo me la questione della triangolazione ”elite-critica-popolo” va oggi (e sempre, credo) vista in questo modo: il critico deve esser capace – alla luce di una sua o altrui teoria analitica, sulla scorta della Tradizione letteraria, della Storia della Letteratura e della Storia della Critica, nonche’ armato di buonsenso e della conoscenza dei luoghi comuni intesi in senso neutro – il critico deve esser capace, dicevasi, di prendere un testo, capirlo, sentirlo, scavarlo, rileggerlo, glossarlo se serve, confrontarlo orizzontalmente (con altri testi coevi e di analoga tipologia) e verticalmente (coi precedenti storici del genere), infine spiegarlo al lettore evitando di complicarlo ma aggiungendovi delle proprie considerazioni personali che pongano al lettore dei significati nascosti nel testo ma inavvertibili da un lettore non specializzato in critica. Il critico: questo mestiere basato sulla divulgazione e ‘’seconda creazione” letteraria di quelle opere letterarie che siano gia’ di per se’ buone (le altre vadano nel cestino). Il critico che sente e razionalizza, che capisce di dover parlare con un pubblico colto si’ ma non specialistico e che tiene alto il livello degli interventi sui mezzi di comunicazione di massa, pur senza rinunciare ad esprimersi nei luoghi accademici con le modalita’ che quei luoghi richiedono (ossia scientificamente).
Sozi

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 22:28 da Sergio Sozi


Dall’articolo precedente estrapolo le seguenti frasi di Edoardo Sanguineti.
Chi ha letto il mio “Identità distorte” capirà perché (perdonate la pubblicità… non lo faccio quasi mai).
;)
Il trionfo della globalizzazione comporta questa ideologia dell’unica ideologia, ovvero l’ideologia del capitale finanziario.
Nel momento in cui il mondo si omogeneizza, esso appare incomprensibile. Al centro, in realtà, ci sono i giochi del capitale finanziario dal volto anonimo.

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 22:30 da Massimo Maugeri


@ Sergio
Sono d’accordo con il tuo commento precedente. Credo però che questa sede (letteratitudine) possa essere quella giusta per costruire i ponti di cui parlava Luisa.

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 22:33 da Massimo Maugeri


Per oggi devo chiudere qui. Voi continuate pure…
‘Notte
:)

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 23:12 da Massimo Maugeri


Certo, Massimo: ponti si’ ma dignitosi, di livello medio-alto e non medio-basso. Sempre. Se no si fa la fine dei blogghetti per pettegoli, litiganti e burini, malati di mente eccetera. Stiamo attenti a non finirci. Magari proponendo altri articoli come questo ottimo.
Sergio

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 23:22 da Sergio Sozi


(Naturalmente non mi riferisco a Luisa, per carita’!)
S.

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 23:24 da Sergio Sozi


A proposito di capisaldi della critica nostra: cosa ne pensate di Croce?

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 23:28 da Sergio Sozi


Segnalo che sul postmodernismo esiste un classico, credo già noto: “La Crisi del Modernismo” di Harvey.

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 23:29 da Giulio


Io di Croce non so nulla. Solo che nei suoi volumi di estetica scrisse peste e corna delle produzioni letterarie femminili, a suo giudizio manifestazione inequivoca dell’incapacità delle donne di costruire un discorso, anziché lasciarsi trasportare dalla voglia di trascrivere le emozioni.

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 23:33 da Giulio


Parlavo di Croce in senso complessivo.

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 23:45 da Sergio Sozi


Arrivo tardi – e dubito di dire cose particolarmente sensate e interessanti.
Dico le riflessioni che mi sono venute così – chiedendo anche clemenza.

– mi perplime l’idea di pensare la produzione letteraria e la produzione critica sulle stesse categorie. Sono attività che hanno cause e destini diversi, ispirazioni diverse e doveri diversi. In particolare: la critica letteraria e la storiografia possono avere dei doveri, la letteratura può avere delle speranze, ma non ha molto senso dire a uno scrittore cosa deve o non deve fare – in linea con questo, parlare di provincialismo italiano, ma perchè poi…Massimo tu parli di Roth, scrittore che amo molto, ma è lui che è universale, o è il mondo che sbava dietro all’America?
L’america che crea un codice, un linguaggio una semantica un gergo, dei sentimenti, ma è tutta storia sua e noi mettiamo in secondo piano la nostra, e ci dobbiamo sentire tristi perchè proponiamo un lessico nostro…mna mica lo so se è giusto.
Dico una cosa provocatoria.
100 Niffoi per un Pontiggia. Con buona pace dell’europeitudine.

Sulla teroia critica. No, forse scriverei cazzate – meglio che mi fermo.

Postato martedì, 8 gennaio 2008 alle 23:58 da zauberei


“Quelli che ti spiegano le tue idee senza fartele capire, o yeah!”, cantava Enzo Jannacci.
Ecco, questi sono i non-critici. Sono quelli che si parlano addosso o tra di loro e che, alla comunità, servono meno del due di bastoni quando regna spade.
In una vita precedente sono stato critico musicale (rock, sempre rock, fortissimamente rock). Il mio sforzo era quello di inquadrare un artista o un disco. Confrontarlo col passato, collocarlo in un eventuale futuro. Spiegare a cosa somigliava e da cosa si diversificava. Se era più o meno melodico rispetto alla complessiva produzione del musicista. Fare paragoni con artisti simili. Evidenziare elementi riconducibili a esperienza musicali tramontate. Insomma credevo (e tuttora credo) che il critico debba spiegare COSA E’ un’opera e non COME E’.
Ovvio che sia più che lecito per un critico esprimere un giudizio. Ma questo, a mio avviso, è secondario e va comunque specificato che si tratta di opinione soggettiva, sebbene autorevole. L’autorevolezza di un critico non si esprime nell’opera di convincimento delle proprie opinioni presso gli altri. Ma nella capacità di fornire agli altri gli strumenti adeguati per farsi un’opinione autonoma.
Credo che questo sia valido per ogni forma artistica. Cinema compreso.

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 00:10 da Enrico Gregori


Enrico, se non ti spiace, vai a buttare un occhio a quel che ho scritto pochi commenti fa.

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 00:35 da Sergio Sozi


@ sergio:
porca puttana, il tuo scritto mi era sfuggito e, di conseguenza, me ne stavo andando serenamente a leggere il Costantini-Falcone. Ora, invece, mi avvio mesto tra le coltri con la sgradevole sensazione di essere per una volta d’accordo con te
:-)

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 00:40 da Enrico Gregori


Cara Zauberei, bentornata,
per quanto mi riguarda, dico una cosa non nuova (ma che ho fatto mia) dicendo che la buona critica e’ una scrittura che eguaglia l’opera da essa criticata, vagliata. Per questo, secondo me esistono due categorie ben precise: quella della Letteratura Primaria (i cosiddetti ”autori”) e quella della Letteratura Secondaria (i critici. Buoni. Ottimi.).
Se i critici sanno spiegare un’opera aggiungendole qualcosa di sconosciuto per la moltitudine, allora sono anch’essi, in un certo qual modo, degli scrittori.
Ma questo nei limiti della divisione in generi e specificita’, che considero comunque netta e rigida. Senza ibridazioni e confusioni.
Sozi

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 00:45 da Sergio Sozi


Sergio, devo confessarti che mi aspettavo un tuo riferimento a Croce.
Per quanto mi riguarda apprezzo del Croce l’opposizione al positivismo con l’obiettivo di creare un sistema di di riferimento filosofico che fosse razionale, ma sopprattutto laico viste le riletture di De Santis, Vico, Hegel. Forse però la sua contemporanea critica contro l’irrazionalismo lo ha condotto troppo oltre, verso una posizione persino polemica contro la facile retorica e soprattutto i miti decadenti. Devo confessarti che ho capito meglio certe sue posizioni solo quando ho letto più a fondo la sua concezione di arte, quale intuizione pura ben distinta dalla conoscenza teorica, dall’atto morale, dalla predicazione.
Un pensiero a me molto caro e che sono andato a riprendere per non fare qui errori è quello che scrive ancora negli Ultimi saggi:
“questo è l’incanto della poesia: l’unione del tumulto e della calma, dell’impulso passionale e della mente che lo contiene in quanto lo contempla. La vittoria è della contemplazione, ma è una vittoria che freme tutta della battaglia sostenuta e che ha sotto di sè l’avversario domato e vivente. Il genio poetico coglie e ferma questa linea sottile, in cui la commozione è serena e la serenità è commossa”.
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Tuttavia, pur nell’orgoglio degli scritti dei nostri progenitori che sai essermi proprio, non disdegno, e qui forse ti farò inorridire, un critico come Harold Bloom. Intelligente, pur se americano.

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 00:47 da eventounico


Enrico,… certe volte io ti…
vabbe’, bonanotte, amico mio.

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 00:49 da Sergio Sozi


Riprendendo l’ultimo intervento di Enrico, che ho molto apprezzato soprattutto per il focus sul “cosa” e tentando un collegamento con il tuo ultimo commento a Zauberei, mi permetto di aggiungere che il critico dovrebbe essere in grado di spiegare “cosa è” l’opera anche allo stesso autore. Così facendo, entrambi hanno tentato di guardare le cose cercando un diverso punto di vista e forse proprio per questo entrambi artisti.

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 00:51 da eventounico


Per Massimo.

Grazie per l’articolo uscito sul Mattino; condivido in pieno quando si dice che la pubblicazione del leggendario Postmodernism di Jameson non ha avuto i suoi frutti: nessun dibattito (segnalo, però, l’uscita quasi contemporanea dell’ultimo libro di Berardinelli, “Casi critici”, per Quodlibet), nessun ripensamento delle categorie che, vedi un po’, proprio negli Usa hanno prodotto discussioni e centinaia di saggi. Non per fare un’apologia degli Usa (ci mancherebbe!), ma in fatto di postmoderno il dibattito angloamericano è all’avanguardia. In Italia ancora stentiamo a raccoglierne gli esiti o a ragionarci su. Per non parlare del fatto che negli Usa si rilegge Gramsci, lo si studia con profondità, ed è in vigore una ripensamento del marxismo, testimoniato proprio da Jameson (mi faccio pubblicità: sto per pubblicare un libro sulla sua opera teorica), o dal compianto Said e così via. Proprio il libro tradotto da Fazi testimonia quanto siamo indietro: ci sono voluti 16 anni per portare alla ribalta in Italia un libro importantissimo (per fortuna Garzanti ne aveva tradotto il primo capitolo nel 1991), che, se conosciuto adeguatamente, avrebbe evitato la pubblicazione di molti contributi inesatti e, per certi aspetti, allucinanti. Learning from Usa? No, di certo. Piuttosto c’è bisogno di aprirsi e ricevere contributi che, per ritrosia accademica, sono stati relegati al margine.
Mi chiedi: “Secondo te ha dunque ragione la Marcheschi quando parla di “critica povera, perché vista come cronaca, rassegna dell’esistente non inserita nel quadro più problematico delle tensioni della storia”?” Di primo acchito, risponderei che la Marcheschi ha ragione, se questo mancato inserimento in un quadro più problematico corrispondesse, però, alla necessità di una verifica costante dei metodi, a un’apertura critica, insomma, verso quel che non conosciamo. La critica diventa povera quando si chiude in se stessa.
Sulle perle della letteratura americana (Roth, DeLillo e McCarthy) sono d’accordissimo con te. In Italia non abbiamo un solo scrittore del loro calibro: secondo te per quale ragione? Il vecchio continente, maestro dell’umanesimo, ha perso la sua partita… Se do uno sguardo agli ultimi dieci anni, salvo solo “Troppi paradisi” di Siti e “Gomorra” di Saviano.

A presto!
Marco

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 00:53 da Marco Gatto


Per Giulio.

Il libro di Harvey che citi (1990) è utilissimo, un grande libro! Peccato che in italiano l’abbiano tradotto con un titolo fuorviante, “La crisi della modernità” (1993), quando in inglese suona “The Condition of Postmodernity. An Enquiry into the Origins of Cultural Change”. Mistero. E’, comunque, credo, un libro che Harvey ha superato: mi è capitato tra le mani uno dei suoi ultimi libri, “The New Imperialism” e alcune tesi del libro del ‘93 hanno, come è lecito, subito qualche modifica.

A presto,
Marco

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 00:57 da Marco Gatto


Bloom e’ uno bravo, certo. Ma le persone capaci nascono dappertutto per l’inafferrabile volonta’ degli dei: gia’ certi miti greci ci parlano del post-diluvio universale, narrando di come Piramo e Tisbe lanciarono delle pietre a casaccio, per far rivivere il genere umano… un Bloom la’… un Croce qua…
Gia’, un Croce che elogia un suo pari, Francesco De Sanctis, e fa a sua volta opera di critica storica:
”(…) L’opera critica del De Sanctis, cosi’ universale com’era nel suo spirito, cosi’ umana, cosi’ libera da peconcetti nazionali, s’incarno’, per altro, in una materia tutta nazionale: non fu trattazione teorica e sistematica, non fu storia universale delle letterature, non monografia su Omero o su Shakespeare o su altro poeta oggetto di universale attenzione, ma indagine della storia della letteratura italiana, la quale da lungo tempo (dal Metastasio in poi) aveva cessato dall’attirare l’interessamento europeo; di guisa che ne’ Parini ne’ Foscolo ne’ Manzoni ne’ Leopardi ebbero quella popolarita’ internazionale che non manco’ agli Schiller, ai Byron, ai Walter Scott o agli Hugo; e gli autori dei secoli precedenti trapassarono tutti (compreso Dante) nelle mani dei professori di filologia romanza e degli specialisti. (…)”
(B. Croce, da La letteratura della nuova Italia, vol. I, pp. 338-9)
Sergio Sozi

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 01:21 da Sergio Sozi


Eventounico,
be’… io direi che il critico dovrebbe ”proporre con delicatezza” il suo punto di vista sull’opera al suo autore. Ognuno a casa sua, pero’: Letteratura Primaria e Letteratura Secondaria… ma con contatti frequenti e non per forza necessari almeno al fine della creazione dell’opera letteraria primaria (poetica, narrativa).
Marco,
facendo tanto di cappello per Jameson e per il tuo lavoro di analisi a esso relativo, non reputo personalmente necessario ne’ utile sforzarsi di parlare del Postmoderno quando ci sono migliori opere narrative o poetiche o critiche di scrittori croati, sloveni, rumeni, francesi, tedeschi, bosniaci, italiani, eccetera che nulla hanno ne’ vogliono – per fortuna – avera che fare con questa ambientazione ed interpretazione del mondo attuale. Un’interpretazione come tante, senza nulla in piu’ di quelle d’ordine prettamente locale o nazionale – ovvero tradizionale e antico insomma.
Sergio

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 01:37 da Sergio Sozi


Preciso il perche’ di questa mia presa di posizione, che potra’ sembrare un tantino ottusa: credo che un critico debba avere dei forti radicamenti nazionali e conseguentemente culturali, tali da farlo pensare, operare, analizzare ed infine esprimere pubblicamente, su delle basi proprie, solide e non generiche, confuse e avvoltolate, caotiche e forzatamente nuove come quelle che il Postmodernismo oserebbe proporre.
Sergio

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 01:42 da Sergio Sozi


P.S.
Considero comunque la nostra Era alle sue ultime battute – ho gia’ detto che siamo alla fine: basterebbe l’esaurimento dell’energia elettrica per distruggerci – ma mi sforzo di difenderne una (ancora ottenibile) riviviscenza ”pre-in punto mortis”, di capacita’ di sperare in una rinascita, collegata per forza e per logica alla storia delle Ere passate.
Buonanottea tutti, amici

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 02:13 da Sergio Sozi


Sergio…e se l’unica rinascita fosse nella contaminazione o nella ibridazione ? O romani o morti ? Eppure ogni civiltà è sopravvissuta grazie alla possibilità di essere il passato di qualcosa di diverso. Mi sembra che la professoressa Marcheschi tracci una utile strada in
tal senso. Una strada che passa, tuttavia, da una sovranazionalizzazione piuttosto che da un Olimpo ben radicato al centro di una nazione isolata. In fondo abbiamo un solido (recente) passato in tema di emigrazione. Con le valigie piene dei nostri sacri testi cosa possiamo temere ? Solo l’ombra dei nostri campanili, a mio modesto avviso.

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 07:54 da eventounico


@ evento:
in effetti hai aggiunto un elemento secondo me importante, ossia che il critico possa avere anche il compito di spiegare cosa sia un libro all’autore del medesimo.
In effetti, seppur non critici, nel mio piccolo mi sono divertito e interessato tantissimo a sentire tutte le interpretazioni dei presenti ogni volta che si parlava del mio libro.
Ognuno “mi spiegava” il mio libro e spesso anche nelle maniere più disparate. La cosa che mi ha sorpreso è che, in fondo, avevano ragione tutti…e io meno di tutti
:-)

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 08:37 da Enrico Gregori


@ Enrico: sono d’accordo con te e Sozi. La lettura di un testo altrui è sempre, in qualche modo, “creativa”. O forse è anche di più: “metafisica”, nel senso che sa cogliere anche ciò che l’autore non sa di aver detto, ma che a livello profondo viveva in lui e si agitava a fior di penna.
La verità è che la letteratura può essere certamente indagata, spiegata, offerta all’attenzione degli altri attraverso strumenti tecnici che la rendano intellegibile.
Ma mi piace pensare che sia anche e soprattutto un’azione del cuore. Che sente. Che si emoziona. Che coglie – in una condivisione misteriosa e intimissima tra lettore e autore – il mondo di un altro.
Spiegare agli altri e spiegarsi l’origine e il significato di un’opera (sia essa letteraria, cinematografica, pittorica…) vuol dire a mio avviso riviverla dentro di sè col maggior rispetto possibile e con grande apertura interiore.
Dopo, a libro chiuso, a occhi spenti, può essere che un po’ di quell’universo esplorato rimanga in noi e ci abiti a lungo.
In quei casi, se fossi un critico, direi che l’opera d’arte è perfetta, perchè oltre se stessa si è costruita in altri.

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 09:59 da Simona


Il post è molto interessante… Cercherò di intervenire offrendo anche i miei ricordi universitari, oltre che le mie riflessioni.
Quando morì Petronio, lo storico della letteratura su cui mi ero formata, pensai immediatamente che la storia della letteratura come genere letterario fosse morta per sempre. Adesso abbiamo repertori validissimi, aggiornati quanto si vuole, ma non una forte idea di cosa sia la letteratura o cosa sia la STORIA della letteratura. Sto rileggendo il Sapegno, che tende un po’ ad appiattire tutti gli autori in nome dell’idealismo crociano. Insegno Lettere nei licei e i testi antologici e di storia letteraria che vengono propinati agli alunni sono fortemente frammentari e troppo impregnati di strutturalismo.
Ciò detto, penso che l’Italia oggi sconti la disaffezione verso la nostra millenaria tradizione, l’annosa lite tra critici accademici e militanti e un’esterofilia mascherata da europeismo o americanismo o interesse per le letterature “altre”. è come se avessimo esaurito la spinta propulsiva che ha insegnato l’arte al mondo. Purtroppo non è più tempo di Umanesimo o di Rinascimento e il nostro provincialismo è evidente. Non possiamo però piangerci addosso e fare la parte delle vittime per il fatto di vivere nella periferia della periferia dell’impero…
C’è tutto un movimento di lettori, di autori emergenti, perché no? di blog e siti, di corsi di lettura e scrittura creativa che hanno permesso e stanno permettendo a chi vuole di sprovincializzarsi e di leggere e scrivere in un mondo globale che però rispetti e valorizzi le differenze nazionali – che esistono!!! – . La critica però non ha più la forza di un tempo, quando il commento al nuovo Pasolini o MOravia riempiva le pagine dei quotidiani e delle riviste, oggi in tutt’altre faccende affaccendati… Il pubblico non fa più capo ai critici per sapere cosa leggere e cosa no. Si fida maggiormente dei responsi e dei pareri tam-tam dei lettori stessi. Siamo in una società peer-to-peer, e come tutte le autorità prima rispettate e riconosciute anche quella del critico è caduta.
Secondo il mio modestissimo parere, più che pensare al critico universitario che non ha più di venticinque lettori oggi è meglio puntare sull’idea che hanno gli autori sul loro lavoro, sui dibattiti scatenati in un blog, molto più autentici, che hanno se non altro il merito di tastare il polso allo stato delle cose…
Mi riservo di riparlarne!!!

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 10:05 da Maria Lucia Riccioli


@ eventounico & sergio:

anche qui, tornando alle parole della Marcheschi: “E, sopratutto, non si può fare letteratura, né come autori né come critici, se non ci si rende conto che i valori vengono sempre discussi e negoziati, e che bisogna essere consapevoli perché certe esperienze si sono affermate, o sono state sostituite. I valori vanno sempre continuamente ridiscussi.”
E interpreto: i valori vengono di fatto ridiscussi e negoziati dalla comunità. Ciò comporta che chi fa letteratura ne deve essere consapevole, e proporre un punto di vista aggiornato, anche quando fa i conti con le radici da cui i valori provengono. In fin dei conti, i cristiani riprendono le virtù romane pari pari (giustizia, prudenza, fortezza, temperanza) e le definiscono “cardinali”, ma poi ci aggiungono quelle teologali: di fatto, discutono e rinegoziano il valore dei valori. In letteratura succede lo stesso: Wilhelm Meister di Goethe si pone contro i valori una società mercantile per avere una sua “realizzazione” che è storicamente molto diversa, anche se misticamente vicina, da quella di Dante nella Commedia – che lottava contro “nemici” diversi.
A proposito: per molti versi io trovo che questa uscita dal mondo (© Elemire Zolla) sia un importantissimo tema della letteratura, e che l’equivoco contemporaneo sia che, dopo Joyce e i suoi Dubliners e il suo Ulysses, gli scrittori attuali si stiano crogiolando troppo nel mostrare che l’uscita è impossibile (Roth ne è un campione fastidiosamente bravo), mentre di fatto essa è semplicemente ostruita, come Joyce stesso dimostra nei Dubliners, e può essere sgombrata. Vedi Dedalus.
La nostra via tradizionale (oddio che paroloni sulfurei!) in letteratura non può lasciar fuori Cicerone o Dante o Pirandello, e deve anche confrontarsi con i grandissimi come Cervantes o Kafka o Hemingway, ma allo stesso tempo deve fare i conti con Tonino Guerra che fa pubblicità a Unieuro e il grido di dolore delle vedove dei morti per mafia. Chiedo troppo?

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 10:41 da Paolo S


@ simona:
grazie. il mio intervento, se ti va di andare a sbirciare il post sulla befana, è praticamente l’estensione di quanto ho espresso lì parlando (giocosamente) di alcuni libri scritti da noi blogghisti. Leggere, per me, è difficile almeno quanto scrivere. Se non di più

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 10:50 da Enrico Gregori


Non credo, Paolo. Non mi sembra ci siano molte alternative e, piuttosto che sentire questa condizione come minaccia, preferisco viverla come opportunità. Viverla.

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 10:54 da eventounico


“Ognuno “mi spiegava” il mio libro e spesso anche nelle maniere più disparate. La cosa che mi ha sorpreso è che, in fondo, avevano ragione tutti…e io meno di tutti.”

Enrico, i lettori esprimono il loro pieno diritto di possesso sulla ragione.

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 10:58 da eventounico


Maria Lucia, anch’io sono stato form(att)ato dal Petronio! Che tristezza… Il problema che non è più tempo di Umanesimo e Rinascimento, da te giustamente sollevato, è n problema antropologico.
In Italia non abbiamo abbastanza speranza nell’uomo per produrre letteratura interessante. Non si scrive per ipotesi, si scrive per speranze. Azzo, sto diventando militante. Stop alle scemenze, adesso stacco.

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 11:00 da Paolo S


Grazie Sergio un saluto.
sono moltissimo in sintonia con Maria Lucia Riccioli.
Posso parlare di me?
Non perchè io mi senta speciale, ma perchè io mi sento molto comune: mi sento cioè un medio lettore competente, cioè una persona a cui piace fruire della letteratura e sporadicamente della sua esegesi, ma da profana – perchè mi occupo di altro. Mi sento un lettore medio tipico. Non sprovveduto e anche un po’ spocchiso – siamo tanti e compriamo libri.

Pure, noi lettori avveduti, non distinguiamo più con tanta nettezza la letteratura da ciò che non dovrebbe esserlo. Io ho 34 anni, e quando sono nata attorno a me già Andy Wharol aveva moltiplicato le faccie di Marylin, Duchamp aveva messo i baffi alla gioconda, e si scopriva che il significato poteva essere nello sguardo più che nel testo. Non distinguiamo più la Cultura alta dalla Cultura Pop. sappiamo che l’altezza prima che ambizione è un tributo: il jazz era una roba da cantine, oggi è una questione di teatri. Il prudurre Significati non sta quasi più a chi scrive ecco, men che mai nei suoi buoni propositi- fare teoria critica è in questo senso per me più controllabile e tutto questo discorso quindi più pertinente.
Ma il motivo per cui la teoria critica può avere degli imperativi e degli obbiettivi e la letteratura no, è proprio in quel commento che qualcuno ha scritto sopra: un critico può scrivere delle cose in più su un romanzo, in più per l’autore stesso del romanzo.
Discorso lungo, spero di non essere stata eccessivamente astrusa.

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 11:10 da zauberei


purtroppo su questi argomenti non so commentare ! questa per me e’ alta letteratura ed io non mi sento all’altezza, nonostante le mie numerosissime letture varie…. e’ bellissimo pero’ leggervi….tutti……e’ come leggere un nuovo libro…….
saluti anna di mauro

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 11:27 da anna di mauro


@Enrico: ho letto anche il tuo intervento sul post dela befana e concordo. Essere bravi lettori è certamente difficile quanto essere bravi scrittori, forse più. Perchè esige più rispetto. Più capacità di sfrondarsi di preconcetti. Di sentire le parole con animo libero, pulito.
Non è facile. Ma credo che la maturità nel leggere sia strettamente legata alla maturità umana. E che un percorso interiore pieno, sano, agevoli un bravo lettore (come un bravo scrittore).
Un abbraccio.

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 11:47 da Simona


Per Sergio.

Caro, non sono d’accordo con te quando dici che esistono scrittori di varie nazionalità che null hanno a che fare col postmoderno, che per te è “Un’interpretazione come tante, senza nulla in piu’ di quelle d’ordine prettamente locale o nazionale – ovvero tradizionale e antico insomma”.
Secondo me è un errore considerare il postmoderno uno stile, una corrente, un modo come un altro di fare letteratura. Sono d’accordo con Jameson quando afferma che la postmodernità rappresenta la nostra condizione sociale, culturale ed economica. Siamo tutti postmoderni: si può sfuggire a questa logica? Certamente. Anche attraverso la letteratura. Si è uomini della postmodernità che rifiutano tale condizione (che, ricordiamolo, è la condizione socioeconomica imposta dal tardo capitalismo, non certo da una scuola di pensiero). La partita si gioca sulla capacità di innescare meccanismi di resistenza a questa temperie storica, riabilitando il Reale al posto del finzionale, ricreando modelli pesanti, sistemi filosofici, al posto dei discorsi teoretici à la Vattimo: un postmodernismo della resistenza, insomma. Finché non riusciremo, dopo uno sforzo utopico presente, a vivere quell’alternativa che abbiamo a lungo immaginato attraverso la letteratura: e l’alternativa non può essere che la distruzione di quel sistema socioeconomico che ha prodotto la nostra era della leggerezza (come si fa a dire che il postmoderno è finito se esiste ancora Berlusconi?, se la piena occupazione è una chimera – semplicemente perché il tardo capitalismo multinazionale necessita di schiere di precari -, se la nostra condizione permanente è quella dell’incertezza per il futuro, se la letteratura da utopica sta diventando distopica?).

A presto,
Marco

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 13:01 da Marco Gatto


Un dibattito cosi ricco e specializzato, potrebbe fare a meno tranquillamente della mia opinione. Spesso, come ammesso da qualcuno su questo blog, parliamo per visibilità e presunzione, nell’1% è forse vero, per il resto si interagisce arricchendosi e io veramente, dopo essermi “succhiato” tutta la Corazzata Potiomkin del post, mi sento meno ignorante di un’ora fa.
1) Si parla di critica letteraria e per me (nozionista povero e provvisto di una cultura sommaria, dove ho cominciato leggendo Piero Chiara per andare a ritroso, prima da Ceccho Angioleri e poi a Dante) ha risposto in modo egregio Enrico Gregori, non perchè Enrico sia un semplicista ma sostanzialmente perchè è un giornalista e ha mediato culturalmente tra i nobili imprimitori e me lettore. Ecco il punto reale che chiediamo ( alcuni di ) noi lettori, che la critica letteraria, non dovendo necessariamente rasentare la recensione, che è spesso un’improba promozione culturale, scenda a patti linguistici più accettabili e cerchi, oltre l’esegesi accademica, di coinvolgere.
Esempio lampante è che, prima dell’intervento di Enrico Gregori, io non avevo compreso quello mirabile di Sergio Sozi e ho dovuto ammettere con una dannazione da recluso alla Guyana, di essere d’accordo col cronista di Rififì.

2) Poi la critica, un po’ come la cultura popolare mondiale, tende ad assomigliare, nonostante il cambiamento di genere. I critici musicali, i critici d’arte e quelli letterari, sono sempre alla ricerca psicosomatica delle “intenzioni” recondite dell’artista, del non detto interiore che scaturisce; nello scrittore nell’assemblare di parole utili al raccontare, come le note nel musicista e il cromatismo nel pittore.
Sozi ha parlato di “seconda creazione letteraria”, io ho inteso letteratura di tipo B, come arte di tipo secondaria è il mestiere delle altre due categorie che ho citato sopra. Non ho voluto, ma era percepibile, parlare di “Critica” come frustrazione dell’inetto, ma tanti critici sono stati scrittori non eccelsi, e tantissimi critici musicali ed artistici sono amanuensi che mettono in pratica e, rare volte completano, un lavoro gia deciso dall’architetto: l’artista.
Dico questo, ripeto, con profonda umiltà, come le matricole universitarie che fanno affermazioni roboanti senza ancora comprendere a che facoltà si sono iscritte.
Qualsiasi risposta contribuirà alla mia crescita culturale, non ho dubbi al proposito.

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 16:24 da francesco di domenico


@ didò:
io ti ringrazio ma ti assicuro che in questo post ho solo espresso delle opinioni senza entrare troppo nel merito in quanto non sono preparato a dovere sull’argomento. al di là delle consuete prese per i fondelli, questa è davvero materia di sergio sozi a prescindere dal barocchismo con il quale si esprime
:-)

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 17:02 da Enrico Gregori


Mi associo a quanto già detto da altri, quelli che in qualche modo si dichiarano di non sentirsi all’altezza di intervenire in quanto non padroni della materia, ma che leggono con attenzione questo post, come sto facendo io. E vorrei però sottolineare quanto siano interessanti anche i loro commenti, talvolta chiarificatori come quelli di Gregori (che non si era neanche accorto di dire in volgare quanto già espresso in latinorum dall’esimio Sozi), comunque intelligenti e di più ampio respiro rispetto a quelli specialistici. E senza cadere nel cazzeggio (contento, Massimo?). Grazie quindi anche a Zaubarei, a Didò e agli altri “non addetti ai lavori” che talvolta spezzano il ritmo un po’ troppo serrato degli interventi dotti, rendendo il tutto più fluido e più “leggibile” anche a noi profani.
(Scritto più che altro per testimoniare la mia presenza ed interesse pur senza sostanzialmente intervenire).
Saluti

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 17:46 da Carlo S.


Comunque la lettura dell’intervista mi ha fatto venire voglia di andarmi a cercare e leggere la “geografia e storia…” del Dionisotti.
Anche questo è un risultato (o no?)

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 17:51 da Carlo S.


PS: e comunque che Gregori stesse dicendo le stesse cose di Sozi non me ne ero accorto neanche io. Però Gregori l’avevo capito, e Dio glie ne renderà merito.

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 17:55 da Carlo S.


@ carlo:
ti ringrazio molto ma temo che il generale andamento della mia vita sia abbastanza in controtendenza con le opinioni di Dio. E, tra i due, sono portato a credere che abbia ragione lui. Oppure oggi mi sento modesto.
:-)

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 18:01 da Enrico Gregori


@ enrico
tutti andiamo (chi più chi meno) in controtendenza con le opinioni del megaboss. Secondo me anche il Papa. L’unico che crede possibile aver ragione lui è un certo cav. S.B.

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 18:20 da Carlo S.


@Greg:
anche tu come me! Io sono nato di pomeriggio, Dio a quell’ora s’appisola: a me m’ha fatto S.Pietro! A te forse Santa Lucia che da’ la vista ai cecàti.

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 18:21 da francesco di domenico


E, per non innescare ulteriori rotture di filo in questo post molto serio, vado giù in cantina che uso da laboratorio di restauro e d’assaggio rossi di Montepulciano: ho la testa di un padre Pio da azzeccare sul collo e un nuovo rosso da assaggiare!

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 18:26 da francesco di domenico


@ didò:
caro mio, io sono nato alle 16 di pomeriggio, pioveva, faceva un freddo di merda, il medico aveva detto a mia madre che sarei sopravvissuto al massimo due ore e, dulcis in fundo, era anche domenica. Mi pare evidente che, tutto ciò sommato, in quel mentre l’Onnipotente stesse giustamente godendosi Juve-Milan. Da lassù c’ha una visuale che te la sogni!

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 18:36 da Enrico Gregori


Grazie a tutti per gli approfonditi interventi. Ho detto poc’anzi:
”non reputo personalmente necessario ne’ utile sforzarsi di parlare del Postmoderno quando ci sono migliori opere narrative o poetiche o critiche di scrittori croati, sloveni, rumeni, francesi, tedeschi, bosniaci, italiani, eccetera che nulla hanno ne’ vogliono – per fortuna – avera che fare con questa ambientazione ed interpretazione del mondo attuale. Un’interpretazione come tante, senza nulla in piu’ di quelle d’ordine prettamente locale o nazionale – ovvero tradizionale e antico insomma.”
Bene. Senza indulgere troppo in giri di parole, riaffermo, da lettore anche di altre Letterature, quanto qui sopra ricordato, aggiungendo solo che la Postmodernita’ e’ una delle miriadi di concezioni della nostra Era, mentre invece l’esistenza – sia nella Letteratura che nella vita quotidiana – delle tradizioni nazionali (al di la’ degli aspetti economico-occupazionali) e’ un fatto concerto. L’Italia crede che il Mondo sia postmoderno senza accorgersi di essere essa stessa malata di questa convinzione. Gli altri miliardi di cittadini (escludendo forse molti Statunitensi) infatti vivono diversamente e scrivono diversamente da quel che certi teorici e analisti vorrebbero che scrivessero e vivessero. Basta andare avivere all’estero per capirlo, questo. La Postmodernita’ e’ un’idea. Come le altre.
Sozi

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 19:26 da Sergio Sozi


Scusate: concerto=concreto.

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 19:27 da Sergio Sozi


Dido’,
intendevo dire che un bravo e vero critico scrive opere di finezza e profondita’ tali da poter esser considerate come ricreazioni dei libri che commentano. Insomma delle opere artistico-letterarie ma non del genere delle altre, pertanto inseribili in diversa categoria.
Ecco cos’e’ in soldoni la Letteratura Secondaria, secondo il mio modesto parere.
Salutoni
Sergio

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 19:34 da Sergio Sozi


Un’ultima (amichevole come sempre) osservazione per il caro Marco, il quale insiste (come il sottoscritto d’altronde) sulla sua weltanschauung, sottolineando che ”Siamo tutti postmoderni: si può sfuggire a questa logica? Certamente. Anche attraverso la letteratura. Si è uomini della postmodernità che rifiutano tale condizione.”.
Eccola:
E’ forse l’unica teoria filosofica dell’esistente, questa? Te la sentiresti di affermare l’inesistenza di altre concezioni?
Ciao
Sergio

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 19:41 da Sergio Sozi


Una (ulteriore ma diversa) precisazione per coloro ai quali dovesse interessare l’argomento ”linguaggio di Sozi” (!!):
sicuramente tutti sapranno gia’ che in Italia non esistono solo lo stile scrittorio giornalistico e quello ”latinorum” di cui (a detta di alcuni) io sarei un esempio, ma molti stili e registri, che vanno dal basso all’alto, attraverso molteplici vie intermedie. Ecco: io qui adotto uno stile medio-alto, niente piu’. Semplifico ma non troppo i concetti che ho in mente e nel cuore. E studio per capire il ”latinorum” altrui: tutti lo possono fare che’ i libri costano poco rispetto a cinquant’anni fa, le biblioteche sono gratuite e l’Universita’ e’ di massa (nonostante i suoi difetti ma lasciamo stare le divagazioni). Inoltre, quel che oggi e’ considerato ”barocco” per via della mediocrita’ imperante (ovvero la scrittura superficiale e veloce di molti), appena vent’anni fa era generalmente ritenuto uno stile, appunto, ”medio-alto”. E io sto li’, pur stando ”qui”. Per molti ma non per tutti. O meglio: per chi studi come me.
Saluti cari
Sergio

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 19:58 da Sergio Sozi


Cara Zauberei, tu scrivi: ”Il prudurre Significati non sta quasi più a chi scrive ecco, men che mai nei suoi buoni propositi.”
Si’, dico: solo se lo scrittore non vale niente e’ cosi’. Altrimenti sta’ certa che i significati te li da’ lui in abbondanza. E il critico ne aggiunge degli altri. Se l’opera invece e’ stupida (la stupidita’ di massa e’ un fatto concreto: togliere personalita’ ai cittadini resta l’imperativo dei mercanti di sempre), se l’opera e’ stupida dicevo, allora solo il lettore la riscrive e la migliora. Warhol e’ nato infatto da scemo fra gli scemi. E tale resta tutt’ora.
Saluti cari
Sozi

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 20:10 da Sergio Sozi


Massimo Maugeri,
pensavi all’inizio che ti avrei ‘’sommerso su Moravia”, invece… sono sottilmente e perfidamente felice di quanto ipotizzato dalla prof. Marcheschi ma non metto becco, perche’ non ho mai letto ”La famiglia Golovlioff” e dunque non mi permetto di esprimere la mia soddisfazione in termini di rigorosita’ scientifica.
S.

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 20:24 da Sergio Sozi


Carissimo Sergio,
ti scrivo perchè ho timore che tu ti sia sentito piccato dal mio “latinorum” che ti avrei appioppato. Non voleva essere una critica ma una semplice constatazione della differenza tra il linguaggio immediato di Enrico e quello più ricercato e complesso nell’articolazione delle tue argomentazioni, da te usato: ma senza alcun giudizio di merito. Credimi, ho grande stima e rispetto del tuo lavoro, del tuo studio e delle tue opinioni, anche quando non sono pienamente d’accordo con te.
Ci tenevo a precisarlo. Con affetto,
Carlo

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 21:04 da Carlo S.


Io apprezzo lo stile di Sergio, francamente. Quello che oggi va tanto, mezzo Severgnini e mezzo Pinketts, mi pare sia passato di moda. E a me non dispiace.

Un caro saluto al blog,

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 21:23 da Giulio


Sergio, siamo d’accordo su un sacco di cose – per esempio sulle braccia rubate all’agricoltura di Wahrol. Pure era il momento che arrivasse qualcuno a dire quello che ha detto lui, non credo che avremmo potuto farne a meno.
In verità questo dibattito tuo con Marco Gatto mi sollecita molte riflessioni, e solo che ho paura di prendere cantonate, perchè ho letto Jameson qualche anno fa- e mi colpì molto, ma ora ho paura di dire baggianate, lo lessi superficialmente, senza doveri ecco. In ogni caso, siccome è decisamente migliore del mondo che descrive, e contro cui appunto oppone resistenza, si sono contenta di sapere che qualcuno ci faccia un saggio sopra.
In verità mi si sono aperti degli interrogativi – cioè degli interrogativi su degli interrogativi possibili. sentivo nella discussione una specie di antinomia segreta, tra uno sgurado che vuole il singolo come titolare di significati, come soggetto che dice, e un altro che poi è quello filosofico, e che detronizza il singolo di questa titolarità e lo fa sempre più o meno efficacie simbolo di un momento storico culturale.
So già che la critica si è occupata ampiamente di queste cose e io scopro l’acqua calda. E va beh:)

Grazie comunque a tutti!
e pure a Paolo S. eh!

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 22:30 da zauberei


Carlo S. no PaoloS.

pardon

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 22:31 da zauberei


Sono qui. Grazie davvero per i vostri nuovi commenti.
Un abbraccio a tutti.
Siete bravissimi!
:)
Questo post si è sviluppato in maniera molto, molto interessante.

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 22:42 da Massimo Maugeri


@ Zauberei.
Sulla “americanità” di Roth non hai tutti i torti, ma ne parlermo meglio domani (nel prossimo post, che coinvolgerà anche il buon vecchio Phil).
-
@ Sergio.
In effetti su Moravia abbiamo già abbondantemente (e simpaticamente) duettato a suon di brani estrapolati da manuali ed enciclopedie di storia della letteratura.

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 22:47 da Massimo Maugeri


Continuo a pensare che questo possa essere un’ottimo spazio per “costruire i ponti” di cui parlava Luisa (ponti per unire, in senso positivo; ponti di qualità). Molti dei vostri commenti mi hanno confermato quest’impressione.

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 22:49 da Massimo Maugeri


Sono riuscito a contattare al telefono Daniela Marcheschi (persona davvero cordialissima). Solo dopo qualche minuto di conversazione ho scoperto che, al momento, si trova all’estero (figuraccia!).
In ogni caso sarà ben felice di partecipare al dibattito e rispondere alle vostre domande e sollecitazioni quando rientrerà in Italia (credo la settimana prossima).

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 22:53 da Massimo Maugeri


Zauberei,
1) Un conto e’ il contenuto di Warhol (semplice per lui – ”Ognuno ha diritto al suo quarto d’ora di celebrita’ e dunque adesso me la piglio io per primo e ci campo da ricco” – e complesso per i critici d’arte che ci lucrano sopra), un conto e’ la forma (brutta). Io comunque avrei fatto volentieri a meno di tutte e tre: Warhol, la sua forma e il suo contenuto.
2) A proposito del ‘’singolo individuo”. Costui (noi?) e’ a mio avviso depauperato di senso e di significato dalle condizioni attuali volute dal solito potere economico. Condizioni accettate dai barbari che preferiscono avere quattro soldi in tasca piuttosto che esser se stessi poveri come due secoli fa – senza capire che questa condizione e’ inumana e sottoumana. Una via di mezzo (benestanti ma non istupiditi) e’ ancora lungi dall’apparire, almeno in Italia (nell’Europa centrale la situazione e’ migliore per via dei diritti-doveri di padronato e dipendenti ben chiari a entrambi).
Ho preferito banalizzare il secondo punto piuttosto che avviare una ricerca filosofica troppo lunga e inadeguata a questo spazio.

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 22:57 da Sergio Sozi


Carlo,
parlavo in generale. Sono cose che molti pensano leggendomi.

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 22:59 da Sergio Sozi


Grazie, Giulio. Io comunque scrivo cosi’ perche’ mi viene spontaneo. Almeno nelle Lettere si puo’ esserlo.
Salutoni
Sergio

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 23:02 da Sergio Sozi


Vi lascio con questo “spunto”… per fornirvi un’ulteriore occasione di dibattito (in coda a quello principale).
Tra le altre cose, la professoressa Marcheschi mi ha accennato che in contesti molti difficili (come in certi luoghi africani) si è sviluppata un’ottima “letteratura dell’umorismo”.
A me è venuto spontaneo considerare che anche noi, qui in Italia, abbiamo una grande tradizione di “letteratura dell’umorismo” (che va da Boccaccio a Pirandello). La sensazione, però, è che oggi tale tipo di letteratura venga considerata minoritaria. Provocatoriamente mi viene da dire che, di questi tempi, se un autore italiano tenta di cimentarsi nella realizzazione di opere impregnate di umorismo (o comicità) corre il rischio di essere considerato autore di serie B.
Voi che ne pensate?

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 23:03 da Massimo Maugeri


Chi afferma che la Letteratura umoristica sia di per se’ un genere minore dice una scempiaggine. Da tutto Plauto al ”Bertoldo e Bertoldino col Cacasenno” di G.C. Croce, alla ”Secchia rapita” del Tassoni; da certi aspetti del ”Satyricon” al Boccaccio, senza dimenticare Burchiello e G.B. Basile, fin giu’ a Guareschi, De Filippo, al migliore Campanile e agli altri citati dal Maugger, questo genere ospita ”emeriti cretini” ed ”emeriti emeriti” (non ho qui elencato i cretini, ovviamente).
I canoni variano durante le epoche e nelle diverse Nazioni e Regioni, ma sempre resta difficile far ridere intelligentemente qualcuno. Sempre. In ogni caso, l’umorismo di ‘’serie A” a me sembra quello delle beffe e delle battute bonariamente sferzanti ma innocue, comprensive della buffezza intrinseca dell’intero genere umano, nel quale anche lo scrittore deve inserirsi. Ve ne sono tracce in tutti gli umoristi ”non per caso”.
Di solito i cretini del genere umoristico sono quelli che non ridono alle proprie battute mentre le stanno scrivendo e quando se le rileggono.

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 23:41 da Sergio Sozi


P.S.
Se la discussione sfocia nel parlare dei comici televisivi, cinematografici o teatrali non scrivo piu’ perche’ non mi interessa l’argomento.

Postato mercoledì, 9 gennaio 2008 alle 23:46 da Sergio Sozi


Per Sergio, di nuovo, amichevolmente!

Non vorrei passare per postmodernista o filo-postmoderno: riconosco, certamente, che ci sono opere letterarie, non solo italiane, che fanno pensare giustamente a margini di resistenza anche forti alla temperie. Quel che vorrei dire, umilmente insieme a Jameson (visto che costui è l’unico che ancora crede all’esistenza della postmodernità), è che non esiste uno stile postmoderno, ma una condizione storica postmoderna, databile in Italia a partire dal dopo-Pasolini, in coincidenza cioè dell’emersione di un capitalismo di stampo multinazionale. Ora, senza tirare in ballo Lukacs, se c’è stata una modificazione del nostro stile di vita, del nostro modo di guardare le cose, dovuta a una nuova organizzazione economica del modo di produzione, deve esserci stata per forza una trasformazione anche in quella che i marxisti chiamano “sovrastruttura”. E’ un’ipotesi di periodizzazione che trova riscontro in molti dei nostri fenomeni. Un solo esempio: nessuno si sogna di contestare la differenza abissale che c’è tra una sinfonia di Mahler (prodotto moderno, seguendo Adorno) e una composizione di John Cage o del compianto Stockausen. Ma se la sinfonia di Mahler, bene o male, i critici e gli intellettuali riuscivano a inquadrarla, le composizioni di Cage non le capisce nemmeno lui stesso. Il postmoderno inizia quando le avanguardie cominciano a essere studiate nelle università: quando cioè l’opera d’arte perde il suo potenziale contestativo e sovversivo. A rigor di logica, ce la sentiamo di affermare che un romanzo possa convincere Bush che la guerra è orrore?
Affogati come siamo nella cultura di massa, s’è persa qualunque differenza tra cultura di massa e cultura alta: il postmoderno, celebrando la mercificazione come processo immateriale, non fa che abbattere le vecchie categorie moderne, ostacola la possibilità del Nuovo (penso al poeta: bisogna essere assolutamente moderni!) e ci dà l’impressione di un eterno presente, in cui passato e futuro si mescolano, creando incertezze nelle aspettative di vita (il precariato, l’impossibilità di costruirsi una piena occupazione ne è l’effetto lampante). Siccome il tardo capitalismo è lungi dal redimersi (è più facile che muoia di morte naturale che per mano umana), la postmodernità sarà fino alla sua estinzione la sua categoria storica, il postmodernismo la sua dominante culturale. Ora, come possiamo sfuggire a ciò? Ci sono due modi, a mio parere: 1) cavalcare l’onda, come ha fatto Vattimo, senza accorgersi dei pericoli della leggerezza, e come fa attualmente qualunque autore di mercato; 2) trovare nell’inferno scampoli di paradiso, e farli durare, creando le strategie di resistenza, proponendo una letteratura vera, che sappia parlarci della nostra condizione, che prenda di petto il lettore e gli faccia capire dove stiamo andando. Se la seconda ipotesi è quella che più ci aggrada, ebbene, ciò non vuol dire che siamo moderni e non postmoderni: vuol dire che, da postmoderni, abbiamo trovato la chiave per aver coscienza della postmodernità; e solo allora avremo gli strumenti per uscirne, anche attraverso la cultura. Come poi la cultura possa influenzare un cambiamento socioeconomico, beh, questo è argomento ancora più gravoso: penso, però, che il capitalismo, come tutto, sia un prodotto umano che sia sfuggito al nostro controllo ideale; se riusciamo a prenderlo per la coda, possiamo cominciare a ragionare, con le armi del pensiero appunto, su come cambiare le cose, anche attraverso una semplice poesia.

Cari saluti!
Marco

ps: questo post è bellissimo!

Postato giovedì, 10 gennaio 2008 alle 00:09 da Marco Gatto


Vedo la Storia come continuita’ e non come un susseguirsi di epoche a tenuta stagna, Marco. Questa e’ la differenza sostanziale tra la mia tesi e la tua. Le definizioni ”Post-moderno”, ”Moderno”, ”Medioevo”, eccetera, non possono mai esser assegnate da chi viva nell’epoca in questione. Cio’ premesso; siccome, come sostengo io, l’epoca Moderna non si e’ ancora conclusa e questa era legata alle epoche precedenti, se ne evince che neanche la Postmoderna esista. E’ una teoria, una lettura, una congettura solo teorica. Eventualmente ipotizzabile (solo ipotizzabile sottolineo) limitatamente ad una parte dell’Europa e per gli Stati Uniti, ma impossibile da sostenere a livello mondiale. Dunque, eventualmente e non per forza, lo ‘’scampolo di postmodernita’ sarebbe l’Europa (e neanche tutta) e gli USA. Il resto? Il resto e’ quel che dicevo io: epoca Moderna legata indissolubilmente alle Epoche passate.
Ma credo che lo siamo anche noi, quasi tutti, in Europa.
Sergio

Postato giovedì, 10 gennaio 2008 alle 00:39 da Sergio Sozi


P.S.
Come motivi l’inizio della cosiddetta ”Postmodernita’ italiana” al dopo-Pasolini (insomma dalla fine degli anni Settanta)?

Postato giovedì, 10 gennaio 2008 alle 00:42 da Sergio Sozi


Caro Sergio,
che le nostre idee divergano è segno nobile.
Il problema del susseguirsi delle epoche è annoso: è difficile reperire un momento in cui da moderni si è passati a postmoderni. La mia idea è che il passaggio c’è stato e ha le sue motivazioni ben precise: l’esaurimento della spinta propulsiva della modernità (la crisi del soggetto centrato, la fine dei grandi modelli e delle grandi narrazioni, l’impossibilità del romanzo totale) covava in sé già caratteri residuali della postmodernità, che saranno poi dominanti. Si può ipotizzare un momento della storia in cui tali caratteri si lascino afferrare all’interno di un sistema che li rigetta perché pericolosi. Pensiamo a Montale: io metterei la mano sul fuoco che Satura è un libro postmoderno, eppure Montale è ormai un classico.
Quanto alla postmodernità italiana, la vedo connessa alla letteratura del benessere, che prende il sopravvento negli anni Sessanta, per poi esplodere nel dopo Pasolini. E’ all’inizio dei Settanta che, in letteratura, ma nella vita comune, in coincidenza con la crescita economica del paese (in quegli anni crescevamo a velocità cinesi), si avverte l’entrata in gioco di un nuovo sensorio: la letteratura lascia il campo alla televisione, nasce un’industria culturale più cattiva, nasce il mito eterno del giovane narratore, crolla l’istituzione-letteraria. Ricordo una poesia di Giuseppe Conte, un’Epistola ai letterati, in cui si chiedeva cosa fosse successo nelle anime, dopo un tempo in cui Pasolini e Fortini si fronteggiavano come ministri di due paesi avversari sulle colonne dei grandi quotidiani e parlavano del nostro tempo, del nostro mondo, con autorità. Qualcosa è successo. Pasolini lo aveva annunciato sul Corsera. A questo cambiamento, ormai istituzionalizzato, mi sento di dare il nome di postmodernità. E siccome ancora oggi vedo in giro i frutti dell’americanizzazione e del capitalismo, non riesco a interpretare modernisticamente la realtà.
Non mi sentirei di negare, poi, l’esistenza di un postmoderno mondiale: ogni documento di cultura è un documento di dominazione. E’ ovvio che le nostre categorie, quelle attraverso cui guardiamo il mondo, siano influenzate dal nostro essere, tutto sommato, immersi nel benessere. La partita si gioca, in altri paesi, nel dimostrare che il postmoderno non è invincibile e che ci sono altri modelli di sviluppo economico e culturale oltre a quello americano ed europeo. Credo sia postmoderno anche il debito dei paesi del Secondo e Terzo Mondo.

Buona notte,
Marco

Postato giovedì, 10 gennaio 2008 alle 00:57 da Marco Gatto


Ovviamente parliamo sempre da amici, Marco, inutile starlo a rammentare.
Be’, scusami se cerchero’ di procedere un tantino razionalmente. Dunque, tu hai di fatto posto a tuo piacere dei termini temporali, mi pare, dopo aver (mi sembra contraddicendoti) ammesso l’impossibilita’ di un momento di trapasso Moderno-Postmoderno. Poi hai dato delle definizioni, messo delle etichette (Montale e il suo Satura, Pasolini) che sarebbero verificabili solo parlando col fantasma di questi autori. Infine affermi che ”ogni documento di cultura e’ un documento di dominazione”. Stiamo unendo analisi marxistica con analisi della postmodernita’ o vedo male?
Forse il metodo analitico di Marx, con molte delle sue sue categorie e definizioni, e’ veramente tramontato, inidoneo ad affrontare la nostra realta’ e la nostra produzione artistica.
Forse, infine, mi chiedo se non sia meglio e piu’ fruttuoso (piuttosto che parlare di un’ipotesi minoritaria e non accertabile ovunque nel Mondo come il Postmodernismo) andare a fondo nel cuore del problema: il passaggio fra e delle epoche. La continuita’ o meno delle epoche e la loro reale esistenza.
Per quanto riguarda il crollo dell’ ”istituzione-letteraria” (parole tue), mi sembra che altre spiegazioni siano possibili, oltre a quella economico-sociale: non nascono piu’ persone che abbiano tali capacita’. Prendiamocela con le mamme (!!)
E con una battuta scherzosa finale ti auguro a mia volta la Buonanotte, attendendoti sempre qui e altrove per poter parlare sul serio e non per passare il tempo. Oggi e’ difficile farlo, tra le torme di gitanti che infestano le Lettere.
Tuo
Sergio

Postato giovedì, 10 gennaio 2008 alle 02:01 da Sergio Sozi


P.S.
La tua descrizione generale mi sembra coincidere punto per punto con le crisi che hanno caratterizzato le epoche precedenti: il crollo dell’Impero Romano in primis e altre fratture successive. Niente di nuovo sotto al sole, dunque, nell’eventualita’ tu abbia ragione…

Postato giovedì, 10 gennaio 2008 alle 02:07 da Sergio Sozi


Per tutti:
il punto della discussione mi sembra che ancora adesso sia sempre questo: il Postmoderno e’ la nostra condizione storica, oppure no? Viviamo in un’epoca che cosi’ si puo’ definire, oppure no?

Postato giovedì, 10 gennaio 2008 alle 02:10 da Sergio Sozi


Sostengo pienamente la tesi di Sozi quando dice “Le definizioni ”Post-moderno”, ”Moderno”, ”Medioevo”, eccetera, non possono mai esser assegnate da chi viva nell’epoca in questione. Cio’ premesso; siccome, come sostengo io, l’epoca Moderna non si e’ ancora conclusa e questa era legata alle epoche precedenti, se ne evince che neanche la Postmoderna esista. E’ una teoria, una lettura, una congettura solo teorica”. Meno convincente quando lo stesso dice “Eventualmente ipotizzabile (solo ipotizzabile sottolineo) limitatamente ad una parte dell’Europa e per gli Stati Uniti, ma impossibile da sostenere a livello mondiale. Dunque, eventualmente e non per forza, lo ‘’scampolo di postmodernita’ sarebbe l’Europa (e neanche tutta) e gli USA”.
Credo che in ogni epoca parti del mondo vivessero una certa realtà, una cultura, uno ’status’ tale da contraddistinguere un’epoca mentre al contempo altre parti dello stesso mondo vivessero epoche ben diverse.
All’epoca delle civiltà classiche (Grecia, Roma) cosa succedeva in Cina, in giappone, in Messico o tra le civiltà andine ? Era la stessa epoca o no ?
E il nostro Rinascimento ? contraddistinse il mondo o solo la ‘nostra ‘ civiltà? . Credo che Sergio cercando alla fine una possibile ultima mediazione ipotetica tra le due soluzioni mini alla base la sua stessa tesi, che io invece condivido, e proprio applicando tale mediazione all’epoca attuale nella quale per l’effetto ‘globalizzazione’ (che brutto termine, ma famo a capisse), i confini tra le parti del mondo si fanno sempre più sfumati e labili. E non dimentichiamo che l’occidente e gli USA in particolare dal secolo scorso (in termini di Occidente anche da ben prima prima, ovviamente) sono protesi ad imporre la loro cultura, il loro sistema socio-economico, la loro idea di democrazia (in formato-export), il loro potere in poche parole.
Oppure non ho capito niente.

Postato giovedì, 10 gennaio 2008 alle 09:57 da Carlo S.


Sul postmoderno come nostra condizione socioeconomica posso essere d’accordo, ma stiamo già aprendo fenditure, e non tutte positivi, verso qualcosa di diverso. Sul postmoderno come categoria letteraria “letterariamente” definibile o come generatore di una poetica precisa, ho forti dubbi.
Ma io Jameson lo bevo, non lo leggo.

Postato giovedì, 10 gennaio 2008 alle 10:10 da Paolo S


Nella mia ignoranza “Postmoderno” per me è sempre stata un’etichetta affibbiata da Achille Bonito-Oliva ad alcuni pittori che personalmente considero del tutto marginali nell’arte contemporanea, per ragioni di mercato.
Insomma, non ho mai creduto nelle teorizzazioni sulla sua effettiva esistenza, ergo per me non esiste. Esiste il moderno ed il contemporaneo, con le sue mille sfaccettature, le sue mille tendenze (ecco: “postmoderno” può essere una tendenza, un movimento, quale “futurismo”, o “espressionismo”, ecc. MA NON una cultura, un’epoca), alcune destinate a scomparire (risulteranno ‘mode’, vedi Andy Wahrol), altre a far scuola per l’arte e la cultura del futuro. Critici e storici del futuro potranno pertanto studiarle sotto la lente della storia, della geografia, e classificarle come più si converrà. Così mi pare sempre sia stato.

Postato giovedì, 10 gennaio 2008 alle 10:26 da Carlo S.


Gentile professoressa Marcheschi, spero abbia letto i numerosi e coltissimi commenti alla sua intervista. Devo dire, altrettanto astrusi per chi a stento può definirsi un semplice cultore della materia. Tuttavia, ero certa di aver colto, tra le righe, un inascoltato appello all’autenticità che non è stato minimamente preso in considerazione.
Nella cosiddetta letteratura seria, quella che arriva nelle librerie per intenderci, senz’altro titolo, vige la legge indiscussa e indiscutibile del cammino comune e già percorso, altrimenti, nella migliore delle ipotesi si rischia un rifiuto, come se tutto ciò che non è conosciuto, quindi incomprensibile, debba essere necessariamente bandito.
Dunque, come ci si può meravigliare che uno scrittore agli esordi, seppur d’indiscutibile valore, abbia preferito ripararsi in un antro sicuro piuttosto che avventurarsi nell’ignoto.
I dotti non me ne vogliano, ho semplicemente espresso un’opinione.
Saluti vivissimi, donatella.f

Postato giovedì, 10 gennaio 2008 alle 12:43 da donatella.f


Caro Sergio,
scrivi: “Stiamo unendo analisi marxistica con analisi della postmodernita’ o vedo male?
Forse il metodo analitico di Marx, con molte delle sue sue categorie e definizioni, e’ veramente tramontato, inidoneo ad affrontare la nostra realta’ e la nostra produzione artistica.” E aggiungi che il reale problema sia il passaggio fra le epoche.
Sono d’accordo con te solo in un punto: siccome la postmodernità è una condizione socioeconomica, ritengo che il marxismo sia l’unico metodo, attualmente, capace di dare una risposta ai nostri quesiti. Marxismo e postmoderno sono, in questo senso, legati: mettiamola così, solo attraverso il marxismo possiamo scoprire che il moderno è finito. D’altra parte, anche la revisione del pensiero di Marx è andata a scontrarsi col problema che tu citi, evidentissimo, delle epoche di transizione. La Storia è una e indivisibile, non c’è dubbio, ma è un processo senza telos, senza finalità, e soprattutto senza soggetto: il suo motore è semmai la Necessità. Detto questo, non sto ammettendo l’impossibilità di un trapasso tra epoche (le etichette, Medioevo, Rinascimento, Postmoderno, è ovvio siano categorie mentali, dunque umane, attraverso cui leggiamo la realtà), bensì sostengo che sia proprio il mutare delle nostre capacità trascendentali di recepire la realtà a determinare la nascita o meno di una nuova condizione umana. E che questo passaggio non sia momentaneo, ma sia sempre qualcosa di anticipato, che poi irrompe inaspettatamente, come l’avessimo sempre vissuto. Non avrei dubbi a dire che la cognizione del mondo di un moderno qualsiasi sia differente rispetto a qualsiasi individuo postmoderno.
Insomma, io continuo a sostenere questa tesi: il postmoderno non è uno stile; la postmodernità è una condizione storico-economica; il postmodernismo è la dominante culturale della postmodernità. Ciò non esclude che nel mondo, oltre la globalizzazione, possano esistere sacche di resistenza che fanno sperare in modelli di sviluppo culturale ed economico diversi dal nostro – modelli non necessariamente moderni o postmoderni, ma altri.

A presto,
Marco

Postato giovedì, 10 gennaio 2008 alle 12:50 da Marco Gatto


Ma viva Donatella, questo post è certo interessante e vale la pena seguirlo, anche se il livello è altissimo. Troppo per me… tanto che, arrivati a postmoderno e marxismo, mi sto incartando nella lettura dei commenti!

Postato giovedì, 10 gennaio 2008 alle 13:16 da Silvia Leonardi


Ih mi piace come ha posto la domanda Sergio, sintetizzo quello che mi viene da dire:
– quando decidiamo di leggere una realtà in un certo modo, ci riferiamo a un sistema di segni che riteniamo particolarmente qualificanti per riferire quell’idea. Quel sistema di segni diviene un prototipo al quale gli oggetti possono più o meno somigliare. Allora possiamo considerare la categoria del postmoderno come una costellazione di segni tipica, che secondo certi autori ritorna più frequentemente adesso che in un altro momento, per una serie di connotazioni storiche ed economiche – l’economia industriale, le ideologie che collassano, la globalizzaizone etc. Ci saranno degli oggetti culturali che funzioneranno e saranno pienamente etichettabili come postmoderni, altri meno. Sozi per esempio non è postmoderno pegniente:))) Ma non è detto che le condizioni che producano tendenzialmente postmodernità (con tutte le contaminazioni e le dissacrazioni, e la presumibile morte di valori ad essa correlata) producano in tutti l’ stesso effetto.
Possono produrre effetti contrari per esempio, cioè una sana resistenza, che implica riprendere tutte quelle cose che la postmodernità ammischià e restituirle a un valore e a un significato nuovo. Gatto giustamente diceva, abbiamo bisogno di sistemi filosofici pesanti. Ecco, a me sembrava giusta questa cosa.
se accettiamo che esistono diversi modi di contemplare gli oggetti, diversi sistemi di segni, possiamo contemplare l’ipotesi che questa società se si mette a fuoco quel disegno piuttosto che un altro, può essere postmoderna. Se ci ricordiamo che noi siamo in grado di costruire senso in un certo modo, e in grado di opporci alla postmodernità allora vuol dire che già questo presente è in grado di offrire altro.

Per quanto possa sembrare strano queste cose mi interessano autenticamente.

Postato giovedì, 10 gennaio 2008 alle 14:48 da zauberei


Un piccolo, greve, Celentano delle lettere si aggira nel blog, un ignorante di successo: Didò!
Volevo chiedere ai gentili condomini:
1) Gramsci, secondo voi era un classicista o un moderno (non mi dite post-moderno perchè ne avete appena negato l’esistenza).

2) L’epoca post-moderna (si è vero che Bollito d’Oliva ha infiocchettato un sacco di scemenze e lui è il più “Classico” degli imbroglioni, ma il post-moderno è nell’aria) non sta per cominciare?
Non comincerà quando voi quarantenni (io non faccio testo, sono un barocco novecentista)dovrete lasciare il passo (per ragione d’età) a tutti quelli che hanno cominciato a ragionare con metodi web e autenticamente neocapitalistici?
Via Signori Sozi, Gatto e Carlo S. (siete quelli che ho più seguito con delizia, nel rispetto degli altri), attendo da allievo risposte.
p.s. poi spero che in un altro post potremo parlare di umorismo e in un altro ancora della forza rivoluzionaria e visionaria di Wahrol (altro che mercante, ma questa è un’altra storia…).

Postato giovedì, 10 gennaio 2008 alle 18:27 da francesco di domenico


@ tutti:
mi assumo la responsabilità di invitarvi a dare un’occhiata all’intervento di Germano su Iperspazio creativo. E che Maugeri mi perdoni se ho arruolato un altro dinamitardo in questo ex luogo di pace e meditazione.
A Sergio Sozi non chiedo scusa, tanto non mi perdonerebbe mai comunque

Postato giovedì, 10 gennaio 2008 alle 18:52 da Enrico Gregori


Grazie mille ancora per i vostri commenti.
Il dibattito si è ormai spostato sul postmoderno.
A parte che, come già sottolineato, c’è parecchia confusione tra postmoderno, postmodernismo, postmodernità, mi piacerebbe centrare il tema sulla “letteratura postmoderna” (già solo su questo concetto si è sviluppato un dibattito che è in corso da anni).
Spero di riuscire a trovare il tempodi parlarne nei prossimi commenti.
A dopo.

Postato giovedì, 10 gennaio 2008 alle 19:09 da Massimo Maugeri


Marco,
ti cito brevemente: ”Non avrei dubbi a dire che la cognizione del mondo di un moderno qualsiasi sia differente rispetto a qualsiasi individuo postmoderno.”
Poi ti pongo una domanda, cercando di seguire il tuo pensiero:
io sono nato nel 1965, in un’ambientazione pienamente ”moderna”, figlio di gente nata nei primi anni Trenta. Secondo te, sono un postmoderno anch’io?

Postato giovedì, 10 gennaio 2008 alle 19:54 da Sergio Sozi


P.S.
Mi scusi Massimo se ho divagato. Ma io non sono uno studioso di Letteratura ”postmoderna” e vorrei accontentarmi di esaurire il colloquio, con Gatto e con gli altri, sugli argomenti che lo hanno caratterizzato in questi ultimi giorni. Poi mi astengo dallo scrivere commenti.

Postato giovedì, 10 gennaio 2008 alle 19:57 da Sergio Sozi


@ Sergio.
Ma di che ti scusi?
Proseguite pure!
Più tardi interverrò sul tema “letteratura postmoderna”.
A dopo!

Postato giovedì, 10 gennaio 2008 alle 20:01 da Massimo Maugeri


Nell’aderire completamente al suo pensiero, mi pregio di citare Carlo S.:
”Nella mia ignoranza “Postmoderno” per me è sempre stata un’etichetta affibbiata da Achille Bonito-Oliva ad alcuni pittori che personalmente considero del tutto marginali nell’arte contemporanea, per ragioni di mercato.
Insomma, non ho mai creduto nelle teorizzazioni sulla sua effettiva esistenza, ergo per me non esiste. Esiste il moderno ed il contemporaneo, con le sue mille sfaccettature, le sue mille tendenze”.
Sozi
P.S.
Nessuna ignoranza, Carlo: lucidita’, la tua!

Postato giovedì, 10 gennaio 2008 alle 20:02 da Sergio Sozi


(e lucidita’, immodestamente, anche la mia, perche’ ho detto cose analoghe poco prima. Pero’ tu le hai precisate meglio di me.)

Postato giovedì, 10 gennaio 2008 alle 20:07 da Sergio Sozi


@ Sergio.
Ma di che ti scusi?
Proseguite pure!
Più tardi interverrò sul tema “letteratura postmoderna”.
A dopo!

Postato Giovedì, 10 Gennaio 2008 alle 8:01 pm da Massimo Maugeri

a’ massimo, ma che t’avemo fatto de male?

Postato giovedì, 10 gennaio 2008 alle 20:09 da Enrico Gregori


Sempre a Carlo S., che dice: ”Credo che Sergio cercando alla fine una possibile ultima mediazione ipotetica tra le due soluzioni mini alla base la sua stessa tesi, che io invece condivido”.
Beh, Carlo, io ho solo ammesso l’esistenza della teoria sulla Postmodernita’, ponendola fra le altre a livello teorico, mica ne ho ammesso l’unicita’ come fa Marco Gatto. Cio’ non mi sembra minare in alcun modo la mia e tua idea.
Sergio

Postato giovedì, 10 gennaio 2008 alle 20:13 da Sergio Sozi


Un’ultima precisazione per tornare alla prof.ssa Marcheschi.
Quando Marco Gatto osserva ”Siamo davvero convinti che la crisi della letteratura sia tutta interna al nostro sgangherato post-umanesimo? A me sembra che la questione sia molto più che italiana, e investa certamente geografie altre e, perché no?, ancora sconosciute. E’ tutta la nostra tradizione che va a rotoli, semplicemente perché non siamo capaci di capire cos’è, oggi, una tradizione…tanto più quando le traiettorie si intersecano e aggrovigliano, senza margini di chiarezza” io concordo con il valente, giovane critico-poeta calabrese. Ed auspico un ritorno generalizzato in Italia ai testi storico-critico letterari piu’ saldi che si abbiano tutt’ora, anche se scritti nel Novecento: una decina, non di piu’ in tutto (Sapegno, Petronio e Croce inclusi anzi in primis), i quali testi rappresentano nel loro insieme gli ultimi, ottimi, esiti della nostra tradizione storico-critica e derivano, pur con alcune ovvie innovazioni, dalla precedente tradizione che tutti sanno (dalla primca ritica dantesca, passando pel Rinascimento fino all’Ottocento).
L’importante e’ studiare. Studiare, nei suoi molteplici anditi separe’ e collegamenti, la Storia critico-storiografica fatta in Italia sulla Letteratura Italiana dal Medioevo ad oggi (o meglio la Filologia romanza). Cosi’ ci si puo’ convincere delle sue qualita’ e dei suoi difetti. Pertanto apportando delle modifiche MAI TROPPO SUPERBE.
Ma se i critici da bancarella (vedasi D’Orrico et similia) di oggi credono basti esporre la propria saccente confusione mentale per esser ritenuti dei critici seri, credo si sbaglino di grosso. L’ignoranza permea anche i giri di parole scritti piu’ apparentemente dotti. E’ un fatto, questo, che chiunque studi veramente il passato della nostra critica e storiografia letteraria appura in un attimo.
Altro che ”Europa Europa!” La lingua italiana e’ SOLO degli Italiani e rappresenta, unisce e contiene tutta la nostra attuale esistenza – sociale, individuale, politica, economica, artistica ed onirica. Gli italofoni ben vengano, ma essi vestono di parole italiane dei contenuti extra-nazionali.

Postato giovedì, 10 gennaio 2008 alle 20:39 da Sergio Sozi


Il termine POSTMODERNO mi arrivò la scorsa estate, una sera in cui fra canti di cicale e profumi di limoni, sulla mia terrazza notturna avevo fra le mani un libro di un professore americano, anch’egli pittore, anch’egli critico e quarantenne. Dapprima, leggendo le sue critiche su pop e l’America e quanto lo aveva allattato, mi apparve come un alienato, uno strano intellettuale dagli occhi sbarrati che cercava di spiegare la sua pittura descrivendo le reti autostradali dove viaggiava quotidianamente, le architetture di perpendicolari che s’incrociavano con quant’altro costituiva un intricato sistema di linee architettonico che lo stesso paragonava a certe griglie del suo computer. Strani disegni virtuali.
Ad un certo punto del libro iniziai a provare uno strana tenerezza per quest’individuo. Sapete perchè? Inoltrandomi nelle sue pagine avvertivo come un grido da parte dell’autore, qualcosa che chiedeva al lettore di farlo uscire dalla griglia dove si sentiva imprigionato. Ripeteva ossessivamente il termine sintetico. Non vi sembra abbastanza per andare avanti su un epoca che chiede una trasformazione, politica e società compresa?
Rossella

Postato giovedì, 10 gennaio 2008 alle 23:03 da @ROSSELLA


Cerco di andare per ordine, commentando un po’ qua e là (il dibattito ha intrapreso un mucchio di risvolti interessanti). Partiamo dalla coda. Concordo con Sozi quando, con un atteggiamento, per così dire, eticamente corretto, richiama all’ordine degli studi e a una rivisitazione qualitativa della nostra storia letteraria. E’ questo che ci permette, inoltre, di comprendere quanto desolante sia il nostro panorama letterario, in cui le opere più seguite coincidono con la cattiva qualità. Detto questo, non sarei troppo nazionalista in materia di letteratura, almeno guardando alle prospettive ricche e inusitate che si aprono nel mondo multiculturale. Io sono per sporcare la nostra lingua italiana.
Sergio poi mi chiede: “io sono nato nel 1965, in un’ambientazione pienamente ”moderna”, figlio di gente nata nei primi anni Trenta. Secondo te, sono un postmoderno anch’io?”. Risponderei che il fatto stesso che me lo domandi è conferma della sua postmodernità. Ad ogni modo, io ritengo che anche Ingrao o Rita Levi Montalcini siano postmoderni, semplicemente perché vivono, nella loro esperienza terrena, la condizione della postmodernità. Non si tratta di prendere in mano il vessillo del postmoderno e dire “io sono postmoderno” o, al contrario, “sono moderno”: si tratta, a mio parere, di riconoscere che, chi più chi meno, noi tutti dobbiamo fare i conti con la globalizzazione e il tardo capitalismo, anche nel mercato delle lettere. E’ probabile che io, nato nel 1983, abbia così assorbito la spazzatura culturale degli anni Novanta per proferire discorsi di questo tipo!

Francesco Di Domenico pone due questioni: 1) Gramsci, secondo voi era un classicista o un moderno (non mi dite post-moderno perchè ne avete appena negato l’esistenza); 2) L’epoca post-moderna (si è vero che Bollito d’Oliva ha infiocchettato un sacco di scemenze e lui è il più “Classico” degli imbroglioni, ma il post-moderno è nell’aria) non sta per cominciare?
Non comincerà quando voi quarantenni (io non faccio testo, sono un barocco novecentista)dovrete lasciare il passo (per ragione d’età) a tutti quelli che hanno cominciato a ragionare con metodi web e autenticamente neocapitalistici?

Alla 1) risponderei che Gramsci è naturalmente un moderno che ragiona, però, sulla frammentazione dei massimi sistemi. Un illuminato che aveva probabilmente compreso e profetizzato il crollo della funzione dell’intellettuale, nonché il funzionamento stesso dell’apparato di potere.
Quanto alla 2) non so, io non sono un quarantenne e credo, ahimè, di aver imparato a convivere con le tecnologie (come credo molti quarantenni, del resto): nato negli Ottanta, per me le lucciole sono solo un racconto di mamma, come la soppressata calabrese con la goccia o l’uccisione del maiale a Natale. Che il postmoderno sia già cominciato è per me fuor di dubbio (con buona pace dei suini, ora sterminati nei container), un po’ meno che sia finito (come qualcuno ha scritto, ritengo errando, in libri anche di un certo spessore).

A presto!
Marco

Postato giovedì, 10 gennaio 2008 alle 23:28 da Marco Gatto


Ormai il dibattito si è “infilato” nel percorso non particolarmente lineare del postmoderno. Continuiamo provando a fare dei distinguo, dato che si parla di postmoderno in diversi campi: società, filosofia, letteratura, arte

Postato giovedì, 10 gennaio 2008 alle 23:40 da Massimo Maugeri


@ Rossella.
tu, per esempio, fai riferimento al postmoderno nell’arte.
Ti riporto un piccolo contributo edito da Bruno Mondadori.

Nel campo delle arti visive il postmoderno ha prodotto un netto stacco dalla produzione del resto del secolo, dominata dalle avanguardie che, dopo aver liquidato il figurativismo ottocentesco, cercavano un linguaggio radicalmente nuovo di tipo astratto o informale. Il postmoderno recupera invece, in maniera ironica, stili del passato oppure le icone della società dei consumi conosciute da tutti.
In architettura, il postmoderno ha la sua prima applicazione sistematica e consapevole ed anzi è proprio in questo ambito che la parola conosce una sua ampia diffusione usata in polemica con l’architettura moderna. Al razionalismo, al gusto per l’essenzialità e all’attenzione rivolta alla pianificazione urbanistica dei grandi maestri del moderno, viene contrapposta, come modello, la città di Las Vegas, la città-casinò in mezzo al deserto popolata di alberghi giganteschi dagli stili architettonici compositi, ridondanti e tesi a creare una percezione fantasmagorica degli spazi.
Nel campo della pittura, la figura di riferimento è, quella dello statunitense Andy Warhol (1928-1987). L’opera di questo pittore contiene tutti o quasi i motivi tipici del postmoderno: innanzi tutto la ripresa di materiali e immagini popolari che vengono dal mondo della pubblicità, in secondo luogo l’uso ironico di motivi e cliché della tradizione colta e infine l’ostentazione divertita della natura mercificata dell’arte nella società dei consumi. La ritrattistica a colori vivaci e irreali di volti resi celebri dai mass-media, come quelli di Marilyn Monroe o di Lady Diana, recupera ironicamente un motivo dell’arte colta attraverso materiali popolari o pop, alludendo alla condizione di questi personaggi come pure immagini senza significato della società dei consumi.
Anche nel cinema si ha una tendenza postmoderna soprattutto negli Stati Uniti. Il cinema postmoderno è caratterizzato, come la letteratura, da una serie di opere con più livelli di lettura, per varie fasce del pubblico. I film postmoderni, infatti, recuperano intrecci e ambientazioni tipici del cinema popolare, specialmente il noir e il thriller, non mancano esempi di altri generi, ricchi di citazioni raffinate o rivisitazioni ironiche colte solo
da un pubblico di intenditori. I maggiori artisti sono alcuni registi di origine italiana come Brian De Palma, Michel Cimino e Quentin Tarantino.
Si può citare la nota pellicola di Quentin Tarantino Pulp Fiction (1993), esemplare di questa tendenza, in cui
gli stereotipi tipici della letteratura popolare di gangster vengono introdotti in un intreccio a montaggio che rimanda ai film della nouvelle vague francese degli anni sessanta, Jean-Luc Godard in particolare, e presentati con una sguardo ironico e divertito.

Aggiungo che dal Pulp Fiction di Tarantino nasce la cosiddetta “Gioventù cannibale” di cui si è tanto parlato e che è stata ampiamente, e credo giustamente, stigmatizzata.

Postato giovedì, 10 gennaio 2008 alle 23:47 da Massimo Maugeri


Cosa si intende e come nasce la cosiddetta “Letteratura postmoderna”

Qui entriamo un po’ un campo minato. Proviamo a confrontarci…
C’è chi sostiene che la “letteratura postmoderna” sia una tendenza letteraria che nasce come una serie di stili e idee dopo la seconda guerra mondiale in reazione (non in contrapposizione) alle teorizzazioni del “moderno” (inteso nel senso di avanguardia) ed estende molte delle tecniche ed assunzioni fondamentali della stessa “letteratura modernista”.
A questo punto, però, dovremmo chiederci cosa si intende per “letteratura modernista” o “modernismo” secondo la critica anglosassone…

Postato giovedì, 10 gennaio 2008 alle 23:54 da Massimo Maugeri


Cosa si intende per “modernismo”(ripeto, secondo certa critica anglosassone)?

Vi riporto un articolo elaborato dal gruppo letterario di wikipedia Italia.
Per “modernismo” si intende in letteratura un movimento tipico dei paesi di lingua inglese, situato approssimativamente tra il 1900 e il 1945. Questo movimento ha affinità con l’opera di scrittori non anglosassoni quali, in Italia, Luigi Pirandello e Carlo Emilio Gadda, o, in Francia Luis Ferdinand Céline, o, in Cecoslovacchia, Franz Kafka.
Rappresentanti del modernismo sono innanzitutto T. S. Eliot, poeta e critico statunitense che ha vissuto per la maggior parte della sua vita in Gran Bretagna, che è il teorico del movimento; e in prosa, James Joyce. Altre figure di spicco sono Ezra Pound, Virginia Woolf, Ford Madox Ford, F.S. Fitzgerald, Ernest Hemingway, Henry Roth, David Jones, Wyndham Lewis (che è anche un importante pittore), Laura Riding, Hilda Doolittle e Gertrude Stein.
A tutti gli effetti il modernismo è coetaneo delle varie avanguardie artistiche europee di primo ‘900 (come il futurismo, il dadaismo, il cubismo, il surrealismo e altre). Sue caratteristiche sono:
• Ricerca di nuove tecniche narrative/poetiche che rinnovino il romanzo/la poesia ottocentesca di derivazione romantica
• Attenzione al mondo del mito, dell’antropologia, della storia delle religioni;
• Distacco dell’artista dall’opera, che non deve essere espressione dell’interiorità dell’artista, bensì creazione perfettamente oggettivata e autosufficiente;
• Rifiuto del linguaggio vago e suggestivo dei romantici, esigenza di un linguaggio preciso e oggettivo che attinga anche alla lingua parlata;
• (In poesia) ripudio del modello costituito dall’opera di John Milton, recupero della poesia barocca (poeti metafisici, John Donne);
• Uso esteso di simboli, anche di derivazione psicanalitica;
• Trattazione di temi precedentemente tabù (p.es. sessualità);
• (In narrativa) uso esteso di tecniche come flashback, flash-forward, trame non lineari, omissioni deliberate di informazioni per il lettore, ecc.

Il resto a domani.
‘Notte

Postato giovedì, 10 gennaio 2008 alle 23:58 da Massimo Maugeri


Marco caro, quando mi dici ”Io sono per sporcare la nostra lingua italiana” forse significa che per te non e’ gia’ abbastanza sporca oggi. Che dobbiamo fare ancora, per compiere fino in fondo il bagno di fango, tradurre i nostri cognomi in inglese?

Postato venerdì, 11 gennaio 2008 alle 00:55 da Sergio Sozi


P.S.
Siamo sempre in tempo per recuperare – ossia ringiovanire, riabilitare, rivivere insomma – le tradizioni italiane di ogni Regione o citta’ o paese: basta evitare che se ne dimentichino tutti. Io lo faccio scrivendo e molti altri, in maniere diverse, mi sembra anche.
Buonanotte

Postato venerdì, 11 gennaio 2008 alle 00:59 da Sergio Sozi


P.P.S.S.
Basta non rimbecillirsi, insomma. E non appiattirsi sull’esistente – tecnologico e massificato. Essere se stessi con le proprie tradizioni pur mantenendosi aperti… fino ad un certo punto.
Vedrai quante cose, prevedo, torneranno a galla della nostra italianita’ quando il vaso del ”nuovo a tutti i costi” sara’ traboccato!

Postato venerdì, 11 gennaio 2008 alle 01:03 da Sergio Sozi


Buongiorno
– Massimo Dio te benedica per quel paio di interventi definitori che hai fatto mi sono stati utili.
Mi sento in sintonia con Sozi. Non condivido l’assunto, non lo condivido teoricamente nè per il postmoderno nè per qualsiasi altra cosa, che se ci sono determinate condizioni storiche e culturali che connotano in un certo periodo, e il modo di esprimere significati di quel periodo – tutti quelli che ci stanno dentro dovrebbero avere la stessa connotazione. Questo può essere vero ma così semplice da eludere differenze relative, resistenze, controcorrenti. In questo modo parrebbe che tra Wahrol e Sozi non c’è differenza. Per il fatto che pochi decenni di differenza l’hanno esposti a medesime condizioni. Perchè il postmoderno, con la famiglia di parole che gli sono imparentati – postmodernismo postmodernità etc, se non ho capito male, non è solo una questione di condizioni di partenza, ma postmoderno ha un certi risultato ricco di contaminazioni e di desacralizzazioni, e per conto mio anche di derive etiche che di quelle condizioni di partenza è l’effetto. Ecco perchè Andhy Warhol se fa Mao colla faccia viola è post moderno, mentre se Sozi scrive di Mao, non lo è affatto.
Non è questione di rimbecillirsi o meno. Massimo ha citato Pulp fiction, e a me verrebbero in mente altri esempi, tipo fotografi che so David La Chapelle – è questione di scegliere e decidere che una certa simbologia possa rappresentarmi culturalmente e psicologicamente. E si ci sono anche cose belle e interessanti che si appellano alla postmodernità.
.

Postato venerdì, 11 gennaio 2008 alle 08:15 da zauberei


Anch’io ringrazio Massimo per aver fornito anche ai meno acculturati preziosi elementi di base e chiarificatori. Rimango della mia opinione: postmoderno esiste oggi in quanto movimento, linea di tendenza, stile; ma non ne riconosco l’esistenza come “epoca” o “cultura”, che mi pare ciò che vuole intendere il pur ottimo Marco Gatto. Ciò non toglie che un domani qualcuno metta d’accordo molti altri e dica che l’epoca moderna finisce nel 1980 (sparo a cazzo) e da lì inizia il postmoderno, un pò come si stabilisce la fine del medioevo con la scoperta dell’America o con la caduta di Costantinopoli: ma sono gli storici a dirlo, ed in epoca molto ma molto posteriore. Tutto il resto ritengo sia velleitario, oppure “militante”. Gatto una sorta di militanza mi pare la dichiari apertamente.
Io invece, pur avendo ovviamente le mie opinioni rispetto al capitalismo, al postcapitalismo (se esiste, ma ne dubito; secondo me viviamo in una fase specifica del solito capitalismo, se vogliamo chiamiamola pure così, ma “post” mi pare fuori luogo, perché implica un superamento che non c’è: nel capitalismo siamo dentro fino al collo) ed al marxismo, con tutti i dubbi del caso (e ritengo il dubbio una virtù dell’uomo, da coltivare con amore), delle militanze alla fine diffido sempre.
Scusate se mi ripeto sempre alla fine, ma spero ogni volta di chiarire un po’ di più, anche a me stesso (salvo ogni ragionevole dubbio).
Saluti
Carolus dubitativus

Postato venerdì, 11 gennaio 2008 alle 11:37 da Carlo S.


Io invece dissento dal buon Sozi quando mi schiera tra i campioni della tradizione Sapegno e Petronio. Sarò di palato difficile, ma proprio Sapegno e Petronio sono piuttosto determinati a chiudere certe porte verso le stanze di quella che considero “legittimamente” una parte della tradizione. Qui andrebbe aperta una luuuunga parentesi sulla posizione della tradizione, sull’appropriazione della tradizione e sotto sotto sulla natura della tradizione.
Mi limito invece a un esempio. Una ristretta fila di critici legge nell’opera di Dante una traccia mistica (e ci torno!) piuttosto chiara, e sostiene l’argomento con prove filologiche del tutto conformi alla tradizione della filologia. Ebbene, questa linea di critici tra cui sono schierati Dante Gabriel Rossetti e Giovanni Pascoli e che ha come campione, per rigore filologico, Luigi Valli viene deliberatamente ignorata da Sapegno e c., che di fatto costituiscono una sorta di ortodossia della critica letteraria, su cui si costruisce una vulgata che spalanca le porte alla condizione umana attuale, bloccata anche nell’ambito letterario nella sua ricerca del sacro.
Col che non sto dicendo che non sono importanti i lavori di Sapegno e C., ma che le categorie che usano sono cieche rispetto a un argomento che è intimamente connesso alla tradizione della letteratura, e che è strano che chi fa critica di qualcosa ne ignori l’intima tradizione per fondarne un’altra.
Cauda: non datemi però del reazionario. Spiegherò, spiegherò se chiederete.

Postato venerdì, 11 gennaio 2008 alle 11:59 da Paolo S


Per Sergio.
All’espressione “sporcare la lingua italiana” do un’accezione completamente positiva, quasi coincidente con la tua: ovvero rinvigorire la lingua della tradizione attraverso nuovi innesti (in particolare i dialetti, che tu usi e che io ho ammirato nella tua prosa). Ho l’impressione che la gran parte della nostra letteratura ufficiale abbia ormai codificato una lingua standardizzata, espressione di un ceto sociale ben preciso.
Mi sono spiegato male. Perdonami.

A presto,
Marco

Postato venerdì, 11 gennaio 2008 alle 15:12 da Marco Gatto


Nel modernismo [...] sussistono ancora alcune zone residuali della “natura” o dell’”essere” del vecchio, dell’antico, dell’arcaico; la cultura può ancora influire su quella natura e tentare una trasformazione di quel “referente”. Il postmodernismo è ciò che ci si trova di fronte allorché il processo di modernizzazione si è compiuto e la natura è svanita per sempre. Rispetto a quello precedente, si tratta di un mondo più compiutamente umano, nel quale tuttavia la “cultura” è diventata un’autentica “seconda natura”. In effetti, quanto è accaduto alla cultura può valere come uno degli indizi più rilevanti per seguire le tracce del postmoderno: un’enorme dilatazione della sua sfera (quella delle merci), un’immensa e storicamente originale acculturazione del Reale, un grande balzo verso quella che Benjamin chiamava ancora “estetizzazione” della realtà [...]. Così nel postmoderno la “cultura” è diventata un prodotto a sé e il mercato si è completamente trasformato in un surrogato di se stesso, in una delle tante merci che contiene, mentre la modernità rappresentava ancora tendenzialmente la critica della merce, oltre che il tentativo di far sì che essa si trascendesse. Il postmodernismo è il consumo della pura mercificazione come processo.

Fredric Jameson, Postmodernismo. Ovvero, la logica culturale del tardo capitalismo, Roma, Fazi, 2007, pp. 5-6.

A me sembra che questa analisi sia corretta e attuale.
ciao
Marco

Postato venerdì, 11 gennaio 2008 alle 15:24 da Marco Gatto


@ marco, sergio e carlo:
da osservatore esterno vorrei sottilineare che nessuno di voi si spiega male. il fatto, semplice ma inesorabile, è che state girando da una settimana intorno al medesimo argomento al punto tale che alla fine vi dimenticate quello che avete detto, quello che volete dire, o che gli altri hanno detto nel frattempo.
spero apprezziate questo elegante giro di parole per significarvi che ci avreste un po’ rotto le palle
:-)

Postato venerdì, 11 gennaio 2008 alle 15:25 da Enrico Gregori


Oh mio Dio! Devo per forza essere d’accordo con questo trucido bullo di via del Tritone? Certo che si!
Dopo i ringraziamenti al Gatto (che speravo più vecchio) per essere intervenuto sulla mia provocazione Gramsciana, tra l’altro espunta con grazia, mi chiedo: perchè Sozi che continua a definirsi un classicista, ma che io considero un formidabile post-moderno, dopo aver letto “Il maniaco” (e solo quello), non abbia colto anche lui la provocatio sopratutto sulla generazione web (di cui Gatto fa, quasi, parte)?
E poi, non sarà, il postmodernismo, in tutti i campi, una strada disperata di ricerca dello “Altro da se” in forma kantiana?
Semplifico perchè poi alla fine, anche se il vino aiuta, io Ciuccio sò, come direbbe Di Pietro. Mammà disse a mia figlia: “Chiara tu vuoi fare la pittrice? Ma i pittori hanno già fatto tutto:tu che pitti?” cosi come disse ad un mio amico compositore: “Giuvà, tu vuò fà la musica? Ma quelli, da Giuseppe Verdi ai Beatles e poi a Luciobattisti, hanno già fatto tutto, tu che fai?
Fosse quello che intende mammà il post-moderno, e cioè la ricerca dell’impossibile nel possibile?
Mò è meglio che vi rilascio soli altrimenti Gregori telefona alle guardie!

Postato venerdì, 11 gennaio 2008 alle 16:20 da francesco di domenico


A costo di fracassare ulteriormente le povere palle di Enrico, mi associo ai quesiti di Paolo S. (nonostante il cognome “S.” non siamo parenti). Ho cominciato a capire Dante leggendo Auerbach (fino al liceo detestavo l’Alighieri perchè non avevo capito una sega) e poi Singleton, e mi hanno affascinato in seguito le precedenti tesi di Valli, che a sua volta riprendeva Pascoli (anche perchè mi ha sempre interessato molto la cultura dei catari) e mi sono sempre stupito di come venisse ignorato dalla critica “ufficiale” di Sapegno, Petronio & C. Mi piacerebbe sapere che ne pensa il nostro buon Sergio, Dantista principe del presente blog.

Postato venerdì, 11 gennaio 2008 alle 16:27 da Carlo S.


fracassate pure, ormai sono coriandoli
:-)

Postato venerdì, 11 gennaio 2008 alle 17:17 da Enrico Gregori


Grego’,
non mi sembra che qui il dibattito sia ozioso o inconcludente. Tieniti pronto dunque ad altre rotture di ”cosiddetti”. Sapessi quanto me li scassano certi tipi che parlano per giornate intere dei cavoli propri e del piu’ e del meno in un blog letterario fatto principalmente per altri usi e… costumi. Paziento io e pazienti anche tu. Cosi’ e’ la vita: oggi a me domani a te.
Marco,
ottima precisazione sullo ‘’sporcamento dell’Italiano”. Io mi riferivo ai forestierismi e tu al dialetto. Bene. Allora, cosi’ messasi la faccenda, concordo per forza e per… amore del vocabolario della lingua italiana – che coi dialetti e’ sempre cresciuto mirabilmente. Facciamolo ancora crescere con degli apporti autoctoni, ’sto povero vocabolario che fra un po’ di tempo avra’ otto lemmi su dieci di origine angloamericana!
L’analisi di Jameson e’ condivisibile. La pretesa di compiere in anticipo le operazioni di ”etichettatura delle Ere” di competenza degli storici solo ”post quam”, invece no.
Dido’, Carlo S. e Paolo S.,
scusatemi, amici miei, lasciatemi tempo per fiatare e vi rispondero’… sto lavorando ed ho una consegna da fare a breve.
Sergio Sozi

Postato venerdì, 11 gennaio 2008 alle 20:56 da Sergio Sozi


Zauberei,
poiche’ io e te stiamo parlando della questione Postmoderno applicata ai prodotti letterari e artistici in genere, la nostra sintonia e’ cosa che apprezzo di vero cuore. Come narratore, ovviamente, critico e poeta.
Invece, come uomo e cittadino italiano vivente nel 2008, mi devo confrontare coi risvolti filosofici piu’ generali attinenti alla presunta esistenza di questa Era Storica in quanto definibile ”Postmoderna” e pertanto avente certi caratteri fra i quali molti difetti. E questo e’ il campo di Marte sul quale mi sto dirigendo in cotta d’arme e scudo (!!), per sostenere la continuita’ dell’Era Moderna, la sua attualita’ e presenza ”ora e qui”. Per sostenere che questo ultimo risvolto della Modernita’ non e’ separato dal passato in maniera tanto netta e indiscutibile da farci vivere in un’ambientazione che non sia ancora legata alle precedenti.
Poi c’e’ la critica dantesca e il ramo ”dimenticato” da Petronio e soci.
Vedremo.
Ciao
Sergio

Postato venerdì, 11 gennaio 2008 alle 21:36 da Sergio Sozi


A stringere e riassumere, mi sembra che gli argomenti principe siano, ora, i seguenti:
1) I prodotti letterari e artistici e la Postmodernita’;
2) La Critica dantesca;
3) La Storia e la Postmodernita’.
Io e Carlo sulla questione storica e artistica, coincidiamo. Zauberei: vorresti esser circostanziata aproposito di questi tre ”rami”?

Postato venerdì, 11 gennaio 2008 alle 21:43 da Sergio Sozi


@ Carlo S. : Per favore cosi mi togli il mestiere!

“…quesiti di Paolo S. (nonostante il cognome “S.” non siamo parenti). ”

E’ una battuta di rara bellezza!

Postato venerdì, 11 gennaio 2008 alle 21:51 da francesco di domenico


Siete bellissimi. Post.
Ti sono grata Massimo per avermi inviato il pensiero edito da Mondadori sull’argomento postmoderno; conoscere il comune denominatore fra le arti è sempre interessante.
Ma, forse, Sergio S. e Carlo S. e Francesco D., ma anche Marco G., hanno focalizzato maggiormente l’argomento, sottolineando che ciò che consideriamo moderno è un tempo non ancora completamente oltrepassato ed hanno cercato, con occhio critico tipico di chi non si confonde al supermercato, gli aspetti di ciò su cui si vuole andare avanti. Questo è un atteggiamento avanguardista.
Avete più o meno citato molti autori che con il loro pensiero potessero chiarire le idee su questo argomento complicato e lo faccio anch’io, invitandovi alla riflessione, con una frase di un pittore che si chiama Jean Capdeville “nella pittura cerco il terreno su cui combattere”. Che belle anche le dinamiche femmine fragola di Claude Garache! Pittori per lo più sconosciuti dalle masse e di quell’Europa contemporanea ad Andy Wahrol d’oltreoceano il quale, diciamo la verità, fu uno fra i più grandi rivoluzionari del secolo scorso, uno che ha capito come tenere alta la bandiera della cultura, che, consentitemi non è mica solo Leopardi o Trilussa!
Ciao Rossella

Postato venerdì, 11 gennaio 2008 alle 22:12 da @ROSSELLA


Eccoci. Su Dante e… Dante Gabriele Rossetti (figlio del carbonaro napoletano esule in Inghilterra, Francesco Rossetti), e su tutto il filone ”esoterico” dei ”Seguaci d’Amore”.
Francesco Lemendola, studioso di Julius Evola, che assieme ai citati D.G. Rossetti, Luigi Valli (ma anche Rene’ Guenon, ”L’esoterismo di Dante”, Parigi 1925) appartiene con molto distacco e prudenza fra questi esegeti filo-esoterici, scrive, nel saggio breve ”L’esoterismo di Dante” (2004) quanto segue:
”Francesco Rossetti vuol dimostrare che, al tempo di Dante, esisteva fra il popolo e fra le persone colte uno spirito antipapale largamente diffuso, e che non solo Dante, ma anche gli stilnovisti e, poi, Petrarca e Boccaccio condividevano in pieno tali sentimenti, sia pur in una prospettiva interna alla cristianità. Tuttavia la durezza con cui la Chiesa perseguitava i propri oppositori e ogni forma d’eresia, culminata nella crociata contro gli Albigesi del 1208-29 e negli eccidi condotti da Simone di Montfort, aveva indotto a una maggiore prudenza gli oppositori del papato. Di qui la necessità di un linguaggio criptico, allegorico e anagogico, che potesse venire inteso dagli affiliati ma il cui senso sfuggisse all’occhio vigile dell’Inquisizione. Insomma, Dante cercava, con la sua opera, di favorire un potente rinnovamento della chiesa cattolica ed era pertanto entrato a far parte di una setta, i “Fedeli d’Amore”, i cui seguaci fingevano di sospirare per delle donne angelicate (la Beatrice di Dante, la Laura di Petrarca, la Fiammetta di Boccaccio), che simboleggiavano i loro ideali politico-religiosi.”
Io pertanto credo che gli appigli pascoliani e precedenti siano stati usati strumentalmente negli ultimi circa cento anni per forzare in senso appunto esoterico una lettura fin troppo misterica di Dante, il quale rischia di divenire ai nostri occhi una specie di Anticristo sotto mentite spoglie, un filosofo pagano o quant’altro di sovvertente l’ordine intero della Cristianita’.
Ecco. Secondo me, si tratto’ piuttosto di una semplice critica alle nefandezze compiute da alcuni papi corrotti, una ricerca di risanamento dell’Istituzione, come ve ne sono state e ve ne sono tutt’ora tante. Quella dell’Alighieri era anche teologica e filosofica, certo, profonda e pregna dei valori lasciati in eredita’ dai Latini a tutti i letterati italiani (e non) medievali (e attuali); ma non confondiamo il grano con il loglio: riformare non significa sovvertire.
Che dunque Petronio, Sapegno ed altri abbiano ritenuto minoritaria e scarsamente suffragabile tale vulgata esegetica, mi pare ovvio. Sapegno si espresse a proposito, comunque. Al di fuori della sua Storia della Letteratura, certo.
Saro’ piu’ esaustivo in seguito, scusatemi.
S.

Postato venerdì, 11 gennaio 2008 alle 22:28 da Sergio Sozi


@Le logiche del tardo capitalismo, caro Marco, vestono ancora coi blue jeans, indumento alla moda che tutti possono acquistare.
Chi non li ha dentro il proprio armadio ? Operai, dirigenti, impiegati, ragazzi, ragazze, bambini, comunisti, fascisti, politici, artisti, preti, etc.
Rossella

Postato venerdì, 11 gennaio 2008 alle 22:31 da @ROSSELLA


Errata corrige: Francesco Lamendola.
Un’ulteriore fonte anti-”Fedeli d’aAmore”, consultabile su Internet e’ questa: ”Dante e i Fedeli d’Amore”, di Luciano Pirrotta (1987, consultabile sul sito ”Airesis”).
Qui riporto la premessa:
”Gia’ nel secolo scorso (il Diciannovesimo, nota di Sozi) e nei primi decenni di quello presente la questione della possibile appartenenza di Dante ad un’oscura setta esoterica, i Fedeli d’Amore, ha fatto versare fiumi d’inchiostro, senza peraltro raggiungere che modesti risultati.”
(Luciano Pirrotta, gia’ nella rivista ”Abstracta”, 1987)

Postato venerdì, 11 gennaio 2008 alle 22:47 da Sergio Sozi


Eccoci: nel sito http://www.calssicitaliani.it trovate il trattato del Valli e tutti i suoi oppositori, passati in rassegna dal Valli stesso. Libro integrale in edizione 1994. Tanti sono, ’sti oppositori: Valli li confuta, ovviamente (Sapegno viene trattato da superficiale), ma… leggete e poi ditemi.

Postato venerdì, 11 gennaio 2008 alle 23:05 da Sergio Sozi


(Se non riuscite a collegarvi cliccando sopra su ”classicitaliani”, cercate il nome se Google, e’ meglio).

Postato venerdì, 11 gennaio 2008 alle 23:07 da Sergio Sozi


Per Rossella.
Infatti quel che caratterizza il postmoderno, rispetto al moderno, è l’indistinzione completa di tutto quel che ci riguarda. Appunto perché usiamo i jeans, la Coca-cola, guardiamo MTV, Beautiful, ascoltiamo il pop, e contemporaneamente osanniamo la tradizione, non possiamo che dirci postmoderni (ergo globalizzati, ergo tardo capitalistici). E questa indistinzione è paurosa, spettrale, ci prefigura un mondo eternamente orizzontale, senza un prima e un dopo. Sicuramente da combattere: a mio parere, non più con lo sperato ritorno alla modernità o con le vetuste armi della stessa, ma costruendo una nuova piattaforma di pensiero.

A presto,
Marco

Postato venerdì, 11 gennaio 2008 alle 23:31 da Marco Gatto


Caro Sergio, io il testo del Valli me lo sono letto (anche se 20 o 25 anni fa) e lo trovai suggestivo. Certo, suggestivo non vuole dire convincente, anzi ….; tuttavia il Pirrotta (almeno quel che tu citi) se la sbriga in due righe e i pareri della critica dominante spesso vengono assunti per definitivi anche quando il discorso potrebbe essere tutt’altro che chiuso. Non dico che questo debba essere il caso, ma personalmente andrò a rivedermi la parte delle confutazioni agli oppositori, come tu suggerisci. Ora però me ne vò a dormire. Buona notte mio caro.

Postato venerdì, 11 gennaio 2008 alle 23:42 da Carlo S.


Ultimo pensierino della sera: ma com’è che siam finiti a parlare del Valli , del Dante esoterico e dei Fedeli d’Amore partendo dal Jameson e dal Postmoderno ? Ora mi sfugge il nesso, sarà che ho sonno… Forse sarà per il puro gusto sadico di fracassar le palle del Gregori …. boh!

Postato venerdì, 11 gennaio 2008 alle 23:50 da Carlo S.


Per Marco.
Mi dispaice ma io Beautiful non l’ho mai visto, a parte la canzoncina iniziale che viene sempre presa in prestito da qualche comico! E non conosco neppure MTV! La coca cola però l’ho bevuta ed ho anche qualche paio di jeans.
Che cos’è per te verticale, in opposizione a quanto hai elencato?
Rossella

Postato venerdì, 11 gennaio 2008 alle 23:55 da @ROSSELLA


Cara Rossella,
purtroppo esistono milioni di imbecilli che guardano Beautiful, e sono la maggioranza!
La verticalità può essere una metafora di tutto ciò che è moderno: dà ‘idea di un sistema compiuto , in cui sia possibile una concezione piramidale, capace di individuare i diversi segmenti che compongono un qualcosa (un concetto, una società e via di seguito): dà l’idea, insomma, di un sistema pesante. L’orizzontalità mi suggerisce, invece, qualcosa di stagnante, indefinito, eternamente immutabile. Saranno solo metafore?
A presto,
Marco

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 00:26 da Marco Gatto


Oppongo le metafore da voi citate: verticale e’ cio’ ch, andando verso l’alto, ovvero il cielo, porta all’indefinito e sovrumano o almeno ultraumano. L’orizzontale e’ invece il mio luogo preferito: lo stagno dove restano pensieri, atti ed esperienze soprattutto umane (storiche senz’altro… metafisiche? forse: sempre nel mio/nostro stagno antropologico).

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 00:42 da Sergio Sozi


(Mi piace e lo sento mio, lo stagno, perche’ su quel che resta in terra si puo’ riflettere, e cio’ si puo’ anche amare appieno; mentre quel che vola verso il cielo…eh… chissa’!)

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 00:45 da Sergio Sozi


Marco, Rossella,
non trattiamoli troppo da imbecilli, ’sti poveretti che fanno quel che dite voi: sono invece dei ”pericolosi miseri”. Gli imbecilli fanno cose da imbecilli, le quali sono in genere piu’ innocue, spesso anche belle ed eroiche. Insomma parlo piu’ dei fessi che degli imbecilli, a dir il vero, perche’ mi sento piuttosto imbecille, oggi, ma non pericoloso misero come la gente che ci circonda (non tutta, eh!).

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 00:49 da Sergio Sozi


Carlo Speranza,
il Pirrotta parla diffusamente della questione. Io ho solo citato la sua premessa.
‘Notte
Sergio

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 00:52 da Sergio Sozi


Marco, da persona che ha diciotto anni piu’ di te, posso dirti, affettuosamente come sempre, che ”quel che caratterizza il postmoderno, rispetto al moderno, è l’indistinzione completa di tutto quel che ci riguarda” (parole tue), non e’ cosa vera ne’ reale: si tratta invece della condizione in cui vive la gioventu’ di sempre, e appunto l’ho vissuta lungamente anch’io. Come tutti gli ex giovani, da quando e’ nato il mondo. Dante la visse, sai? Come noi e piu’ profondamente di noi.
Sergio

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 00:58 da Sergio Sozi


P.S.
(Rossella, grazie ma io non sono un avanguardista, ne’ delle Lettere ne’ del pensiero. Tutt’al piu’ un ”conservatore illuminato”; o meglio ancora sono solo uno scrittorucolo che… beh, i miei lavori in prosa e poesia sono rintracciabili facilmente cercando il mio nome su Google).

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 01:06 da Sergio Sozi


Una cara Buonanotte a tutti – Maugger in primis, il nostro anfitrionmecenate, partorito come Rugger dalla penna acuminata di messer Ariosto. Oila’!

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 01:08 da Sergio Sozi


Altro errata: il papa’ di D.G. Rossetti si chiamava Gabriele. Pardon.

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 02:57 da Sergio Sozi


Sergio grazie: Mi poni delle domande!
alle quali non posso rispondere come dovrei, perchè io per dire, di critica letteraria non so niente, tutto quello che scrivo lo scrivo da profana, tutt’alpiù da filosofa, e oramai manco più filosofa sono e studio altrissime cose, e insomma. Quindi, per esempio per la sezione Critica Dantesca, no, non posso dire proprio niente. mi attengo ai punti tre e uno.

– Vorrei partire però da una considerazione Sergio, e cioè dalla sintonia tra me e te, che parte dici tu (sempre che numme prendi per il culo:))) dalla considerazione del postmoderno applicata ai prodotti letterari e artistici. E poi dici, ma sul resto?
Questa grande ambizione dell’autorialità. Ma scrittori siamo tutti, dai metalmeccanici ai dantisti – solo che alcuni usano la penna, la scrittura è la traduzione in carta di un mondo mentale, chi traduce una sola stanza, chi un paio, chi dice penso che la mia stanza è l’idea platonica di tutte le stanze. Ci piace parlare di scrittori, perchè è come parlare degli esseri umani, solo che hanno avuto la gentilezza di solidificare in una forma scritta il loro pensato, la loro erlebnis – pure se fosse tributaria per dire, pure se si tratta di uno che ci ha tre nasi, e questo lo costringe a fiutare sempre le cronache nere. Per dire. Allora se parliamo di un certo momento storico e di come questo momento storico produce degli effetti nella produzione culturale, possiamo tranquillamente scegliere di parlare di prodotti letterari o artistici, perchè quelli sono la traduzione fenomenica del noumeno non leggibile, dell’esistenza comune. L’arte è una porta.
Parliamo perciò di prodotti artistici e letterari perchè è solo più facile che parlare di individui, i quali appunto non sempre ci dicono come reagiscono alla storia – non è detto che la gente subisca la storia come gli intellettuali vogliono sempre credere – (quando una persona si accorge di essere in gamba, dovrebbe esserne fiero, tuttavia ricordarsi che se c’è lui ce n’è almeno un altro) la gente produce senso nei modi più inaspettati. Noi non lo sappiamo. Ma quello che voglio dire in un certo senso, è che uomini e artisti sono sinonimi.

Allora parliamo di Storia e produzione letteraria. Il concetto di postmodernità è qualcosa che si tradisce nel momento in cui viene concettualizzata: presuppone che nell’epoca attuale il tardo capitalismo ha prodotto un livellamento di simboli e concetti che hanno portato a una diffusa desacralizzazione e appiattimento delle prospettive con cui si osservano le cose. L’idea del critico postmoderno è che tutti (tranne lui) mettono sullo stesso piano cose disparate perchè in conseguenza di tutte le brutture culturali che si vivono ha perso la capacità moderna e piramidale di gerarchizzare significati. Ora io non conosco nel dettaglio la letteratura postmoderna e quindi sto procedendo in base a riflessioni mie, ma io vedo una curiosa convergenza Sergio, tra te e Gatto cioè il non prendere sul serio gli oggetti culturali di questa epoca come produzioni significative. Quello le qualifica come parto incosciente della postmodernità, tu come cazzate. Siete infinale d’accordo che si tratti di prodotti orizzontali e privi di verticalità – è da decidere quanto siano postmoderni o meno. Tu addirittura accanto a Beautiful saresti in grado di metterci non solo Wharol ma che ne so, Mappelthorpe.

Allora io vi dirò, sono postmodernissima e ho guardato con molta passione Beautiful e tante altre cose. Mi sono occupata della relazione tra cinema e psicoanalisi, perchè la psicoanalisi è il mio attuale ramo di specializzazione e ho deciso di occuparmi giammai di Bellocchio o di Fellini, ma di cinema di cassetta. Sogno di scrivere un saggio sui Fratelli Vanzina e l’inconscio culturale. Lo faccio prchè sono convinta che questo oggetto – poniamo un film di cassetta, è titolare di significati suoi propri con piena dignità. L’estetica non c’è e tecnicamente sono anche un po’ idioti. Ma l’intelligenza e l’estetica sono categorie separate e non necessariamente fondamentali per la produzione di senso, che può essere anche inconsapevole. Se decido di occuparmi di queste cose, e subito dopo leggo un saggio di Forhdam, e subito prima leggo un lavoro di neurofisiologia, e alla fine mi compro un paio di scarpette bicolori der tipo che vanno di moda proprio adesso, non è assolutamente detto che io non sia in grado di discriminare attivamente il peso di queste cose nella mia esperienza intellettuale. Posso essere stata condizionata dal sistema? Ma io questo sistema economico non solo lo subisco ma lo produco scientemente, io vi reagisco chimicamente. Io e il mondo culturale che abito siamo in un rapporto circolare. Io casalinga. Io studentessa. Io lavoratrice. Io intellettuale e così via. Posso anche decidere di voler dare una forma compiuta decidendo di mettere insieme queste forme diverse della mia esperienza, magari è perchè sono sbalordita di avere a disposizione per la mia erlebnis oggetti tanto disparati. La mia intelligenza e il mio talento conferiranno a questi oggetti disparati una piramidalità in un prodotto artistico. Tanto più sarò capace di farla scoprire a chi lo legge e lo guarda tanto più sarò postmoderno solo nell’insieme dei simboli scelti e moderno nella significanza che possono assumere.

Ritengo che la piramidalità e la gerarchizzazione e il conferimento di senso sono cose che capitalismo o meno, jeans o meno, pubblicità o meno, riproducibilità tecnica o meno, siano funzioni psichiche sempre attive e indistruttibili. Wahrol non ti piace, ma non è un cretino è una gerarchizzazione di significati che tu disconosci, è postmoderno nella sintassi ma rimane moderno nellla semantica. La critica con la C maiuscola può decidere di occuparsi di come in un singolo autore, magari postmodernerrimo alligni l’inevitabile piramide di senso, i cultural studies, che io amo, si occupano di fare la stessa cosa con prodotti culturali più o meno pop.

Ma forse ciò che è avvertito come uno strano intruglio tardo capitalistico, una notte in cui tutte le vacche sono nere, è invece una notte in cui noi non ci sforziamo di distinguere i colori e diamo la colpa alla storia.

Buona giornata e grazie a tutti!

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 08:25 da zauberei


@ zauberei:
al di là di condividerlo o meno, il tuo intervento è molto intelligente. da dove l’hai copiato?
:-)

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 09:10 da Enrico Gregori


Rieccomi! Scusate il ritardo.
Ho letto tutti i vostri commenti. Stiamo un po’ divagando ma… bravi!
Va bene così.
:)
Bello l’interscambio tra Sergio, Marco, Carlo, Paolo.
Interessante l’ultimo intervento della cara Zauberei.
Per quanto mi riguarda avevo preso l’impegno di “puntualizzare” il concetto di letteratura postmoderna. Ed è quello che mi accingo a fare con i prossimi commenti rielaborando alcuni contributi forniti dal gruppo letterario di wikipedia, da saggi di critica letteraria e da manuali ed enciclopedie di storia della letteratura.
Per il resto… come abbiamo dimostrato con la nosta discussione il “postmoderno” divide (già a partire dall’ammissione della sua esistenza)

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 09:58 da Massimo Maugeri


In un precedente commento (leggete sopra) avevo scritto che c’è chi sostiene che la “letteratura postmoderna” sia una tendenza letteraria che nasce come una serie di stili e idee dopo la seconda guerra mondiale in reazione (non in contrapposizione) alle teorizzazioni del “moderno” (inteso nel senso di avanguardia) ed estende molte delle tecniche ed assunzioni fondamentali della stessa “letteratura modernista”.
Poi ho messo in evidenza cosa certa critica anglosassone intende per “letteratura modernista” o “modernismo”…

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 10:00 da Massimo Maugeri


Letteratura postmoderna
Partiamo dal presupposto che la c.d. letteratura postmoderna non si ponga contro la letteratura delle avanguardie del primo ‘900, ma tenda a svilupparne ed estendere lo stile facendosi consapevole e ironica.
In ogni caso sia la letteratura modernista sia quella postmoderna rappresentano una rottura rispetto al realismo del diciannovesimo secolo (sebbene sia stato rilevato che alcuni scrittori postmoderni – come (Steven Millhauser o talvolta John Barth – riprendano idee, stili, tecniche della letteratura ottocentesca.
Certamente il citazionismo, l’imitazione e il pastiche sono tratti caratteristici della letteratura postmoderna più che di quella modernista, quindi è facile ritrovare negli scrittori postmoderni deliberate imitazioni (dette anche pastiche) dello stile di scrittori nel passato. Ne è un ottimo esempio l’ultimo romanzo di Thomas Pynchon, Mason & Dixon, che imita il tono e addirittura l’ortografia degli scrittori del ‘700 inglese (come Henry Fielding e Jonathan Swift).
Nello sviluppo dei personaggi, sia la letteratura moderna che quella postmoderna esplorano il soggettivismo metafisico, passando dalla realta’ esterna per esaminare gli stati interni della coscienza, in molti casi appoggiandosi ad esempi della letteratura moderna come il flusso di coscienza di Virginia Woolf e James Joyce. Ma alcuni narratori postmoderni rifuggono dai personaggi a tutto tondo, privilegiando personaggi monodimensionali, spesso ripresi in modo più o meno esplicito da altre opere letterarie (come il Marco Polo di Italo Calvino nelle Città invisibili).
Inoltre sia la letteratura moderna che quella postmoderna esplorano la frammentarietà nella narrativa e nella costruzione del personaggio, che riflette i lavori del drammaturgo svedese August Strindberg e dell’italiano Luigi Pirandello. I personaggi della letteratura postmoderna spesso non ambiscono ad essere ritratti approfonditi di psicologie analizzate in estremo dettaglio: spesso sono personaggi piatti, o allegorici, che non pretendono di avere una profondità psicologica. In questo possono ricordare certe figure che s’incontrano nelle opere di Franz Kafka, scrittore ceco assimilabile al modernismo, ma che ha influito potentemente sulla letteratura postmoderna. Esempi di questa tendenza si possono trovare nei racconti di Donald Barthelme o nei romanzi di John Barth.
Riguardo alle modalità di rappresentazione, mentre la letteratura modernista cercava nuovi modi di raccontare una realtà che comunque era ritenuta conoscibile (anche se i modi di rappresentazione sperimentali di autori come Joyce o Ford Madox Ford o Virginia Woolf possono spiazzare il lettore abituato alla narrativa tradizionale), la letteratura postmoderna si pone il problema di raccontare una “realtà” che non è più data, oggettiva, solida come quella postulata dal positivismo del XIX secolo. Questo può portare l’accento su una serie di fenomeni socioculturali che hanno ripetutamente attratto la narrativa postmoderna:
• le realtà simulazionali e virtuali (dal mondo artificiale creato dai massmedia alla realtà virtuale);
• gli inganni e le trappole della narrazione e della letteratura in generale (il concetto di fiction o finzione);
• i complotti, gli intrighi, i segreti, le messe in scena della storia;
• i limiti alla nostra capacità di conoscere decretati anche dalle scienze (principio di indeterminazione di Heisenberg, entropia, teoria della probabilità, teorie del caos, ecc.)
• la società dei consumi con la sua spettacolarizzazione delle merci;
• i simulacri nel senso previsto da Jean Baudrillard, cioè di significanti privi di un vero significato;
• l’impossibilità di ricomprendere la complessità del reale con un unico discorso conoscitivo (o “grande narrazione” nel senso di Jean-François Lyotard).

In grassetto i nomi degli “autori postmoderni”

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 10:07 da Massimo Maugeri


Origine della letteratura postmoderna
Nei commenti precedenti molti di voi hanno sottolineato come sia difficile individuare il punto esatto in cui cessa una stagione letteraria e se ne apre un’altra. Nel caso della letteratura postmoderna il problema è complicato dal fatto che essa trova il suo nome e la sua teorizzazione negli Stati Uniti, ma accoglie al suo interno scrittori di altri paesi “adottati” dal movimento nordamericano (i nomi più significativi in questo caso sono quelli di Borges, Calvino, Marquez, Nabokov). È comunque possibile indicare come momento di transizione tra modernismo e postmoderno quello che va dal 1940 al 1960. In questo periodo si situano opere chiave come The Recognitions (Le perizie) di William Gaddis, del 1955; The Cannibal di John Hawkes, del 1949; Il giardino dei sentieri che si biforcano di Jorge Luis Borges, del 1941; Lolita di Vladimir Nabokov, del 1955.
La piena “fioritura” della letteratura postmoderna si ha però negli anni 1960, a partire dalla pubblicazione di The Sot-Weed Factor di John Barth (1960), del capolavoro di Joseph Heller, Comma 22, del 1961, e del primo romanzo di Thomas Pynchon, V., nel 1963. Soprattutto il successo commerciale di Comma 22 ha aperto la strada alla narrativa postmoderna che troverà la sua consacrazione nel 1973, con la pubblicazione del capolavoro di Pynchon, L’arcobaleno della gravità, vincitore del prestigiosissimo National Book Award (l’equivalente dell’Oscar per la letteratura statunitense).

A mio avviso il vero padre della “letteratura postmoderna” è John Barth. E il primo romanzo post-moderno The Sot-Weed Factor
(Un paio dei romanzi di Barth sono stati recentemente riproposti da Minimum Fax)

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 10:10 da Massimo Maugeri


Ancora sulla letteratura postmoderna
Da altro punto di vista possiamo affermare che, nella letteratura, il postmoderno si configura come una tendenza che cerca di recuperare un pubblico di massa, senza per questo rinunciare ad una dimensione raffinata o intellettualistica (ciò – come già detto – in rottura con la tradizione dello sperimentalismo novecentesco).
Torno ancora sul modernismo per precisare che parte di certa critica anglosassone lo ha accusato di essere elitario e di aver disorientato il lettore per renderlo critico o dubbioso sul mondo in cui vive, intervenendo sia sul piano tematico sia su quello formale. Al contrario, gli autori postmoderni puntano a rendere rassicurante il rapporto con la lettura e dunque nel romanzo recuperano intrecci, stilemi narrativi e linguistici tradizionali o tipici della narrativa
popolare, per esempio quella poliziesca. Questi stilemi, però, vengono spesso usati con un certo gusto per la citazione , senza l’ingenuità dei modelli e con una particolare ironia, grazie alla quale ammiccano alle fasce di pubblico più colte.
Uno scrittore considerato da molti postmoderni come un precursore, benché non appartenga, sia per motivi cronologici sia interni alla propria opera, al postmoderno, è (lo abbiamo detto) l’argentino Jorge Luis Borges (1899-1986), nel quale il tema del labirinto, il gioco letterario raffinato sull’identità e il gusto per la rievocazione di ambienti e culture inconsuete sono letti come premesse del postmoderno. È tuttavia lo scrittore italiano Umberto Eco (1932) a proporre il primo testo di definizione complessiva del postmoderno in letteratura con le Postille (1983) al suo celebre romanzo Il nome della rosa: in questo testo Eco
individua nell’atteggiamento consapevole nei confronti della modernità, nel riuso ironico dei materiali artistici storici e nel bisogno di riavvicinare il lettore al piacere della lettura i tratti fondamentali del postmoderno.
In Italia, oltre a Eco, la letteratura postmoderna si diffonde per opera di un altro autore, Italo Calvino (1923-1985) per via del romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979) condierato – insiema a Il nome della rosa (1980) – anche a livello internazionale, come uno tra i testi più significativi della nuova tendenza. I libri, assai diversi per argomento e impostazione narrativa, hanno in comune la capacità di affascinare il lettore attraverso un gioco intellettuale e metaletterario molto raffinato, un stile leggibile da tutti e una serie di dotte e raffinate citazioni di
vario tipo. Un altro romanziere che la critica si avvia a considerare un punto di riferimento postmoderno, è Antonio Tabucchi (1943), in cui il recupero della leggibilità non è mai disgiunto da raffinati giochi intertestuali.

Il resto a dopo…

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 10:31 da Massimo Maugeri


Massimo grazie! – ma ti prego “cara” Zauberei te prego no, me fa tanto zia triste ecco:)
Poi penso alle cose che scrivi.

enrico grazie anche a te:) ho copiato dal tuo secondo naso – quello che non usi per sniffare.

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 10:48 da zauberei


Complimenti alla “sorella” zauberei…

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 11:12 da eventounico


AVVERTENZA: NON SIETE OBBLIGATI A LEGGERE!

Intervista con G.R. Swenson a Lichtenstein in ART NEWS n. 7 New York. (1963)
Cos’è la Pop Art?
- Non lo so – servirsi dell’arte commerciale per il contenuto del quadro, suppongo. E’ stato difficile fare un quadro che fosse spregevole al punto che nessuno l’avrebbe appeso – appendevano al muro tutto. Era quasi normale appendere uno straccio gocciolante, tutti c’erano abituati. L’unica cosa che tutti odiavano era l’arte commerciale; ovviamente non odiavano abbastanza neanche quella.
La Pop Art è spregevole?
- Beh è coinvolta con quelle che sono le caratteristiche più sfacciate e minacciose della nostra cultura, le cose che odiamo, ma che sono anche così potenti nella pressione che esercitano su di noi. Penso che l’arte dai tempi di Cezanne sia diventata estremamente romantica ed irreale, nutrendosi di arte; è utopistico.
- Ha avuto sempre meno a che fare con il mondo, si è guardata internamente- neo Zen o cose del genere. La mia non è una critica, solo un’osservazione ovvia. Fuori c’è il mondo; è lì. La Pop Art guarda al mondo; sembra accettare il suo ambiente che non è né buono né cattivo, ma diverso – una diversa condizione di spirito.
Si sente antisperimentale?
- Noi siamo anticontemplativi, antisfumatura, antiliberiamoci della tirannia del rettangolo, antimovimento e luce, antimistero, anti qualità pittorica, antizen,…d’altra parte le insegne stradali ed i fumetti sono interessanti quali soggetti di pittura. Noi infatti ce ne serviamo, ma non ci stiamo facendo campioni della stupidità, delle manie internazionali dei teen ager e del terrorismo.
Critici contrari alla Pop Art hanno detto che non trasforma i suoi modelli. E’ vero?
- Trasformazione è una strana parola. Implica che l’arte trasforma. Non è vero, dà forma. Quello che si vuol dire è che artisti come Cezanne trasforma il dipinto da come noi pensiamo dovrebbe apparire in come egli vuole che appaia. Egli lavorava col colore, non con la natura; creava un quadro, delle forme.
Un conservatore del Museo d’arte Moderna ha detto che la Pop Art è fascista…
- Gli eroi dei fumetti sono dei tipi fascisti, ma nei quadri io li ironizzo- forse c’è una ragione nell’ ironia, una ragione politica.
La pop Art è americana?
- Tutti hanno battezzato la pop art americana, ma in verità è pittura industriale. L’America è stata colpita dall’industrializzazione e dal capitalismo prima e più profondamente che altrove i suoi valori sembrano sovvertiti. Credo che la mia opera abbia un valore perché è industriale, ed è ciò che tutto il mondo presto diventerà. Presto anche l’Europa sarà la stessa cosa, così la pop art non sarà americana, ma universale …. –.

Cari Amici,
non aggiungo alcun commento a quanto dichiarato dallo stesso leader.
Ma siccome non sono d’accordo con quei critici d’arte alla moda che hanno preso due palle da biliardo e se li sono messi al posto degli emisferi cerebrali, e’ mio dovere farvi presente la profezia di Paul Klee, pittore astratto di un Europa che cercò nell’opera d’arte la creazione e non la fabbricazione. Egli infatti ritenne che l’arte moderna se si fosse attaccata al processo di industrializzazione avrebbe perso il suo Senso.
Rafforzando la mia imparzialità aggiungo anche una dichiarazione dello stesso Cezanne:
Un intelligenza che organizza rigorosamente – diceva Cezanne a Gasquet, – è la più preziosa collaboratrice della sensibilità per la realizzazione dell’opera d’arte. Nella pittura ci sono due cose: l’occhio e il cervello, ed entrambe devono aiutarsi fra loro.
La pittura è prima di tutto un ottica. La materia della nostra arte è per l’appunto qui, in quello che pensano i nostri occhi. La natura si spiega sempre, quando la si rispetta, per dire quello che significa.
E’ noto il gesto con il quale C. voleva far comprendere a Gasquet il senso della sua ricerca. Egli apriva le mani, le avvicinava l’una all’altra, le intrecciava e le stringeva convulsamente. “questo si deve ottenere” diceva “ se io mi tengo troppo in alto o troppo in basso, tutto è perduto. Non ci deve essere neppure una maglia allentata, neppure un foro da cui la verità possa sfuggire. Io riunisco tutto ciò che è disperso. Tutto ciò che appare si disperde; la natura è sempre la stessa. Così io stringo queste mani erranti…se i valori cromatici sulla mia tela corrispondono ai piani che si presentano ai nostri occhi, bene: la mia tela intreccia le mani, non barcolla, è vera, è compatta, è piena…”
Un senso nuovo gliene veniva dal procedere.
Rossella

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 11:24 da @ROSSELLA


Cari tutti,
belli gli ultimi interventi, ricchi di importanti puntualizzazioni. In particolare, quello di Zauberei, molto significativo. Penso colga nel segno quando afferma che la postmodernità si caratterizza per la perdita della capacità di saper gerarchizzare: è proprio quello che volevo dire quando ho fatto riferimento all’orizzontalità del tutto (a Sergio potrei controbattere: nell’orizzontale cielo e terra sono appiattiti, nel verticale sono distinti e c’è possibilità di distinguerli: in un certo senso il postmoderno è la notte in cui tutte le vacche sono nere, per citare l’amato Hegel che prendeva a cantonate Schelling). Zauberei poi nota: “Ora io non conosco nel dettaglio la letteratura postmoderna e quindi sto procedendo in base a riflessioni mie, ma io vedo una curiosa convergenza Sergio, tra te e Gatto cioè il non prendere sul serio gli oggetti culturali di questa epoca come produzioni significative”. Qui non sono d’accordo. Il mio ragionamento mira a tutt’altro. Mentre Sozi sostiene che il postmoderno è una delle possibile vie della modernità ancora persistente, io mi accanisco nel considerare la postmodernità come una nuova fase della nostra epoca, da cui ogni aspetto della modernità è stato rimosso (il post inganna e va inteso in senso contrastivo e non temporale). Ritengo che bisogna analizzare i prodotti estetici del postmoderno perché in alcuni di essi si celano le aporie di questa stessa epoca: insomma, la vecchia idea gramsciana di lavorare dentro il sistema per distruggerlo, per mostrarne le contraddizioni ed esasperarle. Va da sé che esistano libri postmoderni di grande rilievo, che io non demonizzerei: come si fa a demonizzare “Running Dog” di DeLillo o il suo “Falling Man”, in uscita finalmente in Italia in questo mese? Piuttosto, non fare i conti con la nuova produzione dell’immaginario postmoderno significa ritrarsi di fronte alle sfide del presente, che ci dispongono a un’auscultazione precisa dei fenomeni, al fine di indirizzarli verso un orizzonte politico differente. Ogni atteggiamento di ritrosia è, per me, reazionario. E’ ovvio che la maggioranza di tali prodotti cavalchino l’onda e si presentino come qualitativamente bassi: non a casa si parla di crisi dell’autorità, di oltrecanone, di degrado letterario. Ciò non toglie che al mondo ci siano grandi scrittori, ovvero quelli che sanno meglio dipingere e riflettere la crisi dell’umanesimo nell’alveo del tardo capitalismo. Da qui il mio apprezzamento, se vuoi, per un libro come “Superwoobinda” di Aldo Nove o “Underworld” di DeLillo, and so on.

A presto,
Marco

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 12:57 da Marco Gatto


Perdonatemi se vi riporto alla triste quotidianeità, non considero il famigerato popolo di “Beautiful” degli irrimediabili imbecilli, non dimentichiamoci che sono il muro portante dell’editoria italiana, quelli che si dice leggono tutto. Ritengo piuttosto ragionino su un linguaggio lontanissimo da quello che usate, voi emintenti coltissimi addetti ai lavori, una comunicazione diversa non necessariamente stupida e se tutto quello che possono trovare è un argomentare abominevole, si accontentano anche di quello. Secondo me c’è un bisogno di cultura diversamente abile, che cerca disperatamente di svilupparsi.
Forse c’è una dislessa concettuale ben più radicata di quello che potreste immaginare e se vi ostinate a considerarla ignoranza, continuerete a navigare a vista, in un oceano d’incomprensioni.
donatella.f

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 14:20 da donatella.f


@ Zauberei
Sostituisco il termine “cara” con… “a buon mercato”
;)

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 14:37 da Massimo Maugeri


Gli autori di lingua inglese letteratura postmoderna
Nella letteratura di lingua inglese sono ovviamente gli Stati Uniti ad avere una vasta produzione di tipo postmoderno. In particolare il romanziere Thomas Pynchon (1937) è considerato un autentico precursore, ma anche maestro di questa letteratura. Due tra i principali autori postmoderni sono considerati Edgar Doctorow (1931), autore di romanzi storici, e Don De Lillo (1936), che costruisce invece storie che hanno spesso come oggetto un complotto o una congiura, riutilizzando così generi letterari popolari come il poliziesco e la fantascienza.

Ho già accennato a John Barth.
Aggiungo che, a mio avviso, rientra nell’elenco anche il “giovane” David Foster Fallace. Mentre qualche critico considera postmoderna anche la Doris Lessing, quella – almeno – del ciclo di fantascienza.

Per quanto riguarda la polemica sul postmoderno forse occorre evidenziare l’intervento di Thomas Pynchon attraverso il suo romanzo Mason & Dixon: non c’è niente di più temibile di una versione unica di come stanno le cose nel mondo o come sono andate le cose nella storia (e con ciò Pynchon allude evidentemente al pensiero unico). La letteratura che lui pratica, quella postmoderna, cerca invece di dare voce a più versioni della storia, in modo che ci sia possibilità di dialogo, di dibattito, di confronto; questo lascia spazio anche alla verità dei deboli, degli sfruttati, degli sconfitti.

Chiudo sottolineando che che Don DeLillo (soprattutto quello di “Rumore bianco” e “Underworld”) è uno dei miei autori preferiti.

Buona prosecuzione!

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 14:44 da Massimo Maugeri


Sono in ansia per gli zibidei di Gregori.

Detto ciò
1) Ancora grazie a Massimo! Massimo era mejo cara, sisi melo tengo eh;))
grazie delle precisazioni. Ora siccome ho letto un sacco degli autori citati e categorizzati come postmoderni, posso fare una domanda al popolo critico et preparato? Perchè che de lilllo è post moderno ce lo capivo. Ma che lo fossero Borges e Calvino mi ha gettato nello sconforto.
Pecchè?

2) Marchissimo Gatto, naturalmente mi complimento con te, e vabè lo sai che sei bravo. Però guarda io t’ho capito benissimo solo che alla fine, non sono d’accordo con la tua tesi, perchè la trovo qualcosa di simile al paradosso del mentitore cretese: quello li che dice, io dico la verità quando dico che sto mentendo. Cioè metti insieme in unico sintagna la negazione di un modno con un senso, e il fatto che possa essere popolato da gente che senso ne produce. Se la gente produce sensi gerarchizzati, come fa il mondo culturale a non essere in grado di produrne? Se decidiamo che con la parola “modernità” significhiamo il vizio di creare gerarchie di valore (ma per me si potrebbe anche usare la parola “carciofo”) allora ecco, la modernità non muore mai. E la postmodernità è una possibile cornice storica, un modo di roganizzare dei segni determinati piuttosto che un altro. In ogni caso constato che ho le idee molto più chiare adesso che all’inizio di questo dibattito e in questo sono debitrice a tutti voi.
La tua convergenza con Sozi, non è nelle qualifiche che puai dare alla letteratura, ma appunto a Beautiful e ai parti della cultura pop, contro cui mi pare ti scagliavi poco sopra.

Due parole a Donatella, che immagino non abbia letto tutti gli interventi. Meno che mai il mio, che di Beautiful rivendicava un orizzonte di senso. Cara Donatella sai che c’è, io collaboro con il reparto di di psicoterapia dell’adolescenza in un ospedale pubblico. Capita che parli persino di queste cose, e naturalmente con un altro linguaggio. Registri diversi per occasioni diverse. In un contesto scientifico o di persone che per un certo tragitto parlano scientificamente, occorre usare il lessico opportuno però, perchè altrimenti l’unica cosa che si fa è prendere per il culo proprio quelle persone che in altri contesti e proprio di quegli strumenti scientifici possono avere bisogno.
Se te dovesse dispiacè – ahò c’è sempre Luciano De Crescenzo.

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 15:30 da zauberei


@ zauberei:
non essere in ansia per lo stato dei miei ammennicoli. se continuo agevolmente a sopportare te è evidente che la mia mamma me li fece di tungsteno

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 15:47 da Enrico Gregori


Lascio a Marco, a Sergio e a Zaubarei (particolarmente buoni i suoi ultimi interventi; mi associo a lei anche sulla meraviglia riguardo alla postmodernità di Borges e Calvino, ma m’inchino), a Rossella e a chi altri vorrà intervenire il tema del postmoderno, sul quale ho detto la mia e ben poco ho da aggiungere. Mi piacerebbe invece insistere sul tema dantesco, per quanto ramo molto collaterale della discussione che si è aperta, e che forse poco ha a che fare col tema generale e di maggior interesse.
A Sergio (e a Paolo se ci legge ancora, anche se dopo aver lanciato l’argomento specifico ora tace) vorrei dire che quanto lui scrive non mi convince ancora.
Non sono un esperto di studi dantistici quale lui è, ma l’argomento mi interessa molto e se non abuso della pazienza di chi legge (Gregori è esentato, se lo vuole, per salvaguardia della propria virilità) vorrei dirgli che sono andato a rileggermi il capitolo finale del Valli, quello delle confutazioni, e mi preme rilevare che:
1) Valli mi pare di una modestia, una onestà ed una serietà esemplari fin dalle sue premesse:
“ …sono ben lontano dal credere che i risultati di questa mia indagine metodica siano tutti certi e definitivi…. Credo che moltissime delle cose che ho detto ..debbano essere rivedute e corrette….perchè mi rendo conto perfettamente di quanto in questa materia sia facile errare o travedere…..Io chiamo dunque i giovani a studiare questo problema e prima di tutto tengo a metterli in guardia contro gli errori che io stesso posso aver commesso e li consiglio di non formarsi un giudizio definitivo, se non dopo avere seriamente e direttamente riconsiderato il materiale poetico dal quale io ho dedotto le mie conclusioni. Ma è soprattutto importante che essi facciano questo con spirito libero e perciò io li metto in guardia anche contro gli atteggiamenti scioccamente e superficialmente ostili che queste idee troveranno in molti ambienti scolastici e in molte ‘autorità in materia’.
2) Molte delle critiche mosse a lui e prima di lui al Pascoli, al Foscolo e a Rossetti infatti paiono assolutamente preconcette, spesso pretestuose, a volte decisamente sciocche (trattasi delle opinioni dello Schlegel innanzitutto, di Settembrini, Carducci, Della Torre, Del Lungo ed altri), ed espresse con astioso disprezzo in molti casi, almeno fino a quel periodo in cui Valli scrive.
3) Auerbach cita tre volte il Valli nei suoi “Studi su Dante” : due volte in nota (riconoscendogli in un caso “intelligenza e coerenza”, anche se non crede che il suo libro elimini una serie di dubbi esposti; nell’altro “intelligente chiarezza” nel suo trattato sulla simbologia “croce e aquila”) ed una nel corpo del testo dove lo stesso Auerbache tenta di conciliare l’impostazione recondita e allegorica della figura di Virgilio (Valli- Mandonnet) con quella storica, nella propria struttura interpretativa “figurale”, senza che l’una escluda l’altra.
Insomma Auerbach (mica frà Pippo da Vetralla) mi pare che, pur non sposando le tesi degli “arcanisti” che indubbiamente giudica vane e talvolta fantastiche sino al ridicolo (e condivido anch’io l’opinione di tale rischio in questo filone- in generale-), riconosca al Valli serietà ed onestà intellettuale.
Quello che vorrei insistere a dire è che il filone aperto da Rossetti e proseguito fino al Valli a mio parere, pur riconoscendo la pericolosità di possibili e ardite speculazioni cui temi quali “i catari, i templari, lo gnosticismo, i rosacroce et similia” possono facilmente condurre e squalificare, sia comunque interessante ed ancor oggi degno di studi ed ulteriori approfondimenti, e che troppo semplicistico mi sembra liquidarli su posizioni a volte precostituite e spesso accettate generalmente per comodità o pigrizia intellettuale, poi condivise solo in base alla supposta autorità dei nomi.
Per evitare i pericoli del ridicolo in questo campo minato è tuttavia necessario non giungere a facili conclusioni lasciandosi abbagliare da ciò che appare suggestivo o affascinante. Soluzioni definitive sarà ben difficile trarne. Il dubbio dovrà governare la mente, ma le domande da porsi secondo me potranno valere il gioco, ben più delle risposte.
Il medioevo rimane un periodo “buio” della nostra storia, che i pur importanti studi fin qui fatti hanno illuminato solo a sprazzi. E Dante in quelle tenebre c’era dentro fino al collo.

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 16:54 da Carlo S.


@Zaube
scusa, ogni tanto mi scappa Zaubarei invece di Zauberei. (Devo ricordarmi di usare di più il condizionale).
Carlo

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 17:08 da Carlo S.


Accolgo l’intervento di Zauberei e la sua critica, possibile e arguta. A dire il vero, la cognizione che io ho del postmoderno è un po’ differente. Nel senso che, nell’epoca della dispersione dei significati, ci è paradossalmente offerta una possibilità in più di avvicinamento alle verità materiali che sottendono qualunque comprensione. Il fatto cioè di poter ragionare umanamente in un mondo che ha smesso di essere umano: questo mi pare il risvolto che cancella il paradosso di far riferimento a grandi sistemi nel momento in cui questi ultimi sono stati cancellati insieme al loro referente più immediato, ovvero la natura.
Quanto alla mia visione – mia e solo mia, probabilmente – di alcuni prodotti tipicamente postmoderni, come il pop, il punk, il cyberpunk, beh, ritengo soltanto che siano etichette che riflettono la convenienza di un immaginario sempre più spezzettato e per questo indistinto. UN esempio concreto: l’etichetta “cannibali” è durata il giro di dieci anni o meno, quasi in coincidenza dell’esaurirsi dell’appeal di questo conio pubblicitario.

Vi abbraccio tutti,
Marco

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 19:17 da Marco Gatto


A Marco! Mi sa che ci hanno abbandonati tutti per sfinimento.Su sto post siamo rimasti solo in 4 gatti (ah, ah, ah), con il solo Massimo che ogni tanto ci incita a continuare; o forse addirittura solo io e te, e a parlare di cose diverse. Mi pare molto Kafkiano. O sarà postmoderno ?

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 20:37 da Carlo S.


@ carlo:
per la cena, tavoli separati. nun te reggo!
:-)

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 20:58 da Enrico Gregori


@grego
Dài che ti porto il bostik.

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 21:08 da Carlo S.


Cara Zauberei,
siamo in campi diversi. Credo sia meglio evitare di dialogare per finta, poiche’ io non ne so niente di psicanalisi e tu niente di critica letteraria. Solo una cosa: non credo che ogni uomo sia uno scrittore. Altrimenti ognuno potrebbe essere anche, perche’ no, avvocato o anestesista, meccanico. Lo scrittore e’ un professionista come tutti. Studia e lavora, viene pagato per codificare il pensiero e le storie come altri non sanno fare.
Sergio

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 21:34 da Sergio Sozi


Cara Donatella F.,
hai presente il macellaio? Ecco. Bene. Gli diresti, quando sei nel suo negozio, che deve cambiare mestiere perche’ esistono dieci milioni di non-macellai? Io no. Neanche a chi lavorasse sulla conta delle pulci zoppe, se e’ preparato e le conta bene.
Sergio Sozi

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 21:38 da Sergio Sozi


Marco,
il mondo e’ sempre lo stesso: con la stessa disumanita’ dell’uomo di settecentomila anni fa e la stessa bellezza, tenerezza, disperazione, eccetera. Solo che ora non ci sono piu’ le teste pensanti di prima. E cio’ e’ dovuto a due realta’: quella biologica che non crea persone neuronicamente superdotate e, seconda ma non minore, al fatto che i soliti ignoranti di sempre occupano il posto di dominio che hanno sempre occupato, ma – differenza importante rispetto a prima – non hanno davanti le persone di valore che esistettero fino a qualche decennio fa.
Perche’ sia cosi’ lo ignoro, ma secondo me e’ cosi’. Tutto il resto ne consegue: sbandamento, confusione generale, piattezza, eccetera.

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 21:44 da Sergio Sozi


Mi sa che abbiamo tutti chiaro cosa pensiamo:)
Sergio mi è spiaciuta la tua chiusa e non la condivido. La prospettiva postmoderna è oggi talmente vasta da ridiscutere molti campi. Facevi prima a dirmi che non eri d’accordo.

Ma chiudiamo quiii:) ho appena fatto la zucca al forno!
E’ commestibile:) chi vuole ne po’ prende un pezzetto:)

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 21:57 da zauberei


Marco,
ho capito, finalmente, a fondo, la differenza sostanziale fra me e te: tu consideri il lavoro dello scrittore come quello di un uomo che STA nel mondo in cui vive. Io invece no.
Ti ringrazio per questa illuminante precisazione, che mi piace citare per contrasto alla mia concezione-vita di ”uomo fuori-ma-non-estraneo-al-mondo”:
”non fare i conti con la nuova produzione dell’immaginario postmoderno significa ritrarsi di fronte alle sfide del presente, che ci dispongono a un’auscultazione precisa dei fenomeni, al fine di indirizzarli verso un orizzonte politico differente. Ogni atteggiamento di ritrosia è, per me, reazionario. E’ ovvio che la maggioranza di tali prodotti cavalchino l’onda e si presentino come qualitativamente bassi: non a casa si parla di crisi dell’autorità, di oltrecanone, di degrado letterario. Ciò non toglie che al mondo ci siano grandi scrittori, ovvero quelli che sanno meglio dipingere e riflettere la crisi dell’umanesimo nell’alveo del tardo capitalismo.”
Sono piuttosto, invece, convinto, che chi non si isoli non scriva buona narrativa ne’ faccia nient’altro di artisticamente valido (non parlo di me, certo, ma in generale me compreso).
Rivoluzionario o reazionario che sia (non per me che ho altre categorie per giudicare i cittadini), solo l’artista meditabondo e’ un artista vero. E si medita in solitudine. Sempre. Gli altri vendono. Anche se sono impegnati politicamente e/o teoreti. Vendono; ma la differenza di qualita’ dei prodotti e’ chiara.

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 21:58 da Sergio Sozi


(Cioè Sergio io so strana, ma a parte certi giudizi che dai sulle cose pop doveva esse chiaro che semo d’accordo) Ma nun te preoccupà – non è grave.

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 21:58 da zauberei


Zauberei,
ti ho detto appunto che non ero d’accordo, poiche’ penso che uno scrittore non e’ un uomo qualsiasi, come io non sono un medico. Normale. Niente per cui prendersela. Comunque se ti avessi offesa scusami. Io parlo senza troppi giri di parole, ma non offendo nessuno.
Mangio la tua zucca col pensiero.

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 22:04 da Sergio Sozi


Non mi preoccupo. ”Male non fare paura non avere” e’ il mio proverbio principale.

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 22:16 da Sergio Sozi


“Lo scrittore e’ un professionista come tutti. Studia e lavora, viene pagato per codificare il pensiero e le storie come altri non sanno fare.”

Sergio, scusa se te lo chiedo, ma ne ne sei veramente convinto ?

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 22:16 da eventounico


Caro Sergio,
la tua scelta è un po’ romantica, non la condivido ma la capisco e la rispetto. Ovviamente, quando dico che è necessario stare nel sistema per distruggerlo (oddio, sembro un brigatista), non intendo un atteggiamento compromissorio col potere, ma critico-costruttivo.
Ebbene sì, siamo rimasti in pochi qui, ma l’argomento è inesauribile…

a presto,
Marco

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 22:30 da Marco Gatto


:)
vado va, prima che gli zibidei de gregori passino alla stato gassoso:)

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 22:31 da zauberei


Certo. Se non viene pagato vuol dire che o non sa scrivere o che la moda richiede altro (ingiustizia palese, questa ultima). Cio’ non toglie che fare lo scrittore sia un lavoro, una professione. Come l’insegnante, il medico o il meccanico, lo scienziato.
Questo io lo constato vedendo e considerando la differenza tra i libri a proprie spese e quelli fatti da editori seri – con le dovute eccezioni che restano eccezioni. C’e’ anche il lavoro nero, naturalmente: un’ingiustizia che fa si’ che dei professionisti vengano sottopagati.
E’ sempre stato cosi’: Omero faceva parte di una ”gilda” (associazione di poeti professionisti), Virgilio era un autore di lavoro, eccetera. Cosa c’e’ di male? Scrivere non vuol dire avere idee politiche o preconcetti politici. E io, in questo campo, non ne ho. Come quando porto mia figlia dal pediatra e voglio che sia solo bravo, quando compro un libro o lo leggo soalamente, voglio che l’autore sia bravo. Se egli studia e ha sensibilita’, cervello e tecnica e’ bravo, se no no. Faccia altro: io non mi permetto di fare il pediatra ma giudico il pediatra dal risultato, ossia la guarigione di mia figlia. Quando invece esco dall’ambulatorio e scrivo mi sottopongo implicitamente alle opinioni dei miei ”utenti”: quelli che mi pagano per avere dei dettati scritti correttamente in lingua, al di la’ dei contenuti. Ma scrivere correttamente, con la doverosa punteggiatura e seguendo le regole sintattico-grammaticali, eccetera, non e’ da tutti. Serve studiare. Dopo aver studiato si cerca di entrare in un mestiere. Semplice. Come tutti gli altri cristiani, direi.

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 22:33 da Sergio Sozi


Ognuno puo’ dire quel che gli pare; ma la Storia e’ li’: dice che nel casino generale non nascono capolavori ne’ lavori discreti. Nasce quel che abbiamo oggi: opere figlie di persone ”molto sociali”. Ossia poco professionali nella Letteratura.

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 22:36 da Sergio Sozi


Marco,
lo scrittore vero del potere se ne frega. E nient’altro. Ha valori piu’ profondi e intimi. Da sempre, non solo nell’ideale romantico.

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 22:38 da Sergio Sozi


Teoria: ritengo la scrittura una forma di arte, quindi non assoggettata alle regole del mercato del lavoro
Pratica: di scrittura non si vive
Esperienza: innumerevoli bravi scrittori non hanno studiato per essere tali, ma lo sono diventati pur avendo studiato altro e praticando altre professioni (non faccio nomi per brevità)

Mi fermo qui. Altrimenti ti arrabbi con me.

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 22:40 da eventounico


P.S.
Ovvio, a proposito del modo attuale di fare editoria, che l’attuale Era sia anomala rispetto alla Storia fino a cinquant’anni fa: oggi un autore presenta il testo all’editore e questi gli dice ”Si’, ti pubblico ma devo farti correggere gli sbagli dai miei editor”. Un secolo fa se scrivevi bene ti pagavano e se no, arrangiati, va’ a studiare ignorante, ti dicevano. Giustamente.

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 22:45 da Sergio Sozi


Ma io dico solo che lo scrittore e’ una persona che sa scrivere, mica che DEVE per forza aver studiato. Ovvio che egli abbia studiato, pero’, perche altrimenti ”niente nasce da niente”. Nessuno nasce ”imparato”. Poi se studia a casa o al mercato ortofrutticolo, non c’e’ differenza.

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 22:47 da Sergio Sozi


In ogni caso, Evento, in tutta Europa, chi scrive viene pagato. Tranne che in Italia. Chi e’ anomalo?

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 22:48 da Sergio Sozi


L’ultimo commento mi convince pienamente. Ti ringrazio.

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 22:50 da eventounico


“In ogni caso, Evento, in tutta Europa, chi scrive viene pagato. Tranne che in Italia. Chi e’ anomalo?”

Sergio, sei tu che mi richiami, purtroppo, alle leggi di mercato.
In Italia il mercato dell’editoria funziona come dici. In Europa ritieni sia diverso. Ora ti chiedo: se i nostri “prodotti” (perchè tali li hai definiti prima) fossero “esportabili”, ovvero di livello europeo, potrebbero gli scrittori italiani determinare un aggiustamento dello stesso mercato italiano ?

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 22:53 da eventounico


Molte opere italiane sono esportabili e appunto vengono esportate. Io all’estero ci vivo e ci ho vissuto per anni in diversi Paesi, non parlo a casaccio.
Ma non capisco la domanda: vuoi chiedermi se gli scrittori italiani potrebbero cambiare la realta’ schiavistica italiana?

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 23:14 da Sergio Sozi


Inoltre io non ho parlato esplicitamente di ”mercato”, ma di pagamento dell’opera. Anche coi contributi statali o d’altra origine. Il dato di fatto e’ che in Italia tutti scrivono perche’ non c’e’ il riconoscimento del libro come opera fondamentale per per la Patria. Nel resto d’Europa questo riconoscimento vale. E un autore medio, neanche famosissimo, vive di pubblicazioni – articoli culturali, libri, interventi, eccetera: tutto viene regolarmente pagato.

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 23:17 da Sergio Sozi


Figurati se posso pensare che parli a casaccio. Nemmeno a dirlo…

In Italia la situazione è quella che è perchè molti scrivono (tanti anche male) e pochi leggono. Fuori dall’Italia i lettori sono molti di più e ciò determina condizioni diverse nel mercato dell’editoria (maggiore domanda, offerta a costi più alti). Se l’offerta italiana fosse effettivamente esportabile ci sarebbe una domanda estera che tenderebbe a livellare le condizioni di mercato dell’Italia a quella degli altri paesi. Ho semplificato molto.

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 23:21 da eventounico


P.S.
Prodotto umano, come altre opere dell’ingegno e della scienza. Differente solo perche’ astratto. Ma le cose astratte sono sempre state anche pagate: come una formula scientifica ben fatta. Cio’ non toglie un’acca alla spiritualita’ dell’opera letteraria. Sofismi che mi sono estranei.

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 23:22 da Sergio Sozi


Moltissimi autori italiani vengono tradotti all’estero. Vuol dire che piacciono e vengono pagati.

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 23:23 da Sergio Sozi


Perche’ ”Se l’offerta italiana fosse effettivamente esportabile ci sarebbe una domanda estera che tenderebbe a livellare le condizioni di mercato dell’Italia a quella degli altri paesi”?
Non capisco. Spiegati meglio, scusa.

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 23:25 da Sergio Sozi


Quelli che vengono esportati non sono in numero proporzionalmente adeguato (rispetto ai troppi che scrivono) per mutare le condizioni. Quella domanda estera non è tale da incidere sul mercato.
In ogni modo faccio un esempio di un altro settore sperando sia più semplice.
Se noi produciamo manufatti e li vendiamo solo in Italia, il prezzo di quei manufatti è determinato solo sul mercato italiano. Ovvero la domanda che determina il prezzo ad offerta data è solo quella italiana. Se invece esiste anche una domanda proveniente dall’estero, sempre ad offerta data, il prezzo non può che salire. Il prezzo è la remunerazione di editori ed autori. Tuttavia, perchè quei manufatti siano esportabili, cioè richiesti dall’estero, devono essere qualitativamente apprezzati anche fuori dall’Italia o addirittura non esistere fuori dall’Italia.

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 23:32 da eventounico


Comunque, in attesa della tua risposta – che credo sara’ piu’ professionale della mia sottostante – credo di dover dire come la penso sul mercato (anche se parlavo di soldi e non di mercato):
in Italia secondo me c’e’ un’imprenditoria numericamente eccedente rispetto al fabbisogno del mercato, perche’ la popolazione non e’ in grado di capire la qualita’ delle opere letterarie e tutti vogliono pubblicare solo per pubblicare, non per professionalizzarsi in questo campo; dunque ne consegue che ci sono mille editorucoli che ne approfittano. Se fosse vietato far pagare un autore (come auspico) o alternativamente ogni cittadino capisse che scrivere e’ cosa difficile e, capendo di non esser all’altezza, si limitasse a valutare e comprare i libri altrui, le cose cambierebbero: sopravvivrebbe un quarto degli editori attuali ma i sopravvissuti pagherebbero gli autori e li professionalizzerebbero. Cosi’ succede all’estero.

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 23:36 da Sergio Sozi


Quello che tu dici è vero, ma come fa una persona a capire di “non essere all’altezza” ?

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 23:41 da eventounico


Grazie, ma la tua spiegazione non e’ applicabile all’editoria, Evento. Perche’ le opere letterarie non vengono acquistate materialmente, ma prese e tradotte. I diritti di traduzione sono pochi soldi. All’estero sono pochi quelli che leggono in lingua originale le opere italiane, ovviamente. Lo stesso per la Germania: pochi sono quelli che leggono in tedesco fuori della Germania.
E’ il sistema interno ad ogni Paese che e’ diverso da quello schiavistico e ignorantistico italiano. Gli italiani cianciano di ”arte libera” e poi vanno a fare i bidelli tutta la vita mentre si pagano i libri dagli editori a proprie spese, gli altri europei se stanno nel campo della cultura, in un modo o nell’altro ci vivono, ci campano, coi giusti e faticati soldi, Evento. Perche’ studiano e vogliono esser pagati per la propria competenza. Naturalmente. Come tutti: medici o spazzini.

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 23:42 da Sergio Sozi


Come fa? Se e’ stupida non chiede a chi ne sappia di piu’, dunque resta nella sua convinzione di essere Dante; se e’ intelligente chiede opinioni a chi ne sa di piu’: a scuola, altrove, non importa.

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 23:43 da Sergio Sozi


Sergio io parlavo di pubblicazione all’estero di un’opera evidentemente tradotta. In quel caso l’editore sarebbe straniero. O no ?

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 23:45 da eventounico


Chiede opinioni a scuola ? Non conosco scuole italiane che svolgano questo servizio.

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 23:48 da eventounico


Dunque, riassumendo:
- per quanto concerne l’editoria, il mercato interno (di Paesi di grandezza ed importanza media come il nostro che non hanno molti lettori di lingua italiana all’estero), e’ autonomo rispetto agli altri sistemi nazionali, nonche’ dipendente (come gli altri) anche dai finanziamenti pubblici o da parte di aziende illuminate. Gli anglofoni e i francofoni, gli ispanofoni in misura minore, fanno eccezione perche’ vendono i libri materialmente e direttamente da Londra, Nuova York o Madrid.
- La grammatica della lingua italiana non viene granche’ frequentata dagli scrittori italiani presunti tali. Il vangelo di ogni autore, direi, assieme al dizionario. Ne conseguono opere aggiustate da altri e pertanto artificiali, ”prodotti” ma di fabbrica, dico stavolta. All’estero invece conoscono bene le regole, gli scrittori: quelli veri non sbagliano una virgola e chiedono scusa qualora lo facciano.
- In Italia si comprano pochi libri, ma soprattutto si legge meno. Si leggono poco i libri acquistati, intendo. C’e’ un livello culturale linguistico medio molto mediocre, soprattutto per la lingua scritta. La scuola italiana non funziona perche’ non e’ severa come altrove sul rispetto dei canoni grammaticali codificati. Le conseguenze sono queste. Analfabetismo di ritorno, o meglio semialfabetizzazione che produce solo cacate letterarie. Pardon.

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 23:57 da Sergio Sozi


Io questo servizio l’ho visto fare quando ero allievo per decenni. E l’ho fatto a mia volta per anni. Unicuique suum, Evento. Io ringrazio la mia maestra e i miei professori perche’ mi correggevano le virgole e mi dicevano come fosse corretto scrivere.

Postato sabato, 12 gennaio 2008 alle 23:59 da Sergio Sozi


Leggi con attenzione, per favore, dai: ho gia’ detto che i diritti di traduzione sono spiccioli che non fanno mercato.

Postato domenica, 13 gennaio 2008 alle 00:00 da Sergio Sozi


Sergio, proprio perchè conosci la nostra lingua, capisci pienamente il significato di quel “dai”. Io ho letto con tutta l’attenzione della quale sono capace e lungi da ma farti perdere del tempo.
Quello che chiedevo, ma evidentemente non sei tenuto a rispondere, è:
- un italiano, se si traduce da solo (o con una traduzione a pagamento) l’opera, può proporla ad un editore estero direttamente senza passare da un editore italiano ?
- a scuola c’è un servizio che valuti opere ? O intendevi che uno studente lo capisca dalle correzioni che riceve se vale o meno ?

Postato domenica, 13 gennaio 2008 alle 00:11 da eventounico


Conclusione personale e semiseria: e se il cosiddetto postmodernismo fosse solo il risultato attuale e pratico di una marea di individui sottoacculturati che pretendono di esser delle cime?

Postato domenica, 13 gennaio 2008 alle 00:14 da Sergio Sozi


@ evento e sergio:
mi consentireste di inoltrare a ognuno di voi due il numero telefonico dell’altro e vi levate dai cogl…ops, volevo dire, vi intrattenete in maniera più confortevole e duratura in questa dotta dissertazione?

Postato domenica, 13 gennaio 2008 alle 00:24 da Enrico Gregori


- Risposta alla seconda domanda:
Parlavo, Evento, della crescita cuturale di un cittadino che voglia fare di mestiere lo scrittore. Impara a scuola a capire se sa scrivere, o, se nessuno gli insegna quel che gli serve, se lo prende da solo – se e’ intelligente, se no ciccia, vuol dire che non glie ne frega troppo. A scuola si insegna l’italiano. Correzioni dei compiti, dibattiti sui libri, interventi a voce, interrogazioni orali, eccetera. Da questo si impara. Poi si cerca di frequentare la gente in gamba che ti e’ anche utile in senso professionale, ovvio. Come in ogni professione: vuoi fare il medico? conosci dei medici e escici a cena, confrontati con loro.
- Se un italiano si traduce da solo qualche opera – dei cui diritti sia unico detentore – puo’ provare a contattare gli editori esteri della lingua in questione, magari pure spedendogliela. Ma e’ difficile, se l’opera non e’ stata premiata in Italia. Meglio agire direttamente con l’opera italiana, allora. O piuttosto cercare di fare altri lavori nel campo che portino prima o poi ad una serie di conoscenze fruttuose. Tutto il mondo e’ paese e, ripeto, gli stranieri mica si fanno prendere per il culo: vogliono roba buona e scritta bene, in genere, o almeno molto nota in Italia.

Postato domenica, 13 gennaio 2008 alle 00:25 da Sergio Sozi


Enrico, scusa, ma… censura.

Postato domenica, 13 gennaio 2008 alle 00:27 da Sergio Sozi


Evento, guarda, ti faccio il mio esempio: io qui mi sto lentamente introducendo nel mondo della cultura sloveno, ma faccio altro, mica pretendo di far tradurre il mio ”Maniaco”. Scrivo postfazioni e curo antologie di autori italiani. rivedo per campare traduzioni scorrette in italiano, ogni tanto pubblico un pezzo su un giornale. Tutto pagato puntualmente, naturalmente. Ma pochi soldi. Chi e’ di qui prende piu’ soldi, se e’ preparato in slovenistica e anche traduce da altre lingue. Ma io qui ci sto dal Duemila. E devo ancora imparare lo sloveno. Se lo sapessi, la mia vita sarebbe migliore. Invece un italiano colto in Italia fa la fame. Vedi le differenze?

Postato domenica, 13 gennaio 2008 alle 00:37 da Sergio Sozi


Voglio dire: uno sloveno colto in Slovenia campa con la propria cultura – magari insegna pure, si’, ma magari un giorno potra’ cesare d’insegnare e darsi all’attivita’ pubblicistico-editoriale.
In Italia, o sei Vassalli o sei un condannato a vita.

Postato domenica, 13 gennaio 2008 alle 00:40 da Sergio Sozi


Sergio, ho capito. Ti auguro di farcela.

Postato domenica, 13 gennaio 2008 alle 00:46 da eventounico


Altrettanto.

Postato domenica, 13 gennaio 2008 alle 00:49 da Sergio Sozi


@ evento e sergio?
avete già finito? tutto qui, come diceva Totò, asciutto asciutto?
no perché io volevo capire quanto il post-modernismo, semmai influenzando uno scrittore che non viene pagato, potrebbe fondersi con la slovenistica e magari assurgere a una forma comunicativa che….sì prezzolata… comunque conservi quel connotato atto alla postfazione. Ma che questa, in nome di Dio, non debba essere in visione antitetica alla prefazione. Perché nondimeno un’utenza pseudowharoliana potrebbe poi condurre alla perfetta sintesi sinallagmatica dell’anima de li mortacci vostri.
con affetto oviamente
:-)

Postato domenica, 13 gennaio 2008 alle 01:04 da Enrico Gregori


Comunque in effetti questo e’ un ”post” dedicato ad altro. Sono andato fuori argomento e ne chiedo venia pubblicamente. Fermandomi.

Postato domenica, 13 gennaio 2008 alle 01:10 da Sergio Sozi


Ciao, pleiboi, che, hai esaurito le femminazze, che sei qui a redarguire?
Ti auguro di immalinconirti tuttanotte con qualche grammatica storica. Sono delle compagne tiepide ma lunghe a capirsi. Interessanti.

Postato domenica, 13 gennaio 2008 alle 01:13 da Sergio Sozi


Enrico mi sono prostituito anche a Milton pur sostenere la scelta del T.W.. Che sinallagma de li tua devo fare di più ?
Con altrettanto affetto non meno ovvio
:-)

Postato domenica, 13 gennaio 2008 alle 01:18 da eventounico


(Enri’, io le faccette gialle le odio e pertanto ti scrivo sperando di non parlar mai fuori dalle righe. Ma non ti offenderai mica? Io, co’ tutte le rotture di cosiddetti che m’hai dato finora, ho tenuto un aplomb che manco Craxi quando gli tiravano le cento lire in testa. Ogni tanto devi sopportare anche me. Senno’ t’arrangi, dopotutto. Eh eh eh.).
Sergio

Postato domenica, 13 gennaio 2008 alle 02:01 da Sergio Sozi


http://enricogregori.splinder.com/

non avendo precedentemente parlato con Massimo non posso permettermi “incursioni” a carattere privato. Sebbene, in realtà, invito a cliccare sul mio sito per leggere qualcosa su un’altra persona che compare in questo blog. Grazie

Postato domenica, 13 gennaio 2008 alle 17:22 da Enrico Gregori


@ Zauberei.
In risposta al commento dove hai scritto: “grazie delle precisazioni. Ora siccome ho letto un sacco degli autori citati e categorizzati come postmoderni, posso fare una domanda al popolo critico et preparato? Perchè che de lilllo è post moderno ce lo capivo. Ma che lo fossero Borges e Calvino mi ha gettato nello sconforto.
Pecchè?”
-
Premetto che, spesso, sono stati i critici (angloamericani) a considerare certi autori postmoderni… senza aver chiesto permesso all’autore.
Credo sia stato il caso di Borges.
Alcune opere di Borges sono state considerate postmoderne, tra cui la raccolta di racconti, particolarmente significativa, Finzioni (Ficciones, 1944), apparsa negli anni quaranta, che contiene novelle di argomento disparato: dal poliziesco, allo storico, alla meditazione filosofica.
-
Su Calvino…
Calvino è stato considerato postmoderno soprattutto per via di Se una notte d’inverno un viaggiatore, libro che conoscete tutti.
Il titolo richiama un noto stereotipo narrativo, una sorta di avventura del lettore; infatti il protagonista, per una serie di disguidi, non riuscirà a portare a termine la lettura del romanzo che aveva cominciato, ma, nonostante le sue ricerche che a un certo punto assumono la cadenza di una storia di spionaggio, otterrà solo di leggere gli inizi di altri romanzi. Si tratta quindi di una narrazione costruita su altre narrazioni, come è tipico della cultura postmoderna.
Se una notte d’inverno un viaggiatore è uno dei miei libri preferiti.
Sostengo che – oltre a essere un grandissimo libro – abbia sia la valenza di un manuale di scrittura, sia quella di un manuale di lettura.
Lo consiglio “caldamente” a chi non l’avesse ancora letto.

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 00:14 da Massimo Maugeri


@ Andrea Di Consoli e Daniela Marcheschi
Partendo dalla bella intervista abbiamo un po’ divagato soffermandoci (forse un po’ troppo) sul postmoderno (e derivati). Credo, tuttavia, sia stato comunque un post interessante.
Grazie a entrambi.
-
P.s.: Alla prof.ssa Marcheschi
Se ha tempo e voglia la prego comunque di intervenire.
Sarà la benvenuta!

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 00:17 da Massimo Maugeri


Rieccomi dopo un lungo weekend offline per tediarvi ancora con Dante, Valli, la mistica e la letteratura. Grazie al cugino di Ohana e quasi omonimo Carlo S. per avermi indicato Auerbach su Valli e avermi richiamato in causa. Telegraficamente: sono finito a citare, come esempio, Dante letto da Rossetti e Pascoli e Valli per rilevare come grossi nomi della critica bistrattano un tema “esperienziale” importantissimo (se non centrale) in letteratura.
Effettivamente a me interessano poco le piste politiche o teologiche battute da quei critici, e trovo deprimente la tasca esoterica dove fatti antropologicamente molto rilevanti vengono infilati insieme a paccottiglia varia, ma trovo significativa per il panorama culturale questa omissione.
Insomma, sostengo che molta critica letteraria si intenda ampiamente di letterature e autori, ma abbia le idee sull’(essenza dell’)uomo piuttosto confuse. E così pure molti scrittori. Credo sia Zolla ad aver individuato la questione più o meno in questi termini: la psicoanalisi ci ha spalancato l’inferno, il materialismo ci ha chiuso il paradiso.
Una letteratura che si muove in questo spazio ha connotati magari interessanti, può essere istruttiva, ma a che universo fa segno? E di che sensi si fa portatrice? E’ ora che mi legga l’altro post, quello su Roth…
Una critica che istruisce dimenticando che il paradiso chiuso non è il paradiso (del tutto metaforico, laico, agnostico e non di parte, beninteso!) inesistente né impossibile, quali strade non ci mostra?
Il mio appunto è che mi pare strano parlare di “tradizione” anche solo letteraria o critica tralasciando questo argomento. E aggiungo che di tradizione comunque velata, sovversiva e trasgressiva, che si oppone alla piatta opacità di tante letture mainstream o ortodosse di ogni tempo e luogo. Non è un caso che il buon Dante, appunto, fosse in polemica con la chiesa del suo tempo in nome di una verità coperta da menzogne. Senza troppo scomodare catari e sette segrete, è ben nota la prudenza ecclesiastica verso i mistici, che propongono una via diretta all’incontro con Dio priva del bisogno della chiesa come intermediaria. Con questo non nego l’importanza della storia materiale e vicini, ma vorrei che un altro set di problemi venisse avvicinato a questi, e auspicherei che un approccio integrato venisse adottato nelle scienze filologiche, umane e anche nella didattica fin dalle scuole.
Mi rendo conto che l’argomento si presta a manipolazioni e degenerazioni, ma ignorarlo porta ad altre degenerazioni e manipolazioni. Fine! Grazie a tutti per la pazienza.

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 12:41 da Paolo S


Massimo grazie:)

Mah. secondo me sia l’uno che l’altro se rivorteno nella tomba. sicchè basta mangià un po’ de cacio colle pere pe esse postmoderni…

Postato lunedì, 14 gennaio 2008 alle 12:50 da zauberei


Gentile Massimo Maugeri,
al mio rientro in Italia, desidero subito ringraziare – e non per vuota forma di buona educazione – Lei e tutti coloro che sono intervenuti qui, in seguito alla pubblicazione dell’intervista fattami da Andrea di Consoli, uno scrittore che stimo molto. Anche se non ci conosciamo tutti personalmente (a M. Teresa Scibona un saluto per le parole affettuose dopo tanti anni dal nostro incontro), ritengo che la parola “amici” abbia, grazie a voi, ritrovato un senso. Questa è la dimostrazione che in un franco e motivato argomentare, nonostante le difficoltà, è sempre possibile costruire una comunità o civiltà letteraria entro la quale dovrebbe svolgersi il dibattito critico. Non sempre questo è possibile. La critica è un genere letterario e, come tale, ha sottogeneri : recensione giornalistica, nota, saggio ecc. Magari i nostri giornali o intellettuali identificano la critica con uno solo dei suoi sottogeneri (quelli più innocui) e per questo la critica letteraria o artistica è diventata così difficile e rara: bisogna andare a scovarla, come l’orco “storico” di Bloch…. Fare critica significa invece mettere in atto tutta una serie di ipotesi interpretative, di costruzioni ecc. – un lavoro di riflessione che esprime libertà, e quello in cui siamo è invece un mondo così autoritario! In Italia, poi, le clientele e il servilismo fanno il resto: questo è il «tradimento dei chierici» che le classi dirigenti hanno commesso ai danni del nostro paese….
Sono appena rientrata, quindi capirete che sono un po’ sbrigativa. Vorrei però dire che Donatella F. ha visto bene: ponevo una questione di maggiore autenticità, quella che porta davvero a dialogare insieme perché riteniamo la letteratura un valore che ci riguarda, crediamo nella sua dimensione civile nel senso alto del termine, come dice giustamente Sergio Sozi. Il populismo – da non intendere come demagogia, bensì come idea, visione della società che le classi dirigenti pensano insieme con/ per le classi popolari, per tutto quanto un paese – è da riscoprire senza esitare ancora: la crisi della politica italiana nasce anche da questa carenza di visione ideale e materiale. Quanto ad alcune domande postemi da Marco Gatto e ancora Sergio Sozi, direi subito (rimandando ad un successivo, eventuale, mio intervento) che non intendevo tirar fuori la solita pappardella snob del tipo “meglio l’Europa, male noi” – rovescio del “male l’Europa, meglio noi” ecc. – cioè luoghi comuni del provincialismo italiano. Intendevo solo ribadire la necessità di vedere la nostra letteratura in un’ottica comparata, per prismi e poliedri, perché gli autori si leggono fra loro – e chi sa le lingue ne legge di più e ha maggiori possibilità di analisi e paragone. Solo il quadro ampio delle tradizioni può aiutare a comprendere meglio la nostra cultura, le sue direzioni, tensioni vitali ecc. Io ne sono una patita! Leopardi non si è mosso dall’Italia, eppure è il primo critico della modernità e ha insegnato a tutti; Gioberti, Noventa, Penna sono stati profondamente immersi nella cultura e nella vita italiana, eppure ne hano capito delle questioni fondamentali, grazie alla loro intelligenza e al ventaglio internazionale delle loro letture (tanto per fare uno spot pro domo mea, rimando al saggio introduttivo al volume «Alloro di Svezia», edito pochi mesi fa a Parma da MUP, Monte Università Parma, che raccoglie le motivazioni dei Premi Nobel conferiti ai nostri scrittori – da Carducci a Fo: forse lì sono riuscita a spiegare cosa intendevo dire con “scrittori europei di lingua italiana” nel riferimento ad un’ottica più ampia). A guardare dall’Italia, il giallo sembra oggi l’unico genere praticato dagli scrittori europei: uscendovi, ci rendiamo conto che la ricchezza dei generi pubblicati all’estero è molto maggiore di quanto potremmo in realtà pensare. Qui, invece, la selezione editoriale privilegia la moda del giallo in tutte le sue declinazioni.
Senza far polemica vuota nei confronti dei giudizi di alcuni di voi su Giuseppe Pontiggia, che era un vero maestro, mi permetto di invitarvi a leggere il suo «viaggio» nei e coi classici «I contemporanei del futuro» e a compararlo con quello di Calvino: quanto l’uno è profondo, illuminante, tanto l’altro è aereo, accattivante, ma anche piuttosto leggerino…
A Marco Gatto (di cui spero di leggere presto il libro sul grande Jameson, che conosco anche di persona e con cui ho amici in comune) vorrei dire che posso mandargli una parte di una mia prolusione in cui provo a dire che cosa è una tradizione -se lo desidera, ovviamente; e poi che concordo con lui: il cretino medio intelligente è un prodotto internazionale attuale e la crisi culturale non è solo italiana, anche se ritengo che il nostro paese abbia abbandonato la cultura con uno strappo senza precedenti – che stiamo pagando. Le università funzionano molto spesso meglio all’estero, perché lì non c’è il clientelismo che ha ammorbato l’aria e abbassato il livello della nostra produzione. Convengo con chi ricordava, se non erro Sozi, che la forza della cultura italiana è il rigore e il respiro della visione storica da non confondere con certo odierno filologismo stanco e chiuso in se stesso. Il problema è che bisogna avere una visione nuova della letteratura – e che questa si acquisisce studiando, leggendo, studiando, leggendo, studiando e poi ancora studiando e leggendo….. Un grato saluto a tutti, Daniela Marcheschi

Postato mercoledì, 16 gennaio 2008 alle 20:45 da daniela marcheschi


Carissima professoressa Marcheschi,
La ringrazio moltissimo per questo suo lungo e ottimo intervento. E la ringrazio per averci chiamato “amici”. Detto da lei è un vero onore.
Da rappresentante di questi “amici” la prego di considerare questo spazio come casa sua.
A presto. E ancora grazie.
Massimo Maugeri

Postato venerdì, 18 gennaio 2008 alle 00:04 da Massimo Maugeri


Bravissima, professoressa! Non posso che concordare con quello che dice sul respiro che dovrebbe avere la critica contro i filologismi sterili, sulla sua funzione civile, educativa, sulla necessità che abbia una visione storica e non storicistica, sulle prospettive europee della nostra letteratura…
Amo le lettere e i libri sono compagni imprescindibili della mia vita. Apprezzo il lavoro di curatori, prefatori, filologi, critici come lei che sostiene, contro le clientele, contro l’asservimento vile al mercato, la necessità, l’umiltà e la gioia dello studio.

Postato venerdì, 18 gennaio 2008 alle 00:20 da Maria Lucia Riccioli


Non sono affatto d’accordo con la Marcheschi che definisce Calvino accattivante e leggerino. Forse così potrà sembrare a lei che è una addetta ai lavori , ma per i lettori come me Calvino è stimolante, serio, analitico e profondo conoscitore e della letteratura e dell’animo umano. Purtroppo conosco poco Pontiggia ed a questo proposito devo confessare la mia impotenza in quanto non riesco a leggere tutto quello che vorrei. Credo che quest’impotenza sia comune a quasi tutti. Oggi l’editoria sforna una quantita di libri impressionante e , anche volendo, leggere tutto, il tempo è quello che è. D’altronde non cambierei mai il mio ruolo di lettore appassionato con quello di lettore professionale.Mi piace leggere senza metodo, senza costrizione e lasciarmi trascinare dall’intuito. In quanto a postmodernismo, strutturalismo, naturalismo etc, io sono d’accordo con Victor Hugo quando dice non esistono stili in letteratura ma solo buoni e cattivi romanzi.

Postato venerdì, 18 gennaio 2008 alle 11:36 da Pino Granata


Grazie mille a Massimo Maugeri per la sua grande cortesia, di cui subito approfitto; ma anche a Maria Lucia e a Pino.
In merito alla risposta di Pino, vorrei dire che il vero lettore professionale è quello che sa mantenere la passione senza lasciarsene offuscare. La mia non è supponenza, per nulla; ma un critico deve fare il suo mestiere – appunto quello che indica l’etimologia della parola “critica”: scegliere, giudicare, accusare, valutare.
Sto solo facendo il mio mestiere, che è quello di cercare di costruire una letteratura per il futuro in un dialogo civile con tutti coloro che la amano e la ritengono capace di dire qualcosa di insostituibile; dunque è un mestiere che non è “contro” il lettore o un lettore come Pino, che si lascia guidare dall’intuito ed è sempre alle prese con la tirannia del tempo, come molti del resto.
La bellezza della letteratura è che dovrebbe lasciare spazio a tutti, anche a noi critici, perché tutti la possano godere in vario modo. Mi auguro che Pino, che sa godere di Calvino, possa presto leggere un capolavoro come «I contemporanei del futuro». Pontiggia d’altra parte non è un autore qualunque, di quelli sfornati per occupare il mercato, ma uno dei nostri maggiori scrittori. Un cordiale saluto a tutti, con l’augurio di lavorare in letizia (come diceva il filogo Guido Martellotti, uno dei miei professori alla Scuola Normale), Daniela Marcheschi

Postato lunedì, 21 gennaio 2008 alle 16:12 da daniela marcheschi


Daniela è molto gentile ed apprezzo molto questa sua gentilezza. Ho in programma di procurarmi una copia de I contemporanei del futuro(titolo intrigante) ma devo anche dire che di Pontiggia ho cercato di leggere L’Arte della Fuga , libro che ho comprato d’intuito perchè mi ricordava il capolavoro bachiano, è l’ho trovato molto deludente. Mi spiace dire questo che so potrà dispiacere a Daniela. Comunque Daniela sarà soddisfatta del fatto che il primo libro che comprerò, se lo troverò, è quello da lei suggerito di Pontiggia. Vorrei poi permettermi di chiedere a Daniela se ha mai letto Baci da non ripetere di Paolo Di Stefano e se sì , vorrei un suo parere.

Postato lunedì, 21 gennaio 2008 alle 23:44 da Pino Granata


Io di Pontiggia ho letto solo “Nati due volte”: riflessione, sentimenti veri, vita vissuta, scrittura piana ma a tratti poetica, mai banale.
Buon lavoro in letizia, professoressa, a lei e a noi tutti!!!

Postato lunedì, 21 gennaio 2008 alle 23:49 da Maria Lucia Riccioli


Cara Daniela,
sono io che ringrazio lei (ancora una volta) per la cortesia e la disponibilità mostrate.

Postato martedì, 22 gennaio 2008 alle 00:00 da Massimo Maugeri


Cara professoressa,
leggo con piacere il suo intervento, molto condivisibile su tutti i fronti e che, certamente, riassume questo lungo carteggio che tutti insieme abbiamo contribuito a scrivere. Leggerò con piacere il suo intervento sull’idea di tradizione: può dirmi dove posso trovarlo già pubblicato o può inviarmelo al mio indirizzo di posta elettronica: marco.gatto@alice.it
Grazie, e un caro saluto a tutti,
Marco

Postato domenica, 27 gennaio 2008 alle 20:58 da Marco Gatto


Un caro saluto a te, Marco.
Partecipa anche alle altre discussioni, se puoi.

Postato domenica, 27 gennaio 2008 alle 22:43 da Massimo Maugeri


Sono un po’ assente in questo periodo per vari impegni, seguo appena posso!
A presto!

ps: farai un post sul nuovo di DeLillo?

Postato lunedì, 4 febbraio 2008 alle 21:27 da Marco Gatto


Mi accorgo di aver dimenticato di fare una cosa importante: ringraziare la prof.ssa Marcheschi per le sue risposte. Grazie, signora, mi scusi se non l’ho fatto prima.
Sergio Sozi

Postato lunedì, 4 febbraio 2008 alle 22:34 da Sergio Sozi


Ringrazio per aver postato la mia intervista a Bonomi e Sanguineti su Jameson, pubblicata sul “Mattino” di Napoli. Ringrazio, ovviamente, non per la miserevole autogratificazione che me ne possa derivare, ma perché ritengo che Bonomi e Sanguineti abbiano detto cose molto intelligenti. Resta, infatti, da riflettere molto, sul significato del postmoderno e, soprattutto, sulle derive che al concetto hanno fatto compiere gli epigoni di Jameson.
A postilla, vorrei soltanto sottolineare la mancanza, vorrei dire l’ignoranza, di competenza in materia economica, degli intellettuali italiani. Si parla troppo spesso di capitale finanziario, senza capire bene come veramente funzoni, oggi, l’economia planetaria

Postato lunedì, 4 febbraio 2008 alle 23:26 da Guido


Parla di Sanguineti il poeta, sig. Guido?

Postato lunedì, 4 febbraio 2008 alle 23:44 da Sergio Sozi


@ Marco Gatto
Be’, sì, mi piacerebbe. Come sai apprezzo molto DeLillo. Spero intanto di avere il tempo di leggerlo.

Postato martedì, 5 febbraio 2008 alle 22:26 da Massimo Maugeri


@ Guido Caserza
Caro Guido, ciao. E grazie a te per l’articolo… davvero bello. L’ho postato con molto piacere. Seguo spesso la pagina culturale del quotidiano “Il Mattino”. Anche perché ogni tanto ci scrivo anch’io.
;)

Postato martedì, 5 febbraio 2008 alle 22:28 da Massimo Maugeri


Concordo con Caserza sull’ignoranza degli intellettuali italiani in materia di economia. Ma è anche comprensibile: una volta che si è smesso di connettere la letteratura, l’arte, ai referenti materiali e sociali, va da sé che ogni disciplina si chiuda nella sua specializzazione. E’ vero, non esistono più i grandi intellettuali di una volta, capaci di parlare di tutto, senza essere banali.
Quanto a Jameson, pur essendo in gran parte d’accordo con i loro ragionamenti, ritengo che Bonomi e Sanguineti facciano alcuni errori di valutazione sulla sua opera. Il fatto è che in Italia – a causa proprio degli epigoni di cui parla Caserza – si connette Jameson troppo facilmente al postmoderno. Che si sappia: il meglio lo ha dato proprio negli altri libri, che si occupavano di tutt’altro! Basta leggere “Marxismo e forma” o “L’inconscio politico”.
Cari saluti,
Marco Gatto

Postato mercoledì, 6 febbraio 2008 alle 01:50 da Marco Gatto


Sì, il riferimento è Edoardo Sanguineti, il poeta. Mi permetto di precisare che non ho molta nostalgia dei grandi intellettuali (di una volta) capaci di parlate di tutto, senza essere banali. Il problema è che una certa supponenza, nel parlare di economia, la si è sempre riscontrata. Anche perché, difficilmente un letterato (o un filosofo) conosce così bene, “dall’interno” le dinamiche e i meccanismi dell’economia. Se ne parla a grandi linee, ma spesso prendendo fischi per fiaschi, o sulla base di certi pregiudizi (peraltro condivisibili, almeno da parte mia) Ideologici. Probabilmente uno degli ultimi intellettuali capace di parlare di economia a ragion veduta è stato Volponi. Oggi, ad esempio, mi pare che si dia troppa importanza al capitalismo finanziario e non ci si renda bene conto che in realtà il capitalismo sta in realtà replicando le stesse dinamiche dei decenni precedenti. Se si vuole, il problema del capitalismo, oggi, è quello di replicare lo statuto di merce per quei prodotti che avrebbero un potenziale di distribuzione pressoché gratuita (alludo soprattutto ai prodotti tecnologici). Ma questo, d’altronde, è da sempre il problema del capitalismo, oggi, caso mai, un poco più amplilficato che in passato

Postato mercoledì, 6 febbraio 2008 alle 18:23 da Guido


Mi avvalgo della tua consulenza per una domanda: secondo te è vero che ci troviamo a uno stadio del capitale più “puro” e, in un certo senso, più vicino all’oggetto di conoscenza di Marx in quel determinato contesto economico? Mi interessa il tuo discorso sul replicarsi delle dinamiche passate.
Grazie se vorrai rispondermi e illuminarmi.
Marco

Postato mercoledì, 6 febbraio 2008 alle 19:30 da Marco Gatto


Gentile Pino Granata,
mi scuso per il ritardo, ma solo ora posso risponderLe in merito alla Sua domanda su «Baci da non ripetere» di Paolo Di Stefano: un libro che mi è piaciuto molto e che ho trovato intenso, attento al dolore e a cosa mette profondamente in gioco quando tocca una vita. Del resto penso che Di Stefano sia l’unico scrittore italiano che si è mostrato oggi capace di parlare dell’infanzia e di tutto ciò che essa irradia – o riceve – in positivo e in negativo dal mondo adulto che le sta intorno. Di Stefano lo fa senza cedimenti di maniera e con la capacità di cogliere la psicologia a volte magmatica dei ragazzi fino all’adolescenza.
Per tutti gli altri amici che dialogano in questo sito: mi viene voglia di sedermi con voi intorno a un tavolo per prendere un caffè e parlare dei problemi che state affrontando! E’ vero, poiché alcune estetiche (l’arte per l’arte, misticismo simbolista ecc.) sono state confuse con l’arte o la letteratura tout court, c’è un’ignoranza spaventosa dei nostri letterati o intellettuali di tutto quello che non riguarda il proprio campo specialistico. Ma lo specialista, diceva Shaw, è quell’esperto che, a furia di restringere il campo delle proprie ricerche, finisce con il sapere tutto di nulla. Opera un pregiudizio scientistico; infine c’è il clientelismo che da noi ha fatto il resto. Un cordiale saluto, Daniela Marcheschi

Postato giovedì, 7 febbraio 2008 alle 15:41 da daniela marcheschi


in merito alla questione sollevata da Marco Gatto: credo che ci troviamo a uno stadio del capitale più “sofisticato”. Alludo, in questo caso, alla sofisticazione degli strumenti finanziari. Ma, prima di proseguire, vorrei premettere che non credo per nulla di poter illuminare, giacché le mie conoscenze in materia sono scarsucce. In ogni modo, quando parlo di replicarsi delle vecchie dinamiche del capitalismo, alludo a quella contraddizione del capitalismo che aveva descritto efficacemente Marx, laddove scriveva che il capitalismo “da una parte risveglia tutte le forze della scienza e della natura così come quelle della cooperazione e della circolazione sociale, al fine di rendere la creazione di ricchezza relativamente indipendente dal tempo di lavoro utilizzata per essa. Da un’altra parte, esso pretende di misurare le gigantesche forze sociali così generate secondo la misura del tempo di lavoro, e rinserrarle nei limiti stretti, necessari alla conservazione, in quanto valore, del valore già prodotto.” Detto in soldoni, Marx sperava che il capitalismo, nel suo stadio maturo, si sarebbe potuto liberare dei capitalisti: il motto difendere il capitalismo dai capitalisti significa, sostanzialmente, liberare il capitalismo dalla proprietà privata, che nel caso di Marx significava socializzazione (e non statalizzazione) dei mezzi di produzione. Oggi potemmo pensare, per lo meno, alla socializzazione dei beni di consumo. Credo, purtroppo, che sia un’utopia costretta nei limiti di una contraddizione in termini, giacché il capitalismo prospera proprio in virtù della proprietà privata. Oggi, in un contesto di capitalismo molto più sofisticato e ipertecnologico (ma la fetta più cospicua è ancora nel manifatturiero, non scordiamocelo) il problema del capitalismo (la sua contraddizione rilevata da Marx) è ancora quella vecchia: assistiamo, infatti, con la tecnologia, a una massiccia diffusione di nuovi prodotti potenzialmente gratuiti. Un telefonino, ma anche un libro (con la diffusione di internet chiunque potrebbe scaricare gratuitamente un libro) potrebbero potenzialmente costare pressoché zeto. Copiare un nuovo software (un telefonino o qualsiasi aggeggio tecnologico nuovo) è peraltro facilissimo per i tecnici. Il problema, per chi immette nel mercato un nuovo software, è ovviamente tutelarsi dai plagi. L’inventore (l’azienda che lancia sul mercato un nuovo prodotto) deve infatti ripianare e ammortizzare le spese di investimento. Tale azienda avrà speso infatti un tot di capitale, investito per mettere a punto o ideare un nuovo prodotto: fisserà un costo di produzione a un euro (per fare un esempio) e fisserà invece un prezzo di vendita a tre euro. Nei tre euro del prezzo di vendita l’azienda si ripagherà quindi del costo di produzione ma ammortizzerà anche il capitale che avrà investito in fase di ricerca. Il problema è che un concorrente potrà copiare facilmente il suo prodotto: tale concorrente, che non avrà dovuto sopportare il costo della ricerca e dell’investimento, potrà ovviamente vendere il prodotto a un prezzo molto minore, tipo due euro. Questo significherebbe per la prima azienda una perdita insostenibile. Per ovviare a tutto ciò il capitalismo fa ciò che ha sempre fatto: impone dei brevetti o dei limiti d’accesso (vedi il caso Microsoft, per esempio, o i costi che vengono imposti per downlodare dei file musicali audio ecc in Internet): Regolamentare l’accesso significa, per il capitalismo, difendere non solo la propria proprietà, ma anche il bilancio della propria azienda.
La questione è che, con i nuovi prodotti tecnologici si è pensato che tutto il capitalismo fosse entrato in una nuova fase di produzione, in un nuovo ciclo produttivo del tutto inedito (il capitalismo del simulacro!) Questo però non è vero. si è invece ancora più radicalizzata la contraddizione marxiana tra la forma assunta dallo sviluppo delle forze produttive (che porterebbero con sè una diffusione gratuita del prodotto: la socializzazione dei beni di consumo, piuttosto che dei mezzi di produzione) e i rapporti di produzione attraverso cui i capitalisti cerca di riprodurre lo statuto di merce. Vi è, insomma, un contrasto fortissimo tra le potenzialità delle nuove tecnologie e la logica capitalistica, assolutamente classica!
Credo che bisogna tenere ben chiaro questo aspetto, altrimenti si combattono battaglie ideali, nobili, ma alquanto errate. Mi permetto di fare un esempio, a me molto caro: con la diffusione dei farmaci generici, si crede di fare un danno alle multinazionali (bayer) che, imponendo dei brevetti, tengono alti i costi dei medicinali, e questo è un male, inutile dirlo. Come sappiamo, scaduto un brevetto, un’altra casa può impossessarsene e mettere sul mercato dei medicinali, un farmaco alternativo (il generico). E’ il caso, per esempio, dell’aspirina. si è salutato con grande favore questa cosa, tesa a fare cortocircuitare (come stava scritto nella finanziaria) il rapporto medici-multinazionali. Per questioni ideologiche, tale iniziativa è stata accolta con una bella riga di applausi e di consensi. Il problema, però, credo sia un altro. Intanto è necessario sapere che il farmaco generico non è assolutamente la stessa cosa del farmaco a cui fa riferimento. Ritorno all’esempio dell’aspirina: l’acido acetilsalicilico è presente nella stessa dose nel farmaco bayer e in quello generico. Ma questo non basta a garantirne l’efficiacia. Come sanno bene i biologi e i farmacologi, cambiando gli eccipienti, cambia anche la biodisponibilità del principio attivo: infatti l’aspirinia generica, presso molti individui, non solo non ha la stessa efficacia dell’aspirina bayer, ma pupò anche causare forti dolori gastrici. Trovo molto disdicevole che, per questioni ideologiche, tutto questo non venga detto e che venga invece propagandata l’identica efficacia dei farmaci. E’ un falso colossale. La questione, conoscendo le dinamiche del capitalismo, andrebbe allora incentrata intorno al brevetto. Si tratta, in sostanza, di capire come far sì che una multinazionale continui a riversare sul mercato i suoi prodotti efficaci e assolutamente controllati (i prodotti delle multinazionali sono in realtà più controllati che quelli di piccole aziende, anche a patina ecologica: spiace dirlo, ma è così, e il caso di alcuni prodotti bayer sotto inchiesta, è un’eccezione) ma a un prezzo più contenuto.
Chiedo scusa per il tono didascalico e la prolissità dell’intervento

Postato venerdì, 8 febbraio 2008 alle 17:33 da Guido


Caro Guido,
grazie per il tuo intervento, che tocca alcune questioni molto interessanti. Quando affermi: “La questione è che, con i nuovi prodotti tecnologici si è pensato che tutto il capitalismo fosse entrato in una nuova fase di produzione, in un nuovo ciclo produttivo del tutto inedito (il capitalismo del simulacro!) Questo però non è vero. si è invece ancora più radicalizzata la contraddizione marxiana tra la forma assunta dallo sviluppo delle forze produttive (che porterebbero con sè una diffusione gratuita del prodotto: la socializzazione dei beni di consumo, piuttosto che dei mezzi di produzione) e i rapporti di produzione attraverso cui i capitalisti cerca di riprodurre lo statuto di merce. Vi è, insomma, un contrasto fortissimo tra le potenzialità delle nuove tecnologie e la logica capitalistica, assolutamente classica!”, metti in evidenza una contraddizione che mi interessa anche dal punto di vista estetico. Se tuttavia siamo entrati in una fase di contrasto fra la logica classica del capitalismo e la produzione massificata di nuovi beni di consumo, ebbene a me interessa capire che tipo di riflesso ci sia nell’arte. Perché uno dei problemi oggi più scottanti – di cui ovviamente in Italia non si parla – è l’approssimazione del testo letterario o di una qualunque forma artistica a un oggetto estetico che salvaguardi il tipo di capitalismo vigente. La mia idea è che i beni artistici stiano diventando pressoché identici a beni di consumo, più di quanto abbia già fatto l’industria culturale (riproduzione, massificazione) descritta da Adorno, per una sola ragione, che è economica e logicamente capitalistica: il definitivo svuotamento del loro potenziale sovversivo, della loro capacità di demistificare il reale. Insomma, ancora una volta il capitalismo riesce a servirsi dell’arte per celare quelle che sono le contraddizioni attuali del suo sistema. Se non esiste un capitalismo del simulacro, esiste però un mercato del simulacro artistico.
A presto, e grazie mille per le tue delucidazioni, molto utili.
Marco

Postato mercoledì, 13 febbraio 2008 alle 16:53 da Marco Gatto


Gentile Marco,
evidentemente tocchi un punto nevralgico, almeno dal punto di vista, diciamo così, estetico. e’ poi il punto che ha già chiarito e sviscerato molto bene Sanguineti quando, facendo suo, il motto di Cezanne, dice da quarant’anni che il fine (di una certa pratica testuale) è fare dell’avanguardia un’arte da museo. La sua mossa, astutamente provocatoria, racchiude per l’appunto il nocciolo della questione. Condivido assolutamente la tua affermazione che “se non esiste un capitalismo del simuilcarco, esiste però un mercato ddel simulacro artistico”. Io, se permetti, puntualizzerei che esiste, certo, un capitalismo del simulacro (la mia precisazione, limitata al solo aspetto capitalistico, voleva significare semplicemente, che il capitalismo del simulacro è solo l’aspetto più superficiale della dinamica capitalistica) e che dunque esiste un mercato del simulacro artistico: direi che il secondo è il precipitato del primo. Ora, è evidente che il capitalismo (ovvero il mercato) tende a svuotare il potenziale sovversivo di un’opera d’arte, ma questa è la natura del mercato: un van gogh in edicola significa proprio questo, lo svuotamento del potenziale sovversivo della pittura di v gogh. Non credo però a un definitivo svuotamento del potenziale sovversivo, non credo neanche che sia definitivo quello perpetrato sulle opere del passato, figurati se credo che quelle del presente non possano in qualche modo sovvertire. Naturalmente ho coscienza che oggi il mercato librario sia strutturato in un modo tale per cui sia più difficcile che negli anni sessanta fare circolare testi “sovversivi”. Ma non credo che il mercato possa veramente fagocitare tutto, e la questione la proporrei più nei termini (cari a Lotman) di sistema e antisistema: alla periferia è sempre possibile proporre mondi alternativi: ti dirò di più, il mercato, il sistema ha bisogno di quei mondi per la propria sopravvivenza: non credo che il nostro sistema sia totalitario, insomma. L’obiezione, ne sono cosciente, potrebbe essere la seguente: se il sistema, proprio per sopravvivere, ha bisogno dell’antisistema (del potenziale sovversivo), allora anche il gesto sovversivo è funzionale ad esso: questa obiezione, però, la trovo poco allettante dal punto di vista sociologico (sotto questo punto di vista il potenziale sovversivo lo ritengo sempre efficace) e molto più allettante da quello filosofico: si offre infatti a derive o speculazioni nichilistiche che intellettualmente possono anche essere stimolanti. Sarebbe però utile che questa conversazione si allargasse ad altre opinioni, oltre la tua stimatissima e stimolantissima. Passo, e spero che tu possa trovare, alle tue obiezioni, interlocutori più attrezzati di quanto nn lo sia io medesimo sottoscritto guido

Postato mercoledì, 13 febbraio 2008 alle 21:52 da Guido


Grazie mille, sei stato molto chiaro e condivisibile.

Postato venerdì, 15 febbraio 2008 alle 21:01 da Marco Gatto


Se vi interessa, è uscito proprio ieri per Rubbettino la mia monografia dedicata a Jameson (titolo: “Fredric Jameson. Neomarxismo, dialettica e teoria della letteratura”).
Pardon per la becera autopromozione!
Saluti,
Marco

Postato sabato, 14 giugno 2008 alle 12:46 da Marco Gatto



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