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Archivio della Categoria 'SEGNALAZIONI E RECENSIONI'

martedì, 31 maggio 2011

LA MIA STIRPE di Ferdinando Camon

La mia stirpeEravamo nella stirpe prima di nascere, saremo nella stirpe dopo la morte.
La mia stirpe“, il nuovo romanzo di Ferdinando Camon.

Tuo padre è in ospedale. Ha avuto un ictus. Non parla più, ma tenta di dirti qualcosa. Così procuri una lavagna alfabetica: nonostante la paralisi, può ancora muovere una mano e puntarla sulle lettere per comporre le parole. Ma la mano ruota in aria, tentenna. «Allora», dici «capimmo una cosa a cui nessuno aveva mai pensato: non sapeva l’alfabeto. Non ricordava l’ordine delle lettere». Lo so. È tragico non riuscire a capire colui dal quale vieni. È come se il fiume in cui scorre l’esistenza incontrasse una diga. E se non vai avanti, ti volgi indietro. Così ripensi al padre contadino che va in guerra, ma non vuole sparare, e per tornare a casa si inietta acqua infetta sul ginocchio. O ai momenti in cui tuo padre corteggia tua madre. E lì che si gioca tutto. Se qualcosa va storto, tu non esisterai. Ma poi nasci, diventi un altro anello della catena della stirpe. E in quanto tale, lo sai, non puoi fermarti dinanzi a un diga su cui pare interrompersi il flusso dell’esistenza. Devi andare avanti. E se tuo padre ti fa capire che il suo desiderio è che tu ti rechi dinanzi al Papa, tenendo la sua foto e la foto di suo padre nella tasca della camicia, è questo che farai. Andrai di fronte al Papa, sì, perché sarai invitato a incontrarlo a Roma insieme agli artisti di tutto il mondo. E non importa se non sarai in prima fila; o se davanti siederanno «divi, bestselleristi, vincitori di Leoni d’Oro, Palme d’Oro, Oscar». Non importa se sarai dietro, tra «gli artisti che sono artisti e basta, magari grandi artisti, ma hanno vinto poco». E se tuo padre e tuo nonno, da sotto la camicia ti rimprovereranno dicendo «ma che scrittore sei», tu potrai battere la mano sul petto per tenerli buoni e dire «colpa vostra, siete poveri, e la povertà è un crimine che si sconta con l’ergastolo ereditario». Ma sarà solo un attimo. Quando il Papa parlerà, loro – tuo padre e il padre di tuo padre – troveranno pace. E quando saluterà, loro risponderanno «noi già t’aspettiamo, in Paradiso». Non è facile essere anelli di una catena, ma fa bene al cuore guardare i nipotini e riconoscersi e riconoscere in loro i tuoi genitori. Non importa se tua madre, a venticinque anni, temeva di rimanere incinta con un bacio, mentre la nipotina sembra “sapere già tutto”. Lei sarà lì, tu sarai lì. E sarai in quelli che verranno dopo e dopo ancora, perché la stirpe – in fin dei conti – è garanzia di immortalità.

Ritengo che “La mia stirpe” (Garzanti, p. 151, € 14,60), il nuovo bellissimo romanzo di Ferdinando Camon, sia un esempio di come la letteratura e la vita si possano legare in un unicum inscindibile, di come l’esperienza di un singolo possa trasfigurarsi attraverso il racconto e diventare epica condivisa dell’esistenza umana e delle sue radici. Ché la stirpe questo è: sangue e cellule; ma anche una catena di segni, sentimenti, ricordi che si ripetono e si riproducono ancorando l’uomo al suo prima e al suo dopo, conferendogli senso e appartenenza. Con i pro e i contro che caratterizzano ogni “fatto” umano.

Avremo modo di approfondire la conoscenza di questo libro. Inoltre, prendendo spunto dai temi proposti dal nuovo romanzo di Ferdinando Camon, vorrei che esprimeste le vostre opinioni e riflessioni sul concetto di “stirpe” (nel senso inteso). Vi invito anche ad ascoltare l’intervista radiofonica che Camon ha rilasciato a Fahrenheit.
Seguono le solite domande finalizzate ad avviare e stimolare la discussione (a cui parteciperà lo stesso autore del libro protagonista di questo post).

1. Vi è mai capitato di trovare in voi alcuni elementi di somiglianza con i vostri genitori e nonni che, magari, vi hanno colto di sorpresa?

2. Analogamente, vi è mai capitato di riconoscervi in alcuni tratti, atteggiamenti, modi di pensare dei vostri figli e nipoti (al punto da rimanere meravigliati della somiglianza)?

3. Appartenere a una “stirpe” è più un vincolo, una consolazione o una responsabilità? O cos’altro?

4. In certi casi, può essere una condanna?

5. Fino a che punto l’appartenenza a una stirpe può essere considerata il “viatico” per sopravvivere a se stessi?

A voi, se volete, le risposte.

Massimo Maugeri

Pubblicato in IL SOTTOSUOLO (di Ferdinando Camon), SEGNALAZIONI E RECENSIONI   115 commenti »

domenica, 29 maggio 2011

SETTANTA ACRILICO, TRENTA LANA: Viola di Grado

Aggiorno questo post giusto per congratularmi con Viola Di Grado. In questi mesi “Settanta acrilico, trenta lana” ha fatto incetta di premi importanti. Su tutti (notizia di ieri), la vincita del Premio Campiello opera prima 2011.
Brava, Viola! Complimenti a te e al tuo talento.
Massimo Maugeri

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Post del 7 febbraio 2011

settanta-acrilico-trenta-lana1L’ho capito sin dalle prime pagine che questo romanzo d’esordio di Viola Di Grado (Settanta acrilico, trenta lana – edizioni E/O – 2011) aveva le carte in regola per lasciare il segno. Se n’è accorto anche Giovanni Pacchiano che, sulle pagine di Domenica de Il Sole 24 Ore del 6 febbraio, scrive: “È un libro fatto di segni del destino il notevolissimo romanzo d’esordio di Viola Di Grado, Settanta acrilico trenta lana. In quest’inizio d’anno, mentre gli editori puntano molto sugli esordienti, ingolositi dai grandi slam di Giordano e della Avallone, lei, i romanzi dei suoi concorrenti, li eclissa. Se c’è giustizia al mondo, farà piazza pulita ai premi“.

Nella scheda del libro, Viola (che ho il piacere di conoscere personalmente già da prima della pubblicazione di questo libro) è definita “dark come Amélie Nothomb e letteraria come Elena Ferrante“. Io dico, molto più semplicemente, sebbene questo sia il suo primo libro, che Viola Di Grado è Viola Di Grado. E il segno che questo romanzo lascia (perché lo lascia: leggere per credere!) discende direttamente dalla sua scrittura: originale, mai banale, immaginifica, a tratti cinematografica, graffiante e cinica, ma con punte di lirismo. Una scrittura che procede per simboli e metafore, che cattura e spiazza al tempo stesso… capace di scuoterti, ma anche di farti sorridere. Insomma, sin da questo primo libro Viola Di Grado dimostra di possedere una cifra letteraria del tutto personale che le fornisce un’identità autoriale ben precisa… al di là dell’esordio.

E a proposito della scrittura di Viola, mi piace evidenziare l’opinione della brava Sandra Bardotti di Wuz (la riporto di seguito):
viola_di_gradoLaureata in lingue orientali a Torino, Viola Di Grado (nella foto) ha fatto l’Erasmus a Leeds, poi ha viaggiato in Giappone e in Cina, e ora si sta specializzando in filosofia cinese a Londra. Questo romanzo lo ha finito di scrivere due anni fa, quando di anni ne aveva ventuno. Eppure Settanta acrilico trenta lana dimostra una originalità e maturità di lingua e contenuti davvero rara per una scrittrice della sua età. Definita “dark come Amélie Nothomb e letteraria come Elena Ferrante”, Viola Di Grado costruisce il suo romanzo sulla lingua, attraverso iperboli, sinestesie, allitterazioni, parole che dipingono una natura al neon, di plastica, – acrilica, appunto -, sezionando lo spazio ovattato di questa Leeds letteraria come un bisturi. Una lingua che taglia e squarcia la pagina, come se fosse un fiore o vestito. Parole che coniugano esperienza corporea ed estetica, che si collocano esattamente sulla pagina come ideogrammi inscritti nel loro quadrato ideale. Parole che contraddicono la sterilità dell’esperienza depressiva, debordano fuori dal tracciato, si scompongono, si mescolano, si uniscono: chiavi di volta, parole che si fanno carne e riempono lo spazio, parole che significano sempre qualcosa di più della loro forma. Una lingua cesellata come una porcellana orientale eppure sfrontata e insolente come quella che solo a vent’anni si può avere.
Settanta acrilico trenta lana è il romanzo di una bellezza straziata, di una vita persa, ritrovata, persa di nuovo – ciclica, come un buco -, di una vita che muore ogni giorno e ogni giorno risorge, per lanciare una provocazione alle nostre candide esistenze“.
Ecco, mi sembra che le parole di Sandra rendano giustizia alla bella scrittura di Viola.
(continua…)

Pubblicato in EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI, SEGNALAZIONI E RECENSIONI   169 commenti »

lunedì, 4 aprile 2011

APOCALISSE A DOMICILIO, di Matteo B. Bianchi

Scrittore di libri cult, firma di riviste di tendenza, autore radiofonico e televisivo di successo (da Dispenser su Radio2 a Victor Victoria su La7), Matteo B. Bianchi è considerato uno dei talenti più brillanti e versatili della sua generazione.
Il suo nuovo romanzo si intitola “Apocalisse a domicilio” (Marsilio). Una storia coinvolgente e intensa dove Bianchi si misura con uno degli interrogativi più difficili che si può porre un essere umano: come mi comporterei se dovessi conoscere in anticipo la data della mia morte?
Il protagonista di questa storia è un giovane autore televisivo milanese, omosessuale e single, immerso nella routine massacrante del mondo dello spettacolo. A un certo punto riceve la predizione che nessuno vorrebbe mai: una sensitiva – tramite il fratello – gli pronostica due mesi di vita.
Credere, o non credere?
Facendo appello alla razionalità, sarebbe opportuno non dare peso a ipotesi di predizione del futuro così nefaste. Il problema, però, è che questa sensitiva ha raccontato cose talmente personali della vita del fratello, talmente “segrete”… che è impossibile che qualcun altro potesse esserne a conoscenza. Insomma, pare che davvero questa giovane donna abbia il dono maledetto della predizione.
Ecco che allora il tarlo del dubbio comincia a rodere. E se fosse tutto vero? Del resto, che interessi avrebbe la ragazza a pre-dire una cosa così terribile?
Da qui, il passaggio alla domanda successiva: se questa predizione fosse vera, cosa potrei fare nel tempo che mi resta per dare un senso alla mia esistenza?
Il protagonista della storia decide di intraprendere un viaggio sentimentale a ritroso tra Roma, la Sardegna, San Francisco, nel tentativo di ritrovare i grandi amori del suo passato… quasi a conferma del fatto che amore e morte sono legate a doppio filo (o che la ricerca del rapporto fisico ed emozionale possano fungere, in qualche modo, da barriera nei confronti della fine).
Matteo B. Bianchi è bravissimo a farci entrare nella vita di questo personaggio, a farci affondare nei sui dubbi e nelle sue insicurezze, a sorprenderci con la placidità mascherata di quest’uomo che non intende sottomettersi all’ansia e all’angoscia… che invece sembrano colpire di più il fratello (il quale, in certo senso, si sente responsabile della predizione). Il risultato è questa storia scritta con abilità e resa al lettore dal punto di vista dei tre personaggi principali: il protagonista, che si vede recapitare l’apocalisse a domicilio (qui Bianchi usa la tecnica narrativa della “seconda persona”); il fratello del protagonista, che ci viene presentato con una narrazione in terza persona; la sensitiva, che racconta l’esperienza del suo “dono” in prima persona.
Tre voci che si alternano in un crescendo di emozioni che costringono il lettore a rimanere attaccato alla pagina fino alle ultime righe, per scoprire se la fine del libro coincide con la fine del protagonista… oppure no.

Vorrei discutere di questo libro insieme a voi e con la partecipazione al dibattito dello stesso autore: Matteo B. Bianchi.

Come sempre, pongo alcune domande finalizzate a avviare la discussione (domande che, per la verità, implicano risposte difficili… vi chiedo un grande sforzo, lo so).

- Come reagireste se qualcuno vi dovesse predire l’imminente data della vostra morte? Quali decisioni prendereste?

- Se in teoria si potesse conoscere la data della propria morte, sarebbe più una “condanna” o una “opportunità”? Quali sarebbero i pro e i contro?

- Il protagonista del libro reagisce tuffandosi nel proprio passato, ricucendo legami affettivi sfilacciati, chiedendo agli ex partner della sua vita di concedergli un ultimo atto di amore fisico.
A vostro avviso, esiste una relazione tra l’esigenza di amore fisico e la prospettiva della morte?

Vi ringrazio in anticipo per la partecipazione.
Massimo Maugeri

Pubblicato in EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI, SEGNALAZIONI E RECENSIONI   136 commenti »

lunedì, 14 marzo 2011

L’UNITA’ D’ITALIA E LE DONNE NEL RISORGIMENTO ITALIANO: la Mariannina Coffa di Maria Lucia Riccioli

Come tutti voi sapete, il 17 marzo 2011 si celebra il 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Vorrei dedicare la pagina che state leggendo (e che spero possiate contribuire a riempire) a questa ricorrenza così importante.

maria lucia riccioliSe penso a questa nostra terra mi sovviene la figura della madre, dunque della donna. Ecco perché vi propongo di partecipare ai festeggiamenti concentrandoci soprattutto sulle figure femminili che hanno attraversato il Risorgimento italiano e – più o meno indirettamente – con la loro vita e il loro operato hanno contribuito alla nascita di questo nostro Paese.
In particolare ci occuperemo di una figura meno nota di altre a livello nazionale e anche per questo maggiormente meritevole di essere messa in risalto: quella della poetessa siciliana Mariannina Coffa (1841 -1878). L’occasione ce la offre la recente uscita del romanzo d’esordio di Maria Lucia Riccioli (nella foto accanto), intitolato “Ferita all’ala un’allodola” (Perrone Lab, 2011) di cui approfondiremo la conoscenza nel corso della discussione.

A voi, amici di questo blog, rivolgo l’invito di scrivere qualcosa (un pensiero, una citazione, o quant’altro) per contribuire alla celebrazione della ricorrenza…

Donne del Risorgimento. Le eroine invisibili dell'unità d'ItaliaSulla festa del 150°, inoltre, mi piace segnalare questo bell’articolo di Alessandro Mari pubblicato su Tuttolibri del 12 marzo, intitolato: Italia forever giovane e forte.

E a proposito delle donne del Risorgimento italiano, ci tengo pure a segnalare questo libro di Bruna Bertolo: “Donne del Risorgimento. Le eroine invisibili dell’unità d’Italia” (Ananke, 2011).

Di seguito, il booktrailer del romanzo “Ferita all’ala un’allodola” di Maria Lucia Riccioli e gli approfondimenti firmati da Luigi La Rosa e Simona Lo Iacono.

In chiusura, l’inno di Mameli offertoci da Roberto Benigni nel corso di una serata del Festival di Sanremo di quest’anno.

Massimo Maugeri
(continua…)

Pubblicato in EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI, LETTERATURA È DIRITTO... È VITA (a cura di Simona Lo Iacono), OMAGGI, RICORRENZE, ANNIVERSARI E CELEBRAZIONI, SEGNALAZIONI E RECENSIONI   389 commenti »

mercoledì, 22 dicembre 2010

IL DECISIONISTA, di Vincenzo Monfrecola

Chissà quante volte, nella vita, vi sarà capitato di dover prendere decisioni e di non sapere che scelta fare…
Questo post è proprio dedicato alla capacità o incapacità di scegliere, di prendere decisioni. Lo spunto lo offre il romanzo “Il decisionista” di Vincenzo Monfrecola, pubblicato di recente nella collana di narrativa italiana della casa editrice Cavallo di Ferro.

Siamo a Londra, nel 1898… “Quando Robert Younghusband legge l’inserzione pubblicata sul «Croydon Gazette» non crede ai suoi occhi, perché non pensava esistesse un esperto di decisioni difficili e già intravede la soluzione dei suoi problemi con i vicini di casa.
Quando William Cardigon legge la lettera inviatagli da Robert, fa i salti di gioia, perché quello è il suo primo cliente e finalmente sta per rimpolpare le sue finanze.
Quello che Robert non sa è che William non ha mai preso una decisione in vita sua, soprattutto non una buona, tanto che la sua famiglia ha finito per tagliargli i fondi”.

Le suddette frasi sono riprese dalla scheda del libro. Per il resto vi rimando alla bella recensione di Simona Lo Iacono che potete leggere di seguito. Come sapete Simona, oltre a essere scrittrice, è anche giudice. Dunque ho pensato di coinvolgerla: chi meglio di lei, che è obbligata a prendere decisioni per mestiere?
Discuteremo, dunque, di questo romanzo di Vincenzo Monfrecola (l’autore parteciperà alla discussione)… ma sarà anche l’occasione per conoscere un po’ di più la casa editrice Cavallo di Ferro (un’ottima realtà della piccola e media editoria).

E poi, mi piacerebbe che discutessimo insieme del tema generale di questo post. Così vi domando:

1. Vi è mai capitato di non essere in grado di prendere decisioni?
2. Quali sono i presupposti necessari per prendere una buona decisione?
3. Essere decisi è sempre un pregio?
4. Viceversa, essere indecisi è sempre un difetto?
5. La scelta è – come diceva Kierkegaard – la scelta dell’uomo solo… o può essere demandata ad altri?
6. Sareste capaci di rimettere le decisioni più importanti della vostra vita a una terza persona?
7. Infine: saper prendere decisioni, è più un’arte o una necessità?

Di seguito, come anticipato, la recensione de “Il decisionista” di Vincenzo Monfrecola firmata da Simona Lo Iacono.
Massimo Maugeri

 

(continua…)

Pubblicato in EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI, LETTERATURA È DIRITTO... È VITA (a cura di Simona Lo Iacono), SEGNALAZIONI E RECENSIONI   131 commenti »

martedì, 30 novembre 2010

ACCABADORA, di Michela Murgia (Premio Campiello 2010)

AGGIORNAMENTO DEL 30 novembre 2010

Ho riportato in evidenza questo post perché c’è un nuovo contributo: l’intervista che Michela Murgia ha rilasciato a Sergio Sozi (pubblicata su “Il Giornale dell’Umbria” del 22.11.2010).
La trovate alla fine del post.
Massimo Maugeri

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Michela Murgia vince il Premio Campiello 2010

http://4.bp.blogspot.com/_IlEcNXJYuek/S_jOaWZ8S1I/AAAAAAAAAGE/Bc7vhEbF3Yk/s1600/premio%2Bcampiello.jpgHo chiamato Michela venerdì mattina, al cellulare. Era appena atterrata a Venezia. Ed era emozionata. Le ho detto: “ho una sensazione positiva… vincerai il Campiello”. Lei mi ha ringraziato (magari avrà fatto gli scongiuri… chissà). Ma ciò che conta è che il Premio è andato a un libro assolutamente meritevole, di cui – peraltro – avevamo avuto modo di discutere l’estate scorsa proprio qui a Letteratitudine, con la partecipazione della stessa autrice.
Complimenti, Michela! Cento di questi Premi… e di questi libri.

Massimo Maugeri
5 settembre 2010

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Faccio i migliori auguri a Michela Murgia (nella foto) per aver vinto – sabato, 22 maggio – il Premio letterario SuperMondello 2010 e aver ricevuto contestualmente la comunicazione di far parte della cinquina dei finalisti del Premio Campiello di quest’anno (aggiudicandosi, dunque, il Premio Selezione Campiello). Il libro premiato si chiama “Accabadora” (Einaudi) e riconfermo le parole di elogio espresse nel post del 24 agosto 2009. Un libro bello e importante che, ancora una volta, consiglio di leggere.
Di seguito, il citato post pubblicato la scorsa estate.
Massimo Maugeri
24 maggio 2010

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Post del 24 agosto 2009

accabadora«Acabar», in spagnolo, significa finire. E in sardo «accabadora» è colei che finisce. Agli occhi della comunità il suo non è il gesto di un’assassina, ma quello amorevole e pietoso di chi aiuta il destino a compiersi. È lei l’ultima madre.
Sono queste le parole che si leggono sulla quarta di copertina del romanzo di Michela Murgia intitolato, appunto, “Accabadora” (Einaudi); un romanzo che – per quanto mi riguarda – è uno dei migliori che ho letto nel primo semestre del 2009.
Una storia forte, quella della Murgia; impreziosita da una scrittura di alta qualità (lirica, densa, ma molto efficace; da grande narratrice) e dal fascino di un’ambientazione riuscita (quella della Sardegna degli anni Cinquanta). Una storia che affronta tematiche complesse e attualissime quali: l’adozione (o l’affidamento), l’accompagnamento alla morte (eutanasia?), ma anche le contraddizioni e i taciti patti che possono interessare comunità organizzate come un unico organismo.

La giovane protagonista del romanzo, Maria, all’età di sei anni diventa «figlia d’anima» (fill’e anima) dell’anziana Bonaria Urrai. Cosa significa «figlia d’anima»? Significa – nella fattispecie – che la piccola Maria diventa figlia acquisita dell’anziana donna secondo l’uso campidanese che consente alle famiglie numerose di compensare le sterilità altrui attraverso una adozione sulla parola; il patto tacito è che la figlia acquisirà lo status di erede, ma in cambio promette di prendersi cura della madre adottiva nei bisogni della vecchiaia.

Bonaria Urrai fa la sarta. Questo è quello che sa Maria. Ma c’è dell’altro. Nell’oscurità l’anziana donna svolge un ulteriore compito: entra nelle case per porre fine alle sofferenze degli agonizzanti e portare una morte pietosa. È un atto ossimorico, quello dell’ultima madre: ferale e amorevole.
Maria la scopre dopo, questa realtà. E la scoperta la sconvolge, la travolge. Perché la giudica inaccettabile. Perché discende dal crescente scarto tra l’etica millenaria di una società morente e i nuovi valori che l’incalzano. Anche se – alla fine – un monito della stessa Bonaria aleggia nell’aria, penetra nelle orecchie: “non dire mai:di quest’acqua io non ne bevo”.

Vi invito ad approfondire la conoscenza di questo romanzo interagendo con l’autrice (che parteciperà alla discussione).
Contestualmente vi propongo di discutere sulle tematiche affrontate dal libro.
Come sempre, per favorire la discussione, pongo alcune domande.

1. (Maria diventa «figlia d’anima» di Bonaria Urrai)
Fino a che punto l’amore di una madre acquisita può superare o eguagliare quello di una madre naturale?
Siamo più figli di chi ci genera o di chi ci alleva?

2. (Bonaria Urrai pratica la «accabadura»)
Esiste un limite oltre il quale è possibile – o addirittura “giusto”, “auspicabile” – porre fine alle sofferenze di un agonizzante? E chi, eventualmente, dovrebbe stabilire il limite?

Di seguito, potrete leggere la recensione di Bruno Quaranta pubblicata su Tuttolibri del 20 giugno 2009. Consiglio, inoltre, l’ascolto dell’intervista rilasciata alla trasmissione radio Fahrenheit.

Massimo Maugeri

(continua…)

Pubblicato in EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI, SEGNALAZIONI E RECENSIONI   224 commenti »

martedì, 9 novembre 2010

ASINO CHI LEGGE, di Antonella Cilento

asino-chi-legge-coverConosco Antonella Cilento da diversi anni. Di lei ho sempre apprezzato sia il talento letterario, sia l’impegno civile di una vita dedicata ai libri e alla letteratura. Questo impegno rimbalza dalle sue pagine ai corsi di scrittura de La linea scritta, dalle svariate iniziative culturali (come quella di Le strane coppie) alla sua attività svolta in giro per le scuole d’Italia con l’intento di trasmettere agli studenti – talvolta anche ai docenti – l’amore per la lettura e per la scrittura.
Ed è proprio da questa esperienza, dall’incontro con i ragazzi delle scuole, che nasce il volume Asino chi legge, appena pubblicato da Guanda (così come ben spiegato dalla scheda del libro).

“Asino chi legge” si scriveva una volta sui muri delle scuole, per sbeffeggiare un compagno ingenuo o gli adulti noiosi. Un tempo, neanche tanto lontano, avere libri in casa e un figlio laureato era considerato un valore aggiunto, il trionfo per una famiglia in risalita sociale. Da qualche anno, invece, leggere è considerato un errore, una perdita di tempo, un insignificante vizio. Studiare e leggere, è ormai noto, non ti porterà da nessuna parte, non ti aprirà le porte del mondo del lavoro, non farà di te una persona migliore, tanto vale trovare false scorciatoie.
Questo libro racconta la sfida di portare la letteratura, scritta e letta, in luoghi dove la passione per la pagina non è mai nata o si scontra con difficoltà inenarrabili: a Napoli, in Irpinia, in Trentino, in Sicilia e in altre province d’Italia. Antonella Cilento, perennemente in viaggio fra treni e scuole pubbliche, dove da anni offre servizio come esperto esterno di scrittura creativa, raccoglie storie divertenti, assurde e tristi: dai figli dei capo-clan napoletani ai timidi ragazzi della Nusco di De Mita, ai giovani pakistani di Bolzano, fissando una fotografia disincantata delle ultime generazioni, della percezione dello scrittore nelle scuole, e di un Paese in piena crisi di idee.
I ragazzi e i loro insegnanti sono, insieme ai luoghi, i veri protagonisti, con le pagine che scrivono, le loro vicende e la domanda più grave: cosa stiamo facendo del nostro futuro? Un viaggio alla ricerca di quel che stiamo perdendo o, in certi casi, abbiamo già perso, ma che niente, salvo noi stessi, può impedirci di riconquistare.

Dalla nota, dicevo, si capisce bene il senso di questa importante testimonianza… il cui sottotitolo è “I giovani, i libri, la scrittura”.
Ed è proprio dei giovani, dei libri e della scrittura che vorrei discutere con voi, insieme ad Antonella Cilento… che parteciperà al dibattito (questo post è da considerarsi come una “costola” del forum permanente “Letteratitudine chiama scuola”).
Pongo le solite domande, volte ad avviare la discussione…

1. Nella vostra esperienza, che rapporto hanno i ragazzi con la lettura?

2. Siete d’accordo sul fatto che da qualche anno leggere è considerato una sorta di errore, una perdita di tempo, un insignificante vizio?

3. Se è così… perché si è giunti a questo punto? E di chi è la colpa?

4. Viceversa, perché è importante leggere? Perché è importante saper scrivere? Come lo spieghereste a un ragazzo di oggi?

5. E con quali libri “iniziereste” alla lettura un ragazzo (o una ragazza) delle cosiddette scuole medie inferiori? E a quelli del liceo? Che letture proporreste?

6. Qual è, o quale dovrebbe essere, il ruolo della scuola e del corpo docente per incentivare gli studenti a leggere e a saper scrivere?

Vi sarei grato se poteste far “circolare” questo post, soprattutto tra i giovani e tra le scuole.
Grazie mille in anticipo.

Massimo Maugeri

P.s. Di seguito, l’articolo di Bruno Quaranta pubblicato in prima pagina di Tuttolibri de La Stampa del 23 ottobre… e le prime pagine di “Asino chi legge”
(continua…)

Pubblicato in EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI, L'OMBRA E LA PENNA (con il contributo di Antonella Cilento), SEGNALAZIONI E RECENSIONI   292 commenti »

lunedì, 25 ottobre 2010

IL FUTURO DELLA NARRATIVA E LA FAME DI REALTÀ: il caso di David Shields

fame-di-realta-2Cos’è il romanzo oggi? Quale genere narrativo sa raccontare meglio la realtà? Quali sono o saranno le forme espressive dominanti del XXI secolo? Dov’è il limite tra citazione e plagio? Chi stabilisce se un autore, appropriandosi di una parte dell’opera altrui, sta costruendo un nuovo orizzonte di senso o sta solo copiando?
Queste sono alcune delle domande che pone e si pone David Shields: autore di opere narrative e saggistiche di successo, tra cui “Black Planet” (finalista al National Book Critics Circle Award), tradotte in dodici lingue, e di racconti e saggi brevi su varie testate (come, ad esempio, «New York Times Magazine», «Harper’s Magazine», «The Village Voice», «McSweeney’s» e «The Believer»).
Shields, per la verità, è andato oltre. Non si è limitato a porre (più o meno implicitamente) domande, ma ha pubblicato un libro (in Italia è stato appena pubblicato dalla Fazi) intitolato “Fame di realtà. Un manifesto”, dove – tra le altre cose – contesta l’utilità del genere romanzo così come è classicamente inteso. Per Shield (trascrivo dalla scheda del libro) “il romanzo del Terzo Millennio deve nascere dalla rifusione di vecchi materiali letterari, mescolati fino a perdere le tracce della fonte originaria e a fondersi in una forma ibrida tra saggistica e narrativa”. D’altra parte il testo che propone in “Fame di realtà” è composto da 618 citazioni suddivise in capitoli e riportate in una sequenza ordinata e sistematizzata secondo certi criteri che lui stesso ha prescelto, ma… senza indicare l’autore e la fonte (alla fine del libro l’editore, per evitare possibili ritorsioni legali riguardanti la violazione del diritto d’autore, ha imposto l’inserimento di una scheda con l’indicazione degli autori delle citazioni utilizzate).
Ecco cosa scrive Shield (qui nella foto) alla fine del volume, come appendice.
David ShieldsQuesto libro contiene centinaia di citazioni delle quali nel corpo del testo non viene menzionata la fonte. Sto cercando di rivendicare una libertà che gli scrittori da Montaigne a Burroughs davano per scontata e che noi abbiamo perso. La vostra incertezza sugli autori delle parole che avete appena letto non è un difetto ma una virtù.
Uno dei temi centrali di “Fame di realtà” è il furto e il plagio e cosa queste parole vogliano dire. Non sarei riuscito ad affrontare l’argomento senza lasciarmi invischiare. Sarebbe come scrivere un libro sulla menzogna e non poter mentire. Oppure scrivere un libro su come abbattere il capitalismo ma sentirsi rispondere che non verrà pubblicato perché potrebbe danneggiare l’industria editoriale.
Tuttavia l’ufficio legale di Random House ha deciso che fosse meglio allegare un elenco completo delle citazioni (…). Se volete ripristinare la forma originaria in cui il libro andava letto, vi basta prendere un paio di forbici o una lametta o un taglierino e staccare le pagine che vanno dalla 248 alla 262 tagliando lungo la linea tratteggiata.
Di chi sono le parole? Di chi è la musica e tutto il resto della nostra cultura? È nostra, di tutti, anche se per ora non tutti lo sanno. Non si può imporre un diritto d’autore alla realtà
.”
Questo libro ha scatenato un ricco e articolato dibattito negli States e in altri paesi, anche perché tra i sostenitori del volume – e delle tesi di Shields – figura il Premio Nobel per la Letteratura 2003 J. M. Coetzee, il quale ha dichiarato quanto segue: “Fame di realtà è un manifesto per la nuova generazione di scrittori e artisti, una pietra miliare per questo secolo, un assalto frontale a tutte le convenzioni, particolarmente a quelle che definiscono il romanzo perfetto. David Shields ci conduce in un viaggio intellettuale affascinante ed esilarante”.
Un’opinione di peso, quella di Coetzee… a cui hanno fatto seguito quelle di Jonathan Safran FoerFame di realtà non è soltanto un libro che fa riflettere, ma è anche uno dei più belli che abbia letto da molto tempo a questa parte»] e Jonathan Lethem [«Ho appena finito di leggere Fame di realtà e mi ha illuminato, intossicato, entusiasmato, sopraffatto. È un vetro attraverso cui guardare il mondo (come lo mostrano letteratura, musica, video), e allo stesso tempo uno specchio in cui vederci riflessi, là in mezzo. Un libro urgente, oltraggioso, e anche un'opera che si compone leggendola»].
Mentre Zadie Smith ha affermato: è «intrigante da leggere, anche se disapprovo la maggior parte di quello che dice».
Non mancano i pareri favorevoli di quotidiani di grido come il New York Times («Il libro di Shields stabilisce i canoni dominanti dell’arte degli anni e dei decenni a venire». The New York Times Book Review) e The Guardian («Intelligente, stimolante e aforistico. Un manifesto provocatorio e divertente»).

Il dibattito si sta diffondendo un po’ ovunque tra gli appassionati di letteratura e ha raggiunto anche il nostro paese. Di questo libro ne hanno già parlato Matteo Sacchi (su Il Giornale), Alfonso Berardinelli (su Il Corriere della Sera), Mariarosa Mancuso (su Il Foglio), Stefano Salis – che ha anche firmato la prefazione del libro – e Nicola Lagioia (sulle pagine culturali de Il Sole24Ore).
Di seguito potrete leggere la prefazione di Salis (ringrazio sia Stefano, sia la Fazi per avermi autorizzato a pubblicarla). Nei prossimi giorni metterò a vostra disposizione altri contributi.

I giudizi di Sacchi, Mancuso e Berardinelli non sono molto favorevoli all’operazione.
Alfonso Berardinelli nel suo articolo sul Corriere scrive – con severità – “Se c’è qualcuno che non si perdona, è proprio chi dice qualcosa che abbiamo pensato e scritto per anni, ma lo dice male, noiosamente e nel tono sbagliato. Mi capita questo leggendo il libro di David Shields “Fame di realtà. Un manifesto” (Fazi) nel quale si annuncia dagli Stati Uniti, patria, fabbrica e paradiso del bestseller programmato, che in verità il romanzo è un genere fuorviante, abusato, quasi sempre un po’ fasullo; e che invece l’ aforisma, il saggio, le scritture fuori genere, gli zibaldoni di pensieri e i diari sono molto meglio: sono più onesti, più appassionanti, dicono cose più vere di quante ne dice un romanzo normale e «ben fatto». Condivido molto di ciò che Shields dice nel suo libro. Ma non riesco a condividere né l’entusiasmo del prefatore, Stefano Salis, né tantomeno le solenni affermazioni di J. M. Coetzee, secondo il quale Fame di realtà sarebbe «un manifesto per la nuova generazione di scrittori e artisti, una pietra miliare per questo secolo…».
Mi preme, poi, evidenziare questo passaggio del pensiero di Berardinelli (spiegherò il perché): “L’aforisma 538 suona così: «Mi ritrovo a dire, succintamente e prosaicamente, che è molto più importante essere se stessi che chiunque altro». Dalle note in fondo al libro si viene a sapere che una tale stupidaggine l’ha scritta Virginia Woolf nel suo famoso saggio “Una stanza tutta per sé”. Che cosa è avvenuto? La frase, che nel suo contesto era al posto giusto, è stata trasformata da Shields in una comica sciocchezza, che starebbe benissimo e sarebbe una cosa seria nel diario di un adolescente, ma nel manifesto estetico di un cinquantenne colto e ambizioso fa cascare le braccia”.
È probabile che Berardinelli abbia ragione, ma – a mio avviso – è proprio questa considerazione che contiene, al suo interno, un aspetto cruciale della questione. Quella frase è stata trasformata. Non è più quella originaria. O meglio, ha perso il suo senso originario per acquisirne uno nuovo (migliore o peggiore che sia). E il suo nuovo senso dipende dal contesto inedito in cui la frase stessa è inserita e dalla sequenza delle altre citazioni in cui è stata incastonata. Credo che questo aspetto della questione sia “centrale” rispetto al tema del futuro della tutela del diritto d’autore.
Ora, la domanda è: prendere una frase, estrapolandola dal contesto originario, per inserirla in un contesto nuovo, inedito, frutto di un insieme sistematizzato e pensato di citazioni, può essere considerato un atto creativo (e, in quanto tale, innovativo e autonomo), oppure si tratta di una semplice e banale operazione di copia-incolla?
È possibile paragonare tale operazione
(per tentare un parallelismo con l’arte figurativa) a quelle che compiva Andy Warhol (penso alle note icone di Marilyn Monroe, Mao, Che Guevara)?
E fino a che punto si tratta di qualcosa di innovativo? Può essere considerata innovativa l’idea di rinunciare a indicare gli autori delle “frasi originarie” partendo da una ri-considerazione del diritto d’autore?

Ciò premesso (senza soffermarmi su avanguardie, neo-avanguardie e/o sperimentalismi del passato) questo libro di Shields, a caldo, mi ha evocato due pensieri (o meglio, “suggestioni”):
1. Un vecchio racconto di Roald Dahl, pubblicato la prima volta – se non erro – nel 1953, intitolato “Lo Scrittore automatico” (titolo originale: “The Great Automatic Grammatisator”). È la storia di un giovane aspirante scrittore che inventa una strana macchina in grado di produrre romanzi in quantità industriale rimescolando e ricomponendo un’accozzaglia di racconti, frasi, testi, attraverso una combinazione artificiale (basta premere leve e pulsanti) di trama, stile, linguaggio e genere. Questo racconto lo trovate sia in questo volume, che in quest’altro.
2. Le pillole Bur curate dall’amico Luigi La Rosa. Un insieme di citazioni estrapolate dai contesti originari e sistematizzate – sulla base di un tema prescelto – in capitoli “sotto-tematici”. Qui su Letteratitudine abbiamo avuto modo di discutere de “L’alfabeto dell’amore”, ma ricordo anche Pensieri erotici e Pensieri di Natale. In questo caso, però, a differenza di Shields (e il discrimine vero è proprio qui) alla fine di ogni citazione venivano riportati il nome dell’autore e il titolo dell’opera da cui il testo era stato estrapolato.

Mi fermo qui e passo la parola a voi, ri-proponendovi le domande:

1. Cos’è il romanzo oggi?
2. Quale genere narrativo sa raccontare meglio la realtà?
3. Quali sono o saranno le forme espressive dominanti del XXI secolo?
4. Dov’è il limite tra citazione e plagio?
5. Chi stabilisce se un autore, appropriandosi di una parte dell’opera altrui, sta costruendo un nuovo orizzonte di senso o sta solo copiando?
6. Ovvero… prendere una frase, estrapolandola dal contesto originario, per inserirla in un contesto nuovo, inedito, frutto di un insieme sistematizzato e pensato di citazioni, può essere considerato un atto creativo, oppure si tratta di una semplice e banale operazione di copia-incolla?
7. È possibile paragonare tale operazione (per tentare un parallelismo con l’arte figurativa) a quelle che compiva Andy Warhol (penso alle note icone di Marilyn Monroe, Mao, Che Guevara)?
8. E fino a che punto si tratta di qualcosa di innovativo?
9. Può essere considerata innovativa l’idea di rinunciare a indicare gli autori delle “frasi originarie” partendo da una ri-considerazione del diritto d’autore?

Provate a fornire la vostra risposta (se non a tutte le domande, a quelle che vi interessano di più).

Di seguito, la prefazione di Stefano Salis.

Massimo Maugeri

P.s. Di questo libro ne sta parlando anche Loredana Lipperini su Lipperatura
(continua…)

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giovedì, 14 ottobre 2010

TECNICHE DI RESURREZIONE, di Gianfranco Manfredi

Sul precedente libro di Gianfranco Manfredi – “Ho freddo” – sulle pagine di Tuttolibri de La Stampa, Sergio Pent ha scritto: “Un romanzo che avvince e instilla dubbi sul fascino dei miti popolari, sulle suggestioni esercitate dai potenti, sui tentativi della medicina di risolvere mali che nascono dal profondo di psicologie ataviche, radicate nel dolore e nella paura. Davvero, se Stephen King avesse occasione di leggerlo, potrebbe sicuramente esclamare «ma perché non l’ho scritto io?»”.

Per Ernesto Ferrero, invece, “con verve divertita e provocatoria, Manfredi mescola temi, ambienti, linguaggi, reinventa documenti e carteggi, incrocia personaggi autentici con le fantasie più arrischiate del romanzo gotico e della horror story, miti industriali e dimore di fantasmi, culti arcaici […]e sperimentazioni […], effetti da Grand Guignol e fenomeni extrasensoriali”.

tecniche_di_resurr-cover-bisGianfranco Manfredi è tornato di recente in libreria con un nuovo romanzo, anche questo pubblicato da Gargoyle, intitolato “Tecniche di resurrezione” (dove riprende le vicissitudini dei tre personaggi che animavano il precedente “Ho freddo”, pur mantenendo una struttura narrativa del tutto autonoma).
I riscontri positivi non mancano nemmeno per questo libro. Ranieri Polese, sulle pagine culturali de Il Corriere della sera del 26 settembre 2010 scrive: “Manfredi alterna la riproposta dei suoi titoli di ieri con una nuova produzione di «romanzi filosofici» in cui personaggi e storie d’invenzione si mescolano a fatti e figure storiche e rigorosamente documentate”.

Nell’introduzione al libro, Carlo Bordoni scrive: “Tecniche di resurrezione è un vero capolavoro settecentesco ricreato al giorno d’oggi: del romanzo gotico riprende il tema e la morbosa attenzione per la vita dopo la morte; del romanzo filosofico mette in evidenza i problemi morali, la vivace discussione intellettuale e le contraddizioni del tempo; del romanzo storico ha l’attenzione puntuale per gli eventi narrati e la ricostruzione dei personaggi reali; del romanzo fantastico ha il fascino dell’orrido e il richiamo agli elementi insondabili che sono alla base del mistero della vita”.

I temi affrontati e gli spunti di riflessione offerti da Tecniche di resurrezione sono molteplici, tra cui quello della ossessiva attenzione per la vita dopo la morte e quello dell’ansia di progresso della scienza che, talvolta, trascura remore morali e rispetto per gli uomini (nel romanzo si stigmatizza l’uso spropositato da parte di medici dei cadaveri della povera gente fatta morire in anticipo negli ospedali per poterne studiare il corpo).
Troverete maggiori informazioni nel corso del dibattito, a cui parteciperà anche l’autore (che, oltre a essere “figura carismatica” della letteratura gotica italiana, è animatore instancabile del dibattito sulla letteratura dei vampiri e di altri orrori proposto su questo blog).

Discuteremo del romanzo e dei temi da esso affrontati. Per favorire la discussione, pongo le seguenti domande.

- Avete mai letto il romanzo “Frankenstein” di Mary Wollstonecraft, sposa del poeta romantico Percy Bysshe Shelley? Se sì, cosa ne pensate? Che sensazioni ha suscitato in voi?

- Se grazie a una sorta di sperimentazione tecnologica vi venisse offerta la possibilità di “vivere per sempre” (a voi e solo a voi)… accettereste?  Se sì, a quali condizioni?
A prescindere da qualunque considerazione di natura religiosa… sarebbe “morale” accettare?

- Ci sono limiti oltre i quali la scienza medica non dovrebbe spingersi?

Di seguito: il booktrailer del libro, l’articolo di Luciano Comida (che mi darà una mano a animare e a moderare la discussione) e l’introduzione al volume firmata da Carlo Bordoni.

Massimo Maugeri

P.s. Ne approfitto per segnalare su La poesia e lo spirito l’intervista a Claudio Vergnani su “Il 36° giusto” (Gargoyle, 2010)

(continua…)

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martedì, 28 settembre 2010

IO NON CI VOLEVO VENIRE QUI, di Angelo Orlando Meloni

1. Che rapporto avete con i consigli?

2. Preferite darli o riceverli?

3. Meglio i consigli dei parenti o quelli degli amici?

4. E poi… secondo la vostra esperienza, i consigli sono più un atto di “carità” o di “cattiveria”?

Ne discutiamo insieme prendendo spunto dal divertente romanzo sull’arte scrittoria (e non solo) di Angelo Orlando Meloni intitolato “Io non ci volevo venire qui. Breve manuale di autodistruzione per il conseguimento della felicità” pubblicato dalla casa editrice Del Vecchio.

Vi riporto un passaggio tratto dalle prime pagine del libro:
«Chi non ha paura di un buon consiglio?
Io per esempio ho paura. Molta paura. evito di darli e di riceverli, e se li ricevo mi sforzo di dimenticarli. Quando non li dimentico, poi, cerco di applicarli male. Come vi potrà confermare più di un buon samaritano, dedicarsi ai problemi degli altri è uno sport pericoloso, perché il sonno della nostra indifferenza genera mostri e, in casi sventurati, un consiglio può generare addirittura “artisti”
».

Un libro divertente, dicevo… ironico e autoironico, che rientra a pieno titolo nell’ambito della cosiddetta letteratura dell’ironia.
Di seguito, avrete la possibilità di leggere la recensione firmata da Salvo Zappulla e un assaggio del testo (un ulteriore assaggio potrete gustarvelo da qui).
Alla discussione parteciperà lo stesso Angelo Orlando Meloni, con il quale avremo modo di approfondire la conoscenza di questo suo romanzo.
Massimo Maugeri
(continua…)

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lunedì, 13 settembre 2010

RISPETTO, ONORE, CORAGGIO, PAURA… PORTAMI RISPETTO di Vins Gallico

Vorrei approfittare della recente uscita del bel romanzo d’esordio di Vins Gallico, intitolato “Portami rispetto” (Rizzoli), per discutere di alcune delle tematiche che emergono dalla storia narrata e che sono legate alle quattro seguenti parole: rispetto, onore, coraggio e paura.
Ovviamente avremo la possibilità di approfondire la conoscenza del libro approfittando della presenza dello stesso autore.

Per introdurvi al romanzo vi trascrivo il breve testo riportato in quarta di copertina:
“Questa non è una terra normale. In Calabria la paura ha avvolto qualsiasi emozione. È un tiranno che non ha bisogno neppure di nascondersi. Magari tra di noi c’è ancora qualche eroe, ma non sarà lui a risolvere la situazione”.
Un testo che contiene una nota di pessimismo – o forse di disilluso realismo (ne parleremo con l’autore) – e che comunque lascia ben intendere quali sono le problematiche incrociate dal romanzo.

Veniamo alla scheda del libro…

Notte infuocata d’agosto. Due uomini d’onore si muovono nel buio delle colline aspromontane. Nel bagagliaio della loro Croma, un cane ringhia e cerca di scappare. Fuori, i due criminali armeggiano con dei pezzi di stoffa e un secchio pieno di benzina. Gli ordini di Don Rocco, capobastone latitante, sono stati chiari: «Date fuoco al cane e fatelo correre nel bosco sopra Agatea, in pochi minuti le fiamme avvolgeranno tutto». Ma i due piromani non sono gli unici a nascondersi nell’oscurità e qualcosa, nel loro piano in apparenza semplice, è destinato ad andare storto. Così qualche giorno dopo, mentre le forze dell’ordine quantificano i danni dell’incendio, tra le ceneri vengono scoperti i cadaveri carbonizzati di due sconosciuti. Tina Romeo, la giornalista sportiva che un quotidiano di provincia ha spedito a seguire il caso, arriva sul posto convinta che si tratti dell’ennesimo tragico incidente. Non può immaginare che in un batter d’occhio si troverà al centro di una faida tra antichi rivali, di un intrigo di potere destinato a stravolgere la sua vita e quella di chi le sta intorno. L’anima nera della Calabria, dove oggi più che mai vige il diritto del più forte, trova finalmente voce in un romanzo crudele e ironico, che racconta una società senza coraggio e senza anticorpi alla mafia, in cui soltanto le parole possono ancora cambiare le cose. E forse neanche quelle.

Una storia di ’Ndrangheta ben raccontata, questa di Vins Gallico: linguaggio scorrevole, trama forte, personaggi ben caratterizzati e una contrapposizione tra bene e male, tra buoni e cattivi, che è assai meno netta di come è spesso rappresentata in molti romanzi che hanno a che fare con le organizzazioni criminali.

A proposito del coraggio, vi segnalo la seguente citazione di Hemingway riportata in epigrafe:

Il coraggio percorre una distanza breve;
dal cuore alla testa, ma quando se ne va
non si può sapere dove si ferma;
in un’emorragia, forse, o in una donna,
ed è un guaio essere nella corrida quando se n’è andato
dovunque sia andato.
Ernest Hemingway, “Morte nel pomeriggio”

Nel corso della discussione, tra i commenti, vi proporrò altre citazioni sul rispetto, sull’onore, sul coraggio e sulla paura. Vi chiedo fin d’ora di scegliere le vostre preferite (e quelle che invece non vi convincono), spiegandone le ragioni.

Per avviare la discussione… ecco alcune domande (ringrazio anticipatamente chi avrà la possibilità di rispondere).

1. Cosa significa oggi “avere (e/o portare) rispetto”?

2. Un tempo, il senso del rispetto era più forte… più sentito.
Siete d’accordo con questa affermazione?

3. Se così fosse, il rispetto di “un tempo” era reale… o intriso di una sorta di velo ipocrita?

4. In cosa si differiscono onore e rispetto?

5. Che relazione c’è tra paura e rispetto?

6. E tra coraggio e rispetto?

7. Quali sono le caratteristiche del coraggio?

8. Il senso del rispetto viene indotto più dalla paura o dal coraggio? Dall’autorità o dalla autorevolezza?

A voi…

Massimo Maugeri

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lunedì, 26 luglio 2010

SMETTERE DI FUMARE CON P. G. WODEHOUSE

Che rapporti avete con il fumo?
Avete mai fumato in vita vostra?
Siete fumatori incalliti?
Se sì… avete mai provato a smettere di fumare? Ci siete riusciti?
Raccontereste la vostra esperienza?

E a proposito di fumo: meglio la sigaretta, il sigaro, la pipa (o altro)?

Pensate che le campagne contro il fumo siano adeguate? Pensate siano esagerate?

E le limitazioni imposte ai fumatori nei luoghi pubblici? Sono giuste o eccessive?

Quale potrebbe essere un motivo, una ragione, per cui smettereste davvero di fumare?

Potrebbe esserci, viceversa, un motivo per cui comincereste a fumare?

Immagine 11 Sigarette

L’idea di proporvi questa discussione mi è sorta a seguito della recentissima uscita del volume “L’uomo che smise di fumare” di G. Pelham Wodehouse (Guanda, 2010). Una raccolta di divertentissimi racconti che potrebbe ben figurare nel forum dedicato alla letteratura dell’ironia.
Sarà anche l’occasione per conoscere un po’ meglio Pelham Grenville Wodehouse, autore di una novantina di romanzi tradotti in tutto il mondo.

Segue la scheda del libro…

Se ti trovi a Londra, all’Angler’s Rest, magari verso l’orario di chiusura, non hai scampo: devi sapere che assieme al tuo bicchiere di whisky ti verrà servita una storia incredibile e divertente da parte del più instancabile fra i chiacchieroni del locale, il signor Mulliner. Seduto accanto agli altri avventori, come Birra scura alla spina, Pesce persico e Doppio whisky e poca soda, farai conoscenza con la sterminata famiglia Mulliner, nipoti, cugini e lontani parenti compresi, sempre al centro di strampalate avventure. Come quella di Archibald, alle prese con la lettura di Shakespeare e di Bacone per impressionare la zia dell’amata Aurelia Cammerleigh, salvo poi scoprire che la ragazza trova questo genere di cose di una noia mortale; o quella in cui Ignatius decide di conquistare Hermione smettendo di fumare: una prova d’amore difficile (e non richiesta… ); fino ad arrivare ai racconti dedicati alla terribile Roberta “Bobbie” Wickham e alle peripezie che devono affrontare i suoi pretendenti, come trovarsi dei serpenti infilati fra le lenzuola da chissà chi o gettarsi in rocambolesche fughe dalla finestra alla rincorsa del famigerato treno del latte, primo mezzo utile per scappare dalla casa di famiglia della giovane donna, teatro di spassosi equivoci. Nove racconti che rappresentano ognuno un piccolo mondo, ritratti con il consueto, irresistibile umorismo senza tempo di P.G. Wodehouse.

E a proposito della storia di Ignatius che decide di conquistare Hermione smettendo di fumare, vi propongo questo brano estrapolato dal libro:
“«Se volete sapere che ne penso, signori» riprese il signor Mullner, «dirò che, per un uomo, smettere di fumare non soltanto è sciocco: è imprudente. È un gesto che risveglia il demone sopito in tutti noi. Smettere di fumare è diventare una minaccia per chi ci sta accanto. Non dimenticherò facilmente che cosa accadde nel caso di mio nipote Ignatius. Grazie a Dio la storia ha un lieto fine, ma…»”

Siete d’accordo con la tesi del signor Mullner?
Smettere di fumare può essere imprudente? È un gesto che risveglia il demone sopito in tutti noi? In altre parole: smettere di fumare può diventare una minaccia per chi ci sta accanto?

Vi invito a partecipare a questa discussione, nella speranza che non sia troppo… fumosa.

Massimo Maugeri

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martedì, 6 luglio 2010

CONCETTO AL BUIO, LEGGERE FA MALE

Ci sono storie che scavano dentro, che lasciano solchi, che afferrano per la gola cogliendo il lettore impreparato, sorprendendolo di continuo. Sono queste le sensazioni dominanti che suscita la lettura di “Concetto al buio”, la nuova opera narrativa di Rosario Palazzolo (pubblicata da Perdisa Pop nella collana Babele Suite).
Per la verità l’autore ci mette in guardia già a partire dalla prima delle epigrafi scelte. È una citazione tratta da La cantina di Thomas Bernhard, e dice così: “Tutto quello che scrivo, tutto quello che faccio, è disturbo e irritazione. Tutta la mia vita in quanto esistenza non è altro che un continuo disturbare e irritare. Giacché richiamo l’attenzione su dei fatti che disturbano e irritano. Io non sono un uomo che lascia in pace la gente”.
“Concetto al buio” è una storia che disturba, irrita… che afferra alla gola, dicevo… ma non perché contiene descrizioni cruente. Tutt’altro. Qui è la suggestione, a padroneggiare. È la capacità dell’autore di imbastire un racconto avvalendosi di un approccio avvolgente, ipnotico. Squarci di una realtà amara e dolorosa che si dipanano con lentezza, ma in maniera inesorabile. Il lettore ci si trova nel mezzo. All’inizio della storia si può avere l’impressione di possedere tutte le coordinate degli eventi, ma ciò che nella fase preliminare della lettura sembra chiaro ed evidente si rivela – ben presto – come il frutto di una visuale sfocata. C’è un momento in cui il lettore proverà un inevitabile senso di straniamento, per poi capire – con sorpresa – che la storia che sta leggendo non è il semplice dramma del presunto protagonista… ma l’intreccio delle vite di almeno tre personaggi legati da un destino e una condizione orribili. Girata l’ultima pagina, la tentazione di rileggere tutto dall’inizio è quasi irresistibile.
Non c’è dubbio che Palazzolo sia bravo a mischiare le carte (a creare un effetto straniante, dicevo)… ma lo fa avvalendosi di un linguaggio e di una caratterizzazione forti e di qualità.

leggere-fa-male-1La storia inizia in una stanza chiusa. C’è un ragazzino che vi è segregato dentro.
Il senso di ciò che accade, l’atmosfera, si percepisce sin dalle prime pagine: “è successo ieri, verso sera, ho sentito che sprangavano la porta, che ci mettevano delle assi di legno, ho sentito che le inchiudevano per bene, la buttanissima strega con la solita voce smozzicata da strega dava degli ordini secchi, l’altra invece non parlava, eseguiva soltanto, ogni tanto faceva degli sbuffi di naso come di chi si sta stancando tropp’assai, erano degli sbuffi angosciati, pure, forse perché nel mentre, sotto sotto, stava piangendo”.
Le identità delle due donne vengono rivelate solo alla fine, quando i pezzi di questo puzzle narrativo si ricompongono.

E poi la storia viene intramezzata da un diario. Una sorta di lunga lettera indirizzata a Gesù crocifisso. “Una storia segreta e difficile (leggiamo nella scheda del libro), un padre silenzioso, una madre arcigna, un prete che impartisce crudeltà morali”.
Comincia così: palermo, 9 novembre 1984, ore 20 e 37
Questa sequenza di missive, a mio avviso, ha un che di commovente e (nonostante l’epilogo tutt’altro che a “lieto fine”) testimonia l’esistenza di una grande fede, per quanto semplice, disperata, talvolta distorta: “… visto che sei il più grandissimo, fai una cosa piccola per me, caro gesù: da adesso in poi, e per tutto il tempo del mio racconto, non ti mettere nessuna espressione, fatti di niente, ascolta la storia che infilerò dentro al foglio e non spiccicare parola, perché solo così potrò scrivere senza vergogna tutto quello che è successo, solo così potrò azzerare per poi ricominciare daccapo… e allora ci stai a questo giochetto? ci stai a scancellarti da ogni dove? grazie gesù mio, schiodati dalla croce e scomparisci, per favore”.

Vorrei discutere insieme a voi e a Rosario Palazzolo di questo suo libro e – contestualmente – soffermarmi su un paio di requisiti essenziali (sebbene non unici) di ogni narrazione: il linguaggio e lo stile, da una parte; la trama, dall’altra.

E sarà questa la base di partenza della discussione parallela che accompagnerà quella sul libro…
Come sempre, al fine di incentivare il dibattito, provo a formulare alcune domande.

Nella “economia” di una storia che ruolo giocano linguaggio, stile e trama?

Tra linguaggio e stile (da una parte) e trama (dall’altra) – premesso che dovrebbero sempre amalgamarsi in maniera simbiotica e sinergica – chi riveste (o dovrebbe rivestire) il ruolo prevalente?

a) Linguaggio e stile sono a servizio della trama. b) La trama è condizionata da linguaggio e stile.
Quali, tra le suddette affermazioni, vi sembra la più condivisibile?

State per andare in vacanza e siete costretti a scegliere un libro da portare con voi, tra i due seguenti: il primo – secondo i vostri gusti – è dotato di stile e linguaggio sopraffini, ma ha una trama ridicola; il secondo ha una trama avvincente e ben strutturata, ma linguaggio e stile sono decisamente mediocri.
Quale libro portate con voi?

L’importanza che si attribuisce a linguaggio, stile e trama può variare a seconda del “genere letterario” di riferimento?

Spero che queste domande possano innescare una bella discussione (parallela, ripeto, a quella che riguarderà “Concetto al buio”).

Prima di chiudere, segnalo che avrò il piacere di presentare Rosario Palazzolo e questo suo libro nell’ambito dell’evento “Leggere fa male” organizzato da Alessandro Zannoni e che si svolgerà dal 21 al 23 luglio a Bocca di Magra (Porticciolo)… come meglio specificato nella locandina qui sotto.
Alessandro parteciperà alla discussione raccontandoci meglio i dettagli e la storia di questo evento letterario.

Massimo Maugeri

P.s. dato che Alessandro Zannoni è pure scrittore, avrò modo di aggiornare questo post con riferimento al suo nuovo romanzo “Imperfetto” (anche questo edito da Perdisa Pop). Ne parleremo nella seconda fase di questo dibattito.
(continua…)

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mercoledì, 16 giugno 2010

SCARLETT, di Barbara Baraldi

Sono molto lieto di accogliere qui a Letteratitudine la scrittrice Barbara Baraldi, coinvolgendola in questa nuova discussione. L’occasione la fornisce l’uscita del suo nuovo romanzo per i tipi di Mondadori: Scarlett.

Per capire di cosa parla il libro, vi rimando a questa scheda e alla recensione di Salvo Zappulla che trovate in fondo al post.

Scarlett ha sedici anni e si è appena trasferita a Siena, lasciandosi alle spalle l’estate, la sua migliore amica e un amore che stava per sbocciare… Nella nuova scuola conosce Umberto, che le fa subito la corte, ma Scarlett ha capito che la sua compagna di banco, Caterina, è segretamente innamorata di lui. Cosa scegliere: l’amore o l’amicizia? La risposta arriva al concerto della scuola, quando sul palco sale un ragazzo con gli occhi chiari come il ghiaccio che la cercano in mezzo alla folla. Mikael, il bassista dei Dead Stones, sembra allo stesso tempo attratto e respinto da lei, e Scarlett non può evitare di tuffarsi in quegli occhi magnetici. Ma Mikael è troppo bello e troppo strano per essere vero: solo Umberto sembra conoscere il suo segreto, ma non riesce a mettere in guardia Scarlett… Poi un omicidio inspiegabile, e Scarlett viene aggredita da una spaventosa ombra dagli occhi di fuoco. Chi è veramente Mikael? Il suo angelo salvatore o il demone che la tormenta?

Vorrei riprendere questo passaggio della scheda, per poi porvi alcune domande (e avviare una discussione parallela a quella sul romanzo): “Nella nuova scuola [Scarlett] conosce Umberto, che le fa subito la corte, ma Scarlett ha capito che la sua compagna di banco, Caterina, è segretamente innamorata di lui. Cosa scegliere: l’amore o l’amicizia?”

Ed ecco le domande…

Secondo voi, tra amore e amicizia… cosa sceglierebbero i sedicenni di oggi?

E quelli delle generazioni precedenti?

Il valore che i ragazzi di oggi danno a sentimenti come “amore” e “amicizia” è cambiato, o è rimasto immutato nel tempo? E se è cambiato… in cosa è cambiato?

A voi le risposte… (e consideratevi tutti invitati a interagire con Barbara Baraldi, ponendole anche domande sul suo libro).

Massimo Maugeri

(continua…)

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mercoledì, 9 giugno 2010

HO RUBATO LA PIOGGIA, di Elisa Ruotolo

Tra gli esordienti che meritano senz’altro di essere segnalati con convinzione, c’è Elisa Ruotolo.
Nata a Santa Maria a Vico (Ce) nel 1975 dove vive tuttora, laureata in Lettere Classiche, la Ruotolo – dopo aver pubblicato racconti in due antologie – approda in libreria con un suo libro pubblicato dalle edizioni Nottetempo, intitolato Ho rubato la pioggia.
Si tratta di una raccolta di tre racconti lunghi messi in scena con scrittura matura e di qualità… capace di tratteggiare in maniera convincente situazioni, luoghi e personaggi.

Ed ecco una breve presentazione di queste tre storie di provincia.

Nel primo racconto il figlio dell’allenatore di una squadra che perde sempre entra al posto del centravanti e la squadra comincia vincere. E vince tanto che cominciano a chiamarlo “Molto Leggenda”. L’osservatore di un club lo seleziona, ma nei campi di serie A il ragazzo si perde.

Il bambino è tornato a casa” racconta di due sorelle, una lenta e una veloce, che preparano conserve piccanti e sognano con le telenovelas sudamericane, e del nipote Matteo, che scompare a nove anni e forse un giorno ritorna.

Il ragazzino senza madre di “Guardami” abita con il padre e con Silvia, una ragazza che vive pulendo le case degli altri e nella loro si ferma. Cesare, l’amico di famiglia, si innamora di lei ma non riesce a dirlo. Il giovane narratore s’insinuerà in modo decisivo nello scambio silenzioso.

Vorrei concentrarmi sul primo racconto (poi, magari, ci soffermeremo sugli altri nel corso della discussione). Il protagonista, dunque, è un giovane calciatore di talento che comincia a riscuotere successo nei campi di calcio della provincia. Per lui la tifoseria locale conia il nome di “Molto leggenda” (che è il titolo del racconto, appunto). Ma non tutti i talenti sono uguali, e non tutti i talenti sono assoluti… capaci, cioè, di approdare al grande successo. Si ripropone, per certi versi, il tema affrontato dal romanzo di Salvatore Scalia, Fuori gioco. Ma se in quel caso le possibilità di affermarsi del giovane calciatore di provincia furono castrate da un ineluttabile problema di salute, nel caso di “Molto leggenda” la situazione è diversa: è il talento stesso che si mostra insufficiente per consentire il salto ai grandi palcoscenici del calcio nazionale.

Il tema centrale di questo racconto, a mio avviso, è quello del talento sopravvalutato e delle sue conseguenze.

Da qui, un paio di domande… come sempre poste nel tentativo di favorire la discussione.

Cosa accade (o rischia di accadere) quando ci si affida a un talento sopravvalutato?

Fino a che punto è giusto dare spazio al proprio talento? C’è un limite entro cui è meglio fermarsi da soli, o bisogna sempre attendere che siano la vita e gli eventi a sbarrare la strada?

La forza di volontà, può migliorare il talento… o può soltanto supportarlo?

Ed è più grande la delusione dell’insuccesso, o il rammarico di non averci provato?

Invito tutti voi a discutere di questo libro e dei temi proposti (con la partecipazione dell’autrice). Anzi, ne approfitto subito per presentarvi Elisa Ruotolo facendovi sentire la sua voce nell’ambito di questa intervista radiofonica rilasciata a Fahrenheit… mentre su Bookweb.tv potete anche vederla in video.

Massimo Maugeri

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giovedì, 3 giugno 2010

MANCA SEMPRE UNA PICCOLA COSA, di Alessandro Defilippi

Ho letto con particolare trasporto questo nuovo libro di Alessandro Defilippi, “Manca sempre una piccola cosa” (Einaudi): a mio avviso, uno dei migliori romanzi usciti negli ultimi mesi.
Il protagonista del libro, Giorgio Aguirre, è uno studente di medicina che non ha nessuna voglia di seguire le orme dei genitori (entrambi medici).
Giorgio vuole fare altro nella (e della) sua vita. E questo altro è in qualche modo legato a un “qualcosa in più” (una qualità?) che lo porta a diventare radiologo industriale in un’officina che produce fiancate per elicotteri. Questo “qualcosa in più” è una sorta di occhio assoluto capace di cogliere i difetti che nessun altro occhio umano sarebbe capace di individuare.
Ma fino a che punto questa caratteristica è “dono”? Non sarebbe meglio chiamarla, in qualche caso… “maledizione”?
Perché la facoltà percettiva di Giorgio va ben oltre il mero aspetto visivo… e talvolta diventa davvero scomodo gestire certe situazioni. E la capacità di individuare i difetti, ti si può anche ritorcere contro. Per questo, forse, Giorgio cerca di sfuggire a se stesso e agli altri andando in giro per il mondo, facendosi attraversare da relazioni amorose che – nella maggior parte dei casi – non gli lasciano addosso impronte tangibili.
Alle sue spalle, il Rospo: un uomo incontrato nel corso di un’esperienza lavorativa, che gli trasmette il mestiere e molto altro: una intera filosofia di vita. Il Rospo diventa l’amico per la pelle, una sorta di padre a cui fare riferimento, ma pure – a volte – un figlio da accudire… fino all’ultimo giorno.
Con una scrittura di alta qualità capace di inglobare efficacemente trama, personaggi e dialoghi – e che attraversa la Storia del nostro paese, dall’omicidio di Moro ai nostri giorni -, Defilippi narra una storia vibrante dove anche il possedere un “qualcosa in più” rischia di trasformarsi in inevitabile mancanza. Perché, alla fine, guardando dentro e fuori di noi bisogna forse rassegnarsi al fatto che manca sempre una piccola cosa.

Sono molto lieto di discutere di questo libro (e dei temi da esso trattati), approfittando della presenza e della disponibilità dell’autore (che vi presenterò meglio nell’ambito della discussione).

Per favorire la discussione provo, come sempre, a porre qualche domanda.

La precisione, la pignoleria, lo scrupolo… sono sempre pregi? Quand’è che rischiano di trasformarsi in difetti?

Dire a ogni costo “le cose come stanno”… è sempre utile?

Raccontare “verità scomode”, che rischiano di mettere in cattiva luce chi le proferisce, è sempre un dovere? Quand’è che – viceversa – il “tacere” può essere considerato una sorta di diritto a tutelare se stessi?

Sulla copertina del libro leggiamo questa frase: “Così si proteggeva dalla sofferenza, nell’unico modo che gli umani conoscono”.
Qual è – a vostro avviso – il modo (l’unico) che gli umani conoscono per proteggersi dalla sofferenza?

Vi invito a rispondere alle domande. Sull’ultima, Alessandro Defilippi ci fornirà la sua risposta alla fine della discussione.

Di seguito, la recensione del libro pubblicata su Tuttolibri e firmata da Lorenzo Mondo.

Massimo Maugeri
(continua…)

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lunedì, 10 maggio 2010

PADRI (SCRITTORI) e LIBRI: Valter Binaghi, Gianni Biondillo, Vito Bruno, Franz Krauspenhaar, Rosa Matteucci, Raul Montanari, Amedeo Romeo

padri-e-figliÈ un post a cui tengo particolarmente, questo… finalizzato ad avviare una discussione sul significato dell’essere padre, oggi; dell’essere marito (o partner); ma anche dell’essere scrittore (e/o artista). E ancora, sul rapporto tra padre e figlio (anche nel caso di genitori separati) e su quello tra uomo e donna all’interno del nucleo familiare.
Per farlo ho invitato sei scrittori che hanno pubblicato, di recente, romanzi… “in tema”. Si tratta (li elenco in ordine alfabetico di cognome) di: Valter Binaghi, Gianni Biondillo, Vito Bruno, Franz Krauspenhaar, Raul Montanari, Amedeo Romeo.
Avrò modo di presentarli nel corso della discussione.

Vi anticipo i tratti in comune che hanno i protagonisti di queste storie (in fondo al post troverete le schede dei rispettivi libri).

- Il protagonista del libro di Valter Binaghi si chiama Fausto Blangé: è uno scrittore che ha perso la moglie (morta suicida) e ha ucciso il suo ex analista.

- Luca, personaggio del libro di Gianni Biondillo, è un padre separato che deve fare i conti con la moglie che gli impedisce di vedere la figlia.

- Anche il protagonista del libro di Vito Bruno – un uomo che scrive a quella che sta per diventare la sua ex moglie – deve affrontare la terribile esperienza della separazione dal figlio.

- Il personaggio principale del romanzo di Franz Krauspenhaar è un anziano scrittore italiano di origine tedesca alla ricerca della moglie scomparsa. L’uomo teme che sia stata uccisa dal figlio.

- Danio è il protagonista del libro di Raul Montanari: fa lo psicologo, è separato e ha un figlio, nervoso come tutti i ventenni. Ha anche una giovane fidanzata, e un tremendo segreto: è un assassino… un assassino per caso.

- Andrea Morini, invece, personaggio del romanzo di Amedeo Romeo, è affascinato dalla maternità ma… ha il terrore di diventare padre.

Discuteremo, approfittando della presenza degli scrittori/ospiti, dei libri (introdotti di seguito), ma anche dei temi del post.

Pongo alcune domande volte a favorire la discussione (e ispirate dai romanzi oggetto di questa discussione).

1. Come è cambiato, oggi, l’essere padre?

2. In cosa, il padre di oggi, si differenzia nettamente da quello delle generazioni precedenti? Quali i pro e i contro di tali differenze?

3. Che cosa significa, oggi, “volere” un figlio?

4. Premesso che le principali vittime delle separazioni tra i coniugi sono quasi sempre i figli, tra il padre e la madre chi è che subisce – in genere – il trauma maggiore? E chi, in genere, tra i due presenta maggiori fragilità?

5. L’uomo contemporaneo rischia di rimanere vittima della corruzione del successo di più o di meno rispetto a qualche decennio fa? E il successo che corrompe colpisce di più l’uomo, il marito, il padre, lo scrittore (o – in maniera analoga – la donna, la moglie, la madre, la scrittrice)?

Contestualmente coglieremo l’occasione per discutere sulla legge relativa all’affidamento dei minori.

Mi daranno una mano a moderare la discussione: Simona Lo Iacono (che, nella veste di scrittrice e giurista, metterà a nostra disposizione le sue competenze per fornirci informazioni e chiarimenti sulla vigente normativa sull’affidamento dei minori nei casi di separazione dei genitori; in fondo al post troverete un suo articolo), Francesca Giulia Marone (nel ruolo di scrittrice, madre e figlia: mercoledì 12, h. 8.00, trovere un suo racconto pubblicato su La poesia e lo spirito) e Ausilio Bertoli (che – nel duplice ruolo di scrittore e psicosociologo della comunicazione e della devianza – ci fornirà spunti e chiarimenti di natura, appunto, psicologica; ne approfitto per segnalare questo libro). Ad affiancare Ausilio Bertoli, anch’egli nel duplice ruolo di scrittore e psicanalista: Salvo Montalbano (nulla a che vedere con Camilleri, come si evince da questa recensione al suo romanzo).

Di seguito, le schede dei sei romanzi.
Massimo Maugeri
(continua…)

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martedì, 4 maggio 2010

RECENSIONI INCROCIATE n. 11: Paolo Cacciolati, Achille Maccapani

Nuova puntata delle “recensioni incrociate” di Letteratitudine. Gli scrittori/ospiti coinvolti sono: Paolo Cacciolati e Achille Maccapani.

I libri oggetto delle recensioni sono: “Digestione del personale” di Paolo Cacciolati (Tea) e “Confessioni di un evirato cantore” di Achille Maccapani (Frilli).

Il romanzo di Maccapani è ambientato nella Venezia del 1791: il protagonista della storia è Luigi Marchesi, primo sopranista del Teatro alla Scala: un cantore… evirato.

Il romanzo di Cacciolati ha per protagonista Mirco Michichi: il consulente aziendale perfetto, quello che ha le conoscenze e gli agganci giusti, quello che ti fa avere i fondi per i corsi di formazione, quello che usa tutte le paroline magiche (missione vision, competitorse challenge).

Cosa accomuna i due libri, a prima vista così profondamente diversi?

Intanto la presenza di un omicidio, in entrambe le storie.
Ma non solo…

Vi riporto due “passaggi” delle recensioni incrociate.

Cacciolati sul romanzo di Maccapani, scrive: “La narrazione ha un ritmo veloce, attacca con Luigi Marchesi che nel pieno di un incontro amoroso deve fuggire dai sicari e commette un omicidio. Poi il risveglio notturno e la consapevolezza dell’amaro che gli ha lasciato quel sogno: una vita trascorsa a rincorrere obiettivi fatui. Così matura la decisione di parlare con Padre Francesco, un giovane prete di campagna ai confini tra il Naviglio e l’Adda. Instaurerà con lui un fitto dialogo, attraverso vari incontri. E’ lo stratagemma che permette al protagonista, e a noi con lui, di ripercorrere tutte le tappe della sua vita a dir poco movimentata”.

Maccapani sul libro di Cacciolati, scrive: “Ciò che emerge da tutto il romanzo è una visione tremendamente cruda, realistica, quasi rispondente ad un’esperienza vissuta fino alle viscere dall’autore, dove tutti i personaggi, con le loro piccole e grandi meschinità, rivelano dentro di sé una profonda solitudine e una desolazione senza limiti, nonostante l’immagine di facciata, il modo lavorativo di presentarsi sempre perfetto, l’autocontrollo sempre pronto, la forza d’animo che non viene mai meno, nonostante tutti i brainstorming, i tagli e i licenziamenti in arrivo, dipendenti in teoria sulle teorie di valutazione formativa, ma in realtà suggeriti dal commenda di turno”.

Ecco, allora, un altro possibile “tratto” in comune… entrambi i protagonisti, a un certo punto, si ritrovano davanti a se stessi. E quando l’uomo si mette davanti a se stesso emerge – spesso – il disagio, la necessità di ritrovare il senso dell’esistenza,  il dover fare i conti con i buchi neri delle proprie contraddizioni… il bisogno di “confessarsi”.

Leggendo le recensioni di Achille e Paolo, e pensando ai protagonisti dei loro libri, mi sono venute in mente le seguenti domande rispetto alla condizione umana…

Quali sono le differenze fondamentali tra un uomo che ha vissuto alla fine del 1700 e un uomo che vive agli albori del terzo millennio? (Mi riferisco a uomini vissuti, comunque, nell’Occidente).

Quali sono i vantaggi e gli svantaggi dell’uomo che vive in quegli anni, rispetto ai vantaggi e svantaggi dell’ uomo di oggi?

L’esigenza di affermarsi a tutti costi, di sopravvivere a sé e al mondo, è davvero cresciuta – oggi – rispetto ad allora? E fino a che punto?

E quella di ritrovare se stessi, il senso delle cose e della propria esistenza… fino a che punto è cambiata?

E poi, naturalmente, avremo modo di discutere in generale dei due libri approfittando della presenza degli autori.

E ora, le due recensioni incrociate…

Massimo Maugeri
(continua…)

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martedì, 27 aprile 2010

LA SPOSA GENTILE, di Lia Levi

Un banchiere ebreo, sposa una contadina cristiana…
Questa stringatissima frase, riportata quasi come una notizia, potrebbe rappresentare  il “nocciolo fondante” del nuovo ottimo romanzo di Lia Levi: “La sposa gentile” (edizioni e/o, 2010).
Naturalmente c’è molto altro…

Siamo agli inizi del Novecento e Amos, giovane banchiere ebreo di una cittadina piemontese, avverte l’esigenza di crearsi una solida famiglia su cui investire la propria esistenza. I suoi parenti, soprattutto le donne della famiglia, lo indirizzano verso alcune giovani che farebbero al caso suo. Ma i sentimenti non possono essere pilotati. Così, quando Amos incontra la bella Teresa decide di amarla senza tener conto delle differenze sociali e dell’appartenenza a religioni diverse. Perché Teresa – e torniamo alla frase iniziale del post – è una contadina cristiana.
Può, però, una famiglia ebraica, rispettabile, bene in vista… consentire a un proprio figlio di condividere la vita con una “sposa gentile”?
Il termine «gentile» ha, nella fattispecie, un duplice significato: il primo fa riferimento alla docilità della giovane – alla sua capacità di adattamento alle circostanze della vita – ; il secondo, nell’accezione ebraica, indica qualcuno che «appartiene a un altro popolo» (derivazione dal latino gens: «gente», «genti»).
Il termine «gentile», dunque, si «sposa» perfettamente con il personaggio Teresa, poiché la giovane contadina cristiana è dotata di una mitezza tale da indurla a “rinunciare” al proprio credo e ad abbracciare quello del suo uomo (proprio per evitare che questi subisca l’inevitabile ostracismo della comunità ebraica della famiglia di appartenenza). E nel farlo si allontanerà anche dai propri cari (Teresa non è solo cristiana: è anche una contadina… una ragazza dalle umili origini, dunque).
Ma fino a che punto è possibile scrollarsi di dosso le proprie origini? Fino a che punto la propria fede può essere addomesticata per assecondare le esigenze della persona con cui si è deciso di vivere?
Con la scrittura cristallina e suggestiva a cui ci ha abituati, Lia Levi tratteggia una storia famigliare che incrocia quella della prima parte del Novecento, rivelando alcune peculiarità del popolo ebraico e fermandosi alle soglie del 1938: l’anno delle leggi razziali fasciste.

Vorrei discutere con voi di questo nuovo libro di Lia Levi.

Ecco alcune domande, finalizzate ad avviare il dibattito…

Fino a che punto è possibile scrollarsi di dosso le proprie origini?

Fino a che punto la propria fede può essere addomesticata per assecondare le esigenze della persona con cui si è deciso di vivere? Ed è giusto farlo? È giusto rinunciare al proprio credo religioso (o metterlo da parte) per uniformarsi a quello dell’amato/a? E compiere tale rinuncia, è più un atto di debolezza o di coraggio?

E d’altra parte, l’appartenenza a religioni differenti può essere un ostacolo nello sviluppo del rapporto d’amore tra un uomo e una donna?

E l’eventuale nascita di figli? Che tipo di educazione bisognerebbe assicurare loro in casi del genere? Educazione laica? Educazione religiosa? E se sì, quale? Lasciare che crescano e scelgano da soli? E nel frattempo?

Quand’è che l’appartenenza a religioni differenti – in situazioni del genere – può essere occasione di crescita, anche collettiva?
O è solo causa di difficoltà?

L’appartenenza a “ceti sociali” diversi può essere ancora oggi causa di conflitti nella gestione di un rapporto amoroso? Oppure è un problema del tutto superato?

Il non sentirsi accettati dalla propria famiglia d’origine, è un “ostacolo” superabile o, viceversa, incide inevitabilmente nella vita di chi subisce tale situazione?

Di seguito, potrete leggere la bella recensione di Luigi La Rosa.

Ospite speciale del post: Zauberei (capirete perché). In coda, invece, troverete un video dove Lia Levi presenta il suo precedente romanzo, “L’amore mio non può” (e racconta qualcosa di lei e della sua vita).

Massimo Maugeri

Ne approfitto per segnalare che, giovedì 29 aprile, alle ore 17,30 – presso la libreria Cavallotto di Catania, sita in Corso Sicilia – Luigi La Rosa e io avremo il piacere di presentare il libro di Lia Levi protagonista di questo post. Parteciperà all’incontro, anche l’autrice. L’attrice Egle Doria leggerà alcuni brani del romanzo.

(continua…)

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venerdì, 16 aprile 2010

LA MARSIGLIA DI JEAN-CLAUDE IZZO, incontro con Stefania Nardini

Dieci anni fa – il 26 gennaio del 2000 – moriva Jean-Claude Izzo: noto scrittore e sceneggiatore francese.
Parlare di Izzo equivale – per certi versi – a parlare di Marsiglia, la sua città natale (dove vide la luce il 20 giugno 1945).

Ed è questo l’obiettivo della discussione che vi propongo: aprire una finestra su uno scrittore e sulla sua città (tutto il contrario di una città per turisti, perché la sua bellezza non si fotografa, si condivide). Lo spunto ce lo offre la nuova opera di Stefania Nardini, intitolata ”Jean Claude Izzo. Storia di un marsigliese” ed edita da Perdisa Pop nell’ambito della nuova collana diretta da Luigi Bernardi: Rumore Bianco.

Avremo senz’altro modo di discutere della trilogia che ha come protagonista il più noto personaggio letterario creato da Izzo: Fabio Montale (Casino totale, Chourmo, Solea); ma anche dei romanzi Marinai Perduti e Il sole dei morenti. “Cinque libri” – leggiamo nella scheda del saggio della Nardini – “che hanno conquistato migliaia di lettori in Francia e in molti paesi europei. Solo cinque libri perché Jean-Claude Izzo a 55 anni se ne è andato, lasciando un segno, non solo nella città a lui cara, Marsiglia, ma in tutti coloro che nei suoi testi hanno ritrovato sensazioni, emozioni, verità“.

Per narrare di Izzo, l’autrice di questo saggio ha trascorso un po’ di tempo a Marsiglia. Ecco cosa scrive nella nota finale al libro: “Andai a Marsiglia. Dovevo restarci due settimane. Ci sono rimasta quattro anni“. Ed è così che Marsiglia è diventata una delle “città elettive” di Stefania Nardini (l’altra è Napoli).

Alcune domande per favorire la discussione…

Conoscete Jean-Claude Izzo? Avete mai letto qualcosa di suo?

Qual è l’eredità principale che ha lasciato Izzo?

Che tipo di contributo ha dato, nell’ambito della narrativa europea e mondiale, la trilogia marsigliese che ha per protagonista Fabio Montale?

Avete mai avuto modo di visitare Marsiglia? Che ricordo ne conservate?

E quale città (diversa da quella dove siete nati) eleggereste a vostra “città elettiva”? E per quale ragione?

Vorrei approfittarne anche per invitare Luigi Bernardi a raccontarci del progetto editoriale Perdisa Pop (e delle varie collane che dirige).

Di seguito, la recensione firmata da Gordiano Lupi e l’articolo che Sandra Petrignani ha pubblicato sul quotidiano L’Unità.

Massimo Maugeri
(continua…)

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martedì, 30 marzo 2010

L’ARTE DI ANNACARSI, il viaggio in Sicilia di Roberto Alajmo

Ultimata la lettura de “L’arte di annacarsi. Un viaggio in Sicilia” (Laterza, 2010) ho pensato: credo che questo sia uno dei migliori libri (se non il migliore) di Roberto Alajmo. E di ottimi libri – tra romanzi e saggi – Alajmo ne ha già scritti parecchi. Ricordo: Un lenzuolo contro la mafia (1993); Repertorio dei pazzi della città di Palermo (1995); Almanacco siciliano delle morti presunte (1997); Notizia del disastro (2001, Premio Mondello); Cuore di madre (2003, Premio Selezione Campiello, finalista al Premio Strega); È stato il figlio (2005, Premio Super Vittorini e Super Comisso); La mossa del matto affogato (2008); Le ceneri di Pirandello (2008) e – sempre per Laterza – 1982, memorie di un giovane vecchio; Palermo è una cipolla.

Prima di accennare ai contenuti di questo volume, vorrei soffermarmi sul brano scelto come epigrafe. Si tratta di un testo estratto da “La luce e il lutto” di Gesualdo Bufalino, che recita così: «Dicono gli atlanti che la Sicilia è un’isola e sarà vero, gli atlanti sono libri d’onore. Si avrebbe però voglia di dubitarne, quando si pensa che al concetto di isola corrisponde solitamente un grumo compatto di razza e costumi, mentre qui è tutto mischiato, cangiante, contraddittorio, come nel più composito dei continenti. Vero è che le Sicilie sono tante, non finirò di contarle. Vi è la Sicilia verde del carrubo, quella bianca delle saline, quella gialla dello zolfo, quella bionda del miele, quella purpurea della lava. Vi è una Sicilia “babba”, cioè mite, fino a sembrare stupida; una Sicilia “sperta”, cioè furba, dedita alle più utilitarie pratiche della violenza e della frode. Vi è una Sicilia pigra, una frenetica; una che si estenua nell’angoscia della roba, una che recita la vita come un copione di carnevale. Una, infine, che si sporge da un crinale di vento in un accesso di abbagliato delirio…»

La citazione riportata in epigrafe finisce qui, anche se poi – subito dopo – , in “La luce e il lutto”, Bufalino fornisce una sua risposta alla domanda “Tante Sicilie, perché?”
Bufalino risponde così: «Perché la Sicilia ha avuto la sorte di ritrovarsi a far da cerniera nei secoli fra la grande cultura occidentale e le tentazioni del deserto e del sole, tra la ragione e la magia, le temperie del sentimento e le canicole della passione. Soffre, la Sicilia, di un eccesso d’identità, né so se sia un bene o sia un male.»
Un bene o un male, dunque? Chi lo sa? Forse Goethe aveva le idee un po’ più chiare, giacché ebbe modo di sostenere (come è noto): «L’Italia senza la Sicilia non lascia immagine nello spirito: soltanto qui è la chiave di tutto».
Certo, per credere che soltanto in Sicilia ci sia la chiave di tutto ci vuole molta immaginazione. Del resto, come sosteneva Sciascia: « L’intera Sicilia è una dimensione fantastica. Come si fa a viverci senza immaginazione? »
E di immaginazione, a volte, ce ne vuole tanta… come quella che mosse il sommo Dante per la scrittura della sua Commedia:

«E la bella Trinacria, che caliga
tra Pachino e Peloro, sopra ‘l golfo
che riceve da Euro maggior briga,
non per Tifeo ma per nascente solfo… »

(dal Paradiso, canto VIII)

(Magari vi chiederò quale preferite, tra le suddette citazioni… e magari potreste proporne altre).

Ma torniamo a “L’arte di annacarsi”. La prima domanda che il lettore (non siciliano) deve necessariamente porsi nell’affrontarne la lettura, è la seguente: cosa significa annacarsi?
In verità, per trovare la risposta non dovrà faticare molto; basterà girare il volume e leggere quanto scritto in quarta di copertina:
“Annacare/annacarsi = affrettarsi e tergiversare, allo stesso tempo. Un verbo intraducibile che significa una cosa e il suo contrario. Il massimo del movimento col minimo di spostamento”.

Un esempio calzante dell’arte di annacarsi – lo evidenzia lo stesso autore – è fornito nell’ambito delle feste religiose… dove Madonne, santi e canderole vengono portati in processione con un andamento danzante, ondeggiante, non necessariamente (e comunque non solo) in avanti, ma spesso di lato e senza disdegnare piccole retromarce. Forse si potrebbe dire che l’arte di annacarsi (per rimanere nell’ambito della metafora danzesca) è una sorta di sintesi tra una appariscente tarantella e il ballo della mattonella. Insomma, ciò che conta è produrre, appunto, il massimo del movimento, con il minimo di spostamento. In linea, peraltro, con la celebre frase de “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Ecco: il cambiamento immutevole è un ossimoro che è ben contratto nel termine “annacarsi”.

L’arte di annacarsi, dunque. Un titolo che sintetizza le apparenti contraddizioni e gli immobili mutamenti di una terra multiforme dove però è possibile trovare la chiave di tutto con un po’ di immaginazione: Marsala, Palermo, Ustica, Porto Palo, Favignana, Agrigento, Siracusa, Tindari, Catania, Gela, Taormina, Messina (sono solo alcune delle tappe di Alajmo). Un viaggio che si tramuta in racconto ironico e sferzante, ma che – in fin dei conti – ha sullo sfondo l’amore per questa terra: “un amore che si prova per una canaglia. Tu sai che è una canaglia, ma non puoi farci niente”.

Che il siciliano sia avvezzo all’ironia lo sosteneva anche Cicerone (in Verrem – Actio Secundae – Liber Quartus – De Praetura Siciliensi) : “Numquam est tam male Siculis, qui aliquis facete et commode dicant (Qualunque cosa possa accadere ai Siciliani, essi lo commenteranno con una battuta di spirito).
Ma l’ironia di Roberto Alajmo non si ferma alle classiche battute di spirito, o ai giochi di parole; essa – viceversa – si espande in ragionamenti volti a evidenziare paradossi, contraddizioni e situazioni ai limiti dell’inverosimile. È un’ironia intelligente e pessimista, quella di Alajmo; precisa e affilata come un bisturi, capace al tempo stesso di stigmatizzare facendo sorridere, lasciando tuttavia spazio alla speranza: “Ma esiste anche una parte di Palermo la cui coscienza non è ancora del tutto anestetizzata. Proprio quando tutto sembra annacquato e perduto, ecco che dal nulla, miracolosamente, la speranza rinasce. E a farla rinascere sono i pazzi. I famosi pazzi di Palermo. Quelli veri e quelli che vengono fatti passare per pazzi. Pazzo è colui che non si adegua allo stato delle cose, che non si lascia trascinare dalla corrente, che si rifiuta di portare coscienza e cervello all’ammasso. I talenti che nascono fuori dai circuiti convenzionali. I giovani che riescono ogni tanto a fare breccia nel deleterio scetticismo cittadino e a creare un movimento di opinione in grado di trasformarsi da un momento all’altro in autentica rivolta morale”. (cfr. pag. 30 – “L’arte di annacarsi” – Palermo. Teoria e tecniche dell’annacamento).

Non mi dilungo ulteriormente e vi rinvio alla bellissima recensione di Simona Lo Iacono (che ho coinvolto in questo post chiedendole di scrivere di questo libro e di darmi una mano a moderare e animare la discussione che ne seguirà). In chiusura del post… la prefazione del libro, gentilmente concessami dall’autore.

Per incentivare la discussione provo a porre qualche domanda:

- Ai siciliani (scrittori e non): vi ritrovate nell’arte di annacarsi? Ovvero… vi annacàte? E tra i due significati del termine, in quale vi ritrovate di più? (Questa domanda è finalizzata a sorridere un po’ insieme)

- Ai non siciliani che non hanno mai visitato l’isola: che percezione avete della Sicilia?

- Ai non siciliani che hanno visitato l’isola: la percezione che avevate della Sicilia, ha trovato riscontro nella vostra visita? Cos’è che vi ha colpito di più?

- La Sicilia rappresentata nei libri, nel cinema, nella televisione è rispondente alla realtà?

- Tra le citazioni sulla Sicilia (riportate sopra), quale vi sembra la più calzante? Ne avete altre da proporre?

Di seguito, l’articolo di Simona Lo Iacono e la prefazione del libro.

Massimo Maugeri
(continua…)

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lunedì, 1 marzo 2010

DIBATTITO SULLA LETTERATURA DEI VAMPIRI… E DI ALTRI ORRORI

Aggiorno questo post dedicato al dibattito sulla “letteratura dei vampiri” (che nel frattempo si è trasformato in dibattito sulla “letteratura dei vampiri… e di altri orrori“), inserendo il contributo alla discussione fornitomi da Sergio Altieri (in arte Alan D. Altieri): scrittore, traduttore e direttore editoriale delle collane Mondadori distribuite in edicola. Ne approfitto per ringraziarlo. Segue il post originario pubblicato il 1° marzo 2010.
Massimo Maugeri

* * *

Il (nuovo) giorno del vampiro
Alan D. Altieri

ovvero

Il fascino (indiscreto & eterno)
dell’immortalita’ malefica

* * *

sergio-altieriWhat the hell! Proprio quando ricominciavamo a sperare nella validità dei vecchi metodi. Ma sì, ya all know what I mean: anzitutto santo martello & saKro piKKetto. Più crocefissi assortiti, aglio a grappoli, acqua pura (really? we still got that?) a damigiane, specchi possibilmente non incrinati, etc etc etc. Insomma, tutta l’attrezzatura obbligata e obbligatoria del piccolo vampirista perfetto, tale da sbarazzarci di quegli invadenti salassatori.
Giusto?
Tutto sbagliato.
Guess what: della lista di cui sopra – e senza, almeno per ora, ricorrere agli strabilianti trucchetti post-techno degli ultimi tempi, tipo proiettili di luce & affini – non funziona più un accidenti di niente. Di certo non funziona più un accidenti di niente nel “nuovo giorno del vampiro”.
Difatti, chi non muore – e questi mai che tirino veramente cuoia – si rivede. Per cui una nuova, radiosa alba popolata da orde si sukkiasangue è sorta su questo nostro pianetucolo dolente in attesa del catartico, liberatorio 2012. E non è affatto detto che non siano proprio loro, i vampiri, a mettere la parola fine al nostro inquinato, sovrappopolato, tormentato destino di bipedi imperfetti ormai decisamente e miseramente slittati nell’(in)umano.
Discutibili facezie a parte – pressoché in ogni forma della comunicazione scritta e iconografica – l’intera mitologia vampirica sta vivendo una inedita (ennesima) eterna giovinezza.
Francamente, e passatemi la notazione personale, allo scrivente la cosa va alla grande. Leggendo da ragazzo l’immortale – in senso di capolavoro letterario – “Dracula” di Bram Stoker, nella fenomenale traduzione dell’ugualmente immortale Francesco Saba Sardi, mi schieravo tutto dalla parte del Principe delle Tenebre. Già eretico nell’adolescenza, quindi? Peggio: eretico, blasfemo, nonché politikamente scorrettissimo. E vi argomento anche perché:
- Dracula è solo, ma proprio solo, (R.M. Renfield non è nemmeno il suo garzone di bottega) in lotta per sopravvivere contro un intero universo: sopravvissuto suo malgrado a un passato di orrori, costretto a fare i conti con un amore disperato e impossibile, condannato a coesistere con la propria mostruosità endogena. Ditemi voi se non è questo IL vero eroe romantico di tutti i tempi, letteralmente…;
- gli avversari di Dracula sono l’orgia degli scornacchiati: abbiamo il moscio rimbecillito (Jonathan Harker), il mandriano da trivio (Quincey Morris), il demente tossico (Dr. Jack Seward), e, dulcis-in-fundo, il vittoriano scassapalle sessualmente frustrato (Abraham Van Helsing). Come on, guys, get a life… No, even better: get a death!;
- le ganze di Dracula sono il meglio sulla piazza: a partire dalle tre sexy vampirelle su nella nera fortezza dei Karpazi (okay, ladies, let’s rock!), per passare alla spumeggiante Lucy Westenra (ready to jugular, old boy!), chiudendo in bellezza con la delicata (ma non troppo) Mina Harker (just suck me dry, my Prince!).
Insomma, Dracula Forever.
A tutti gli effetti, il forever di cui sopra continua a funzionare. Ormai da quasi due secoli l’oscuro eppure tormentato, truculento eppure fascinoso, Conte Dracula – e pressoché tutte le sue incarnazioni/deviazioni/ rivisitazioni/approssimazioni successive – rimangono una dominante primaria dell’immaginario individuale e collettivo.
A parere dello scrivente, è il fascino inevitabile dell’immortalità.
Esatto: transitare attraverso lo spazio e il tempo senza tutte quelle menate mistico-messianiche stile Highlander, osservando e studiando, testimoni occulti dell’umana fallacità senza peraltro farne parte. Al di sopra di tutto e al di là di tutti. In sostanza, quanto di più vicino si riesca ad arrivare alla divinità. D’accordo, c’è un prezzo da pagare: no immagini riflesse, no luce del sole, no cenette gourmet (che non siano emoglobiniche), no un po’ di altre inutili frescacce della vita diurna. Ma in definitiva, what the hell, right?
Senza nemmeno osare di ripercorrere l’intera epopea dei vampiri dalla carta stampata, al grande & piccolo schermo, tutta la strada fino ai fumetti e ai videogame, lo scrivente si limiterà a tentare di analizzare i trend più recenti di un filone narrativo (inteso nel senso più lato possibile) che si è già guadagnato l’immortalità’:

vampiritrend #1) vampiri “classic”: non a volte ma sempre ritornano, un po’ come quel buon barolo invecchiato al punto giusto. Profetessa indiscussa di questa rivisitazione rimane la grande Ann Rice. Nei primi anni ’80, con il vampirismo erroneamente considerato materiale da biblioteca, il Lestat creato da Ann Rice – e la sua intera saga susseguente delle “Vampire Chronicles” – riporta in primo piano queste creature ambigue e minacciose, efemeriche e seducenti. In film, abbiamo la riuscita trasposizione di “Interview with the Vampire”, magistralmente diretta da Stephen Frears, seguita purtroppo della bufala – al di là della presenza della meravigliosa e compianta Aliyah – tratta da “Queen of the Damned”. In ogni caso, l’universo estetizzante e diabolico creato da Ann Rice rende tuttora in modo fenomenale. In questa direzione, il vampiro classico, non va dimenticata l’opera della valida narratrice Chelsea Quinn Yarbro con la sua saga del Conte Saint-Germain, pubblicata integralmente in Italia della eccellente casa editrice Gargoyle. Così come non va trascurata l’ultimissima incursione meta-vampirica a opera niente meno che del nipote del divino Bram. Ecco quindi “Dracula the Undead”, a firma Dacre Stoker & Jan Holt (Undead, gli Immortali, PiEmme, 2010), ottima resurrezione del “Divin Conte” quasi in salsa steampunk, con la partecipazione straordinaria di Jack the Ripper, la Contessa Batory e via smembrando.
Insomma, quei volti lividi e affilati, quelle marsine con svolazzante jabeau appena chiazzato di rosso, continuano a tirare al massimo dei giri… Oops, dei kanini;

trend #2) vampiri “stylè”: o anche “vampiri Prada”. Difatti: alti ma non eccessivi, belli ma non sbracati, palestrati ma non ipertrofici, eleganti ma non azzimati, seducenti ma non ambigui, insomma dalla loro le hanno proprio tutte, inclusa una millenaria società parallela nemmeno troppo sotterranea rispetto alla strafottuta società umana. Avete presente? Ma sì, sono loro: la gang cromaticamente virata all’azzurrino di “Underworld”. Ipnotico okkione glauco-livido modello Ice 9 (Kurt Vonnegut for President!), magnifici spolverini di cuoio liscio e abbastanza volume di fuoco full-automatic da livellare Manhattan.
Da un punto di vista visuale, quella del vampiro “stylè” è diventata una proposta dalla quale è ormai difficile discostarsi. Sarebbe un po’ come fare vedere astronavi a forma di sigaro con le grandi ali (pure pulp anni ’50) al posto delle maestosamente lente strutture ipercomplesse inaugurate da Stanley Kubruck (2001), portate poi all’estremo da Ridley Scott (Alien).
Dalla orgiastica e sanguinaria proposta botti & spari, sesso & krudeltà della serie “Anita Blake: Vampire Hunter” a firma della dura & pura Laurell Hamilton, passando per i new gothic “Southern Vampire Mysteries” di Sherrilyn Kanyon, fino alla primariamente romantica (addirittura “vegetariana”) ninna-nanna adolescenziale di “Twilight”, con l’abile Stephanie Mayer al timone, il vampiro “stylè” domina ampiamente la scena. Sarà quindi interessante osservare quale sarà la prossima evoluzione di questo trend. Come on, boys & girls, non potremo avere kanini in salsa Dolce&Gabbana e Moccia per sempre… o no?;

trend #3) vampiri “monstre”: qui si fa addirittura un passo evolutivo all’indietro rispetto a Dracula, eterno vate. Il vampiro mostruoso è solamente una belva infame assetata di sangue. Troppi dentoni e troppo poco cervello, brutto come una qualsiasi sessione parlamentare itaGLiana e aggressivo come l’ultimo cretino analfabeta appena espulso dalla casa/casino di “pikkolo fratello scemo”. Il vampiro “mostre” è buono per una sola cosa: essere fatto fuori, se possibile nel modo più orrido & splatter immaginabile.
Decisamente spostati sul “monstre” sono i puzzosi e fetidi vampiri di “Midnight Mass”, non indifferente ritorno letterario del sempre azzannante F. Paul (“The Keep”) Wilson, pubblicato in Italia parimenti da Gargoyle con il titolo di “Messa di mezzanotte”. Nella loro cannibalica invasione del mondo, i vampiri di Wilson sono molto più attirati dai sanguinacci trucidi che non dalle pulzelle. Beh, a opera degli umani che non mollano, mal gliene incoglierà: come get it, sucka!
Piccolo grande trionfo di come si affrontano i vampiri “mostre” rimane “30 days of night”, trasgressivo fumetto ideato da Steve Niles & Nigel Templesmith, diventato poi un inaspettato successo cinematografico da quasi ottanta milioni di dollari d’incassi diretto dall’abile David Slade. L’idea di base è tanto semplice quanto sinistra: Barrow, Alaska, l’ultimo avamposto civilizzato del Nord AmeriKa, è alle soglie di un intero mese di notte artica. Da chissà dove (citazione diretta della nave dei topi di Dracula) arriva un tetro cargo maledetto. Dal cargo maledetto sbarca l’orda dei vampiri “monstre”, a cui frega solamente di aprire carotidi. Welcome to Barrow, suckers! Mai realmente scadendo nel clichè ma dando ampio spazio al mattatoio, il lavoro di Slade è la quintessenza di tutti i claustrofobici film d’assedio, un “Precinct 13” con i sukkiasangue al posto dei gangstar (o degli sbirri marci). Eppure, c’è almeno un passaggio magistrale. Marlowe, un nome una garanzia letale – interpretato da un irriconoscibile Danny Houston, figlio del compianto maestro John Houston – sta per cibarsi dell’ennesima vittima implorante la grazia di dio. Quasi con rassegnata tristezza, Marlowe indica verso in cielo, scuote il capo: “No god”. Dopo di che, slurp! Insomma, finalmente anche all’inferno ci siamo accorti che dio è morto;

trend #4) vampiri “epidemic”: per i quali il vampirismo è generato da un virus (in senso lato). Tante zanne, ecchissenefrega delle ali da pipistrello, potenziale capacità di affrontare la luce solare. In sostanza, il “virus vampirico” muta, distorce e inghiotte l’umano.
Fino a oggi, un unico, straordinario precursore di questa inevitabile variazione sul tema: Richard Matheson con il suo capolavoro della SF apocalittica “I am legend”. Portato in film ben tre volte – “L’ultimo uomo della terra” (1964, diretto da Sidney Salkow) “The Omega Man” (1971, diretto da Boris Sagal), “I am Legend” (2008, diretto da Francis Lawrence) – “I am Legend” affronta con incredibile maestria tutte le paure dell’uomo: solitudine, vuoto, alienazione, distruzione, autodistruzione… Non una sola sfumatura dello spettro emotivo è lasciata fuori da questo prodigioso apologo del lato oscuro. Sono davvero vampiri, le creature di “I am Legend”, o sono forse la prossima evoluzione di una razza già estinta? Nel suo libro, Matheson si limita a suggerire una risposta, lasciando al lettore le scelta interpretativa cruciale.
Meno riusciti i film: troppo datato il primo, troppo patriottico il secondo, troppo incompiuto il terzo. Pur con il valido Will Smith protagonista in un inaspettato ruolo duramente drammatico, pur con una fenomenale prima metà nella New York svuotata e spettrale, il terzo “I am Legend” si affloscia nel finale, anzi nei due finali, area dove più la narrazione discosta dal testo di Matheson.
Per contro, quello dei vampiri “epidemic” è il trend che contende ai vampiri “stylè” la supremazia del genere. In questo senso, un contributo determinante – sia visuale che scritto – viene dal fuoriclasse Guillermo Del Toro, sceneggiatore e regista iberico ormai solidamente trapiantato a Holly-weird. Imbattibile artista delle creature insettiformi – straordinari gli effetti dal crepuscolare “Cronos” (1993) fino all’estetizzante “Il labirinto del fauno” (2006) passando per il feroce “Mimic” (1997) – Del Toro inserisce nel tema vampirico una sua personalissima svolta già in “Blade II” (2002). Sta sorgendo una razza di vampiri “infetti”, meglio sterminarli o… modificarli geneticamente in vista della irresistibile ascesa del prossimo vampire empire?
Temeraria tematica biochimica che Del Toro riprende letterariamente in “The Strain” – “La Progenie”, Mondadori, 2009 – primo volume di ambizioso progetto trilogico scritto a quattro mani con Chuck Hogan. Anche qui, il vampiro è l’untore principe di New York.
Per molti versi, il vampiro “epidemic” potrebbe essere la saldatura di contaminazione – oh, come on, THAT again? – con il genere zombi. Emblematici in questa sanguinaria terra di mezzo i due non indifferenti film “28”, giorni e settimane dopo. Quelle orde assatanate e urlanti sono zombi, sono vampiri, o sono qualcosa d’altro?

Well, qualsiasi cosa siano le creature di cui sopra, qualsiasi validità vogliate dare ai trend di cui sopra, almeno su un punto possiamo concordare. Eh, già, proprio come il rock & roll:

Vampire is here to stay, vampire will never die!

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Post del 1° marzo 2010

vampiroSono molto lieto di poter avviare questo dibattito sulla “letteratura dei vampiri”… [intendendo per letteratura dei vampiri quella che ha (e che ha avuto) come protagonisti il conte Dracula and friends...]
Per discutere di questo tema ho invitato alcuni ospiti speciali:
- Simonetta Santamaria (altresì nota con l’appellativo di Simonoir), scrittrice di romanzi horror, la quale ha di recente pubblicato un sanguigno saggio edito da Gremese e intitolato, appunto, “Vampiri. Da Dracula a Twilight
- Laura Costantini, scrittrice e giornalista, la quale ha dichiarato pubblicamente il suo amore per le storie di Stephanie Meyer
- Flavio Santi, autore del romanzo “L’ eterna notte dei Bosconero” (Rizzoli)
- Danilo Arona (autore, tra gli altri, del romanzo “L’estate di Montebuio”, nonché di un contributo sulla nuova edizione di “Io credo nei vampiri” di Emilio de’ Rossignoli), Gianfranco Manfredi (che – tra le altre cose – ha predisposto la bella antologia “Ultimi vampiri”) e Claudio Vergnani (autore di “Il diciottesimo vampiro”)… tutti e tre della scuderia Gargoyle.
Ho poi esteso l’invito a Paolo De Crescenzo (uno dei massimi conoscitori di cultura horror in Italia, nonché editore della Gargoyle), Franco Pezzini (uno dei più preparati tra gli intellettuali specializzati in “letteratura terrifica”).

Premesso che il dibattito è aperto a tutti… altri ospiti potranno essere “invitati” nel corso della discussione.

Di seguito leggerete: la recensione di Francesco Di Domenico al saggio “Vampiri” di Simonetta Santamaria, un articolo sul caso “Twilight” firmato da Laura Costantini, le schede dei libri di Flavio Santi, Danilo Arona, Gianfranco Manfredi e Claudio Vergnani, Franco Pezzini. Nel corso della discussione avrò modo di fornire ulteriori notizie sui suddetti romanzi e sugli ospiti invitati.

Per favorire la discussione ho pensato di porre le seguenti domande:

- Perché la figura del vampiro è così prepotentemente entrata a far parte nell’immaginario collettivo mondiale?

- Il sentimento suscitato dal vampiro è più vicino alla paura o al fascino? E perché?

- Che scarto esiste tra la figura storica del vampiro e quella “trasfigurata” nella fiction letteraria, cinematografica e fumettistica? L’esistenza di questo scarto (ammesso che ci sia) è nota? È importante che lo sia? Che percezione avete, in proposito?

- Cosa è cambiato nella “letteratura vampirica” (ammesso che qualcosa sia cambiato) da Bram Stoker a oggi?

- La letteratura italiana che si “occupa” dei vampiri è all’altezza di quella espressa in altre parti del mondo (quella anglosassone, per esempio)?

- C’è un pregiudizio, da parte dei lettori italiani, a favore dei romanzi sui vampiri di matrice angloamericana (e a svantaggio di quelli scritti in Italia)?

- Avete mai letto “Le notti di Salem” di Stephen King? Che posizione occupa, questo romanzo di King, nella storia della “letteratura vampirica”?

- A cosa è dovuto il successo planetario della saga Twilight della Meyer?

- Rispetto all’età dei lettori: il successo di Twilight è generalizzato o è più generazionale? Rispetto al sesso dei lettori: è un successo “di genere” o è indistinto? Che percezione avete, in proposito?

- In generale: l’horror può esercitare una funzione “esorcizzante” delle paure legate alla quotidianità e alla vita reale?

Altre domande potrebbero essere formulate nel corso della discussione che sarà più che mai improntata sullo scambio, sull’arricchimento reciproco e sulla interattività.

Massimo Maugeri

(continua…)

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giovedì, 28 gennaio 2010

DIBATTITO SU LETTERATURA E PIRATI: da Salgari ai nostri giorni

Sono molto lieto di poter avviare un nuovo dibattito letterario a largo respiro. Il tema che propongo è il seguente: “Letteratura e pirati (da Salgari ai nostri giorni)“.
La figura del pirata è entrata a far parte dell’immaginario collettivo da moltissimo tempo: ha invaso le pagine di romanzi e saggi, di film e serie Tv, di cartoni animati e opere musicali. Eppure ho l’impressione che, di recente, si sia sviluppato un interesse ancora maggiore, che dal cinema (valga come esempio “I pirati dei Caraibi” di Johnny Depp) si è riversato sulle pagine dei libri e altrove.
Diversi gli ospiti che parteciperanno a questa discussione. Intanto, Maria Lucia Riccioli (a cui chiedo di darmi una mano a coordinare e a moderare gli interventi) che ha scritto un articolo sui “pirati in letteratura”. E poi alcuni autori di saggi molto interessanti (che mi piacerebbe potessero discutere del tema in generale, parlarci dei loro libri e interagire tra loro):
- Nicolò Carnimeo, autore di “Nei mari dei pirati. I nuovi predoni degli oceani” (Longanesi)
- Giovanna Fiume, autrice di “Schiavitù mediterranee. Corsari, rinnegati e santi di età moderna” (Bruno Mondadori)
- Ignazio Cavarretta e Eletta Revelli, autori di “Pirati. Dalle origini ai giorni nostri, dai Caraibi alla Somalia” (Nutrimenti).
Di seguito troverete le schede dei tre volumi. Nel corso della discussione avrò modo di presentare gli autori e di fornire ulteriori contributi sulle loro opere.
In coda al post troverete un doppio articolo di Alberto Pezzini sui “nuovi romanzi dei pirati”, con riferimento alle recenti pubblicazioni di Michael Crichton, Valerio Evangelisti, Arturo Pérez–Reverte.

Per avviare il dibattito provo a formulare alcune domande (che potrebbero essere integrate e/o modificate nel corso della discussione).

Che tipo di rapporto avete con la “letteratura dei pirati”?

Qual è, a vostro avviso, il miglior romanzo sui pirati della storia della letteratura?

Di recente, c’è stato davvero un effettivo aumento di interesse per la “figura” del pirata? E se sì, per quale motivo?

La “figura” del pirata è stata eccessivamente “mitizzata”? C’è uno scollamento tra “fiction” e realtà? Che percezione avete in proposito?

Al di là dell’invenzione letterario-cinematografica… avete mai pensato di poter rimanere vittime di una reale “scorribanda piratesca”?

Che rapporto c’è tra storia e letteratura a proposito del fenomeno di cui ci stiamo occupando?

Che rapporto c’è (e c’è stato) tra pirateria e schiavitù?

Siete tutti invitati a partecipare.

Massimo Maugeri
(continua…)

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venerdì, 22 gennaio 2010

E SONO CRETA CHE MUTA di Mavie Parisi

“È da qui che intendo iniziare la mia storia. A proposito, mi chiamo Kita Narea, ed è l’estate del 2006. Fa talmente caldo che mi suda l’interno delle ginocchia ripiegate sui morbidi piedistalli di una di quelle strane e costose sedie ergonomiche importate dalla Svezia. Sono davanti al computer a raccontare i fatti miei più intimi a un tizio mai visto”.
Inizia così il romanzo desordio di Mavie Parisi intitolato “E sono creta che muta” (edito da Perrone Lab).
La protagonista si chiama Kita. Tre figli e un matrimonio alle spalle, forse con qualche rimpianto. Il mare, presto la mattina. Le sue tele e i suoi colori, lasciati lì, a riposare, forse per troppo tempo. E il bisogno di un incontro, di gesti e di parole. Per ritrovarsi, per ricominciare.
Il tema del libro è duplice e di grande attualità: da una parte quello dell’abbandono, dall’altra quello delle relazioni sentimentali nate via chat.
Vi invito a discutere di questo romanzo e dei temi a esso legato.

Come al solito pongo alcune domande con l’intento di favorire la discussione.

Nelle relazioni sentimentali l’abbandono, in qualunque forma si concretizzi, è sempre un trauma.
Esiste un antidoto o, comunque, una “strategia” per neutralizzarlo (o per lenire le conseguenti sofferenze)?

Il trauma si abbatte solamente sul soggetto che subisce l’abbandono, o non è forse la separazione un evento doloroso anche per chi ne è parte attiva?

È possibile dopo una relazione sentimentale di una certa importanza, che si spezza nel dolore e nell’indifferenza, ricostruire un rapporto sebbene su basi diverse?

Le relazioni nate in chat che possibilità hanno di dare esiti positivi? Sono una “opportunità” o un “ripiego”? E fino a che punto si riesce a essere davvero se stessi interagendo attraverso uno schermo e una tastiera? Quali i pro, e quali i contro?

Di seguito, la recensione di Maria Rita Pennisi.
Massimo Maugeri
(continua…)

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lunedì, 18 gennaio 2010

IL RITORNO DI STILOS

stilosSono particolarmente lieto di poter dedicare questo post a Stilos, noto magazine di libri e letteratura nato nel 1999 e diventato poi un quindicinale a diffusione nazionale. Dopo due anni di fermo, Stilos, ritorna in edicola. A dirigerlo sarà ancora il suo fondatore, Gianni Bonina, che ha trasformato il giornale in una rivista mensile di 148 pagine a colori e caratteristiche tecniche di alta qualità.
Mi piace sottolineare questa frase di Bonina: «in una stagione che ha segnato la chiusura di altre testate culturali e penalizza sempre più il mondo dei libri, Stilos vuole provare a dimostrare che, ovunque andrà, il mondo finirà sempre in un libro».
So che il ritorno in edicola di Stilos ha implicato (e implicherà) un grande sforzo economico. Ecco perché vi segnalo la possibilità di sottoscrivere un abbonamento al magazine (che peraltro comporta un risparmio sul prezzo di copertina).
Veniamo ai contenuti del magazine…
La compagine dei collaboratori è pressoché immutata (con i contributi fissi di Antonio Debenedetti, Andrea Di Consoli, Enzo Golino, Giuseppe Montesano…), ma l’interesse si è esteso anche, con rapide escursioni, a cinema, teatro, arti figurative e fumetti.
Ogni mese, inoltre, sarà scandito dall’appuntamento con le rubriche a tema libero di Benedetta Centovalli, Arnaldo Colasanti, Guido Conti, Andrea Cortellessa, Aurelio Grimaldi, Filippo La Porta, Giulio Mozzi, Sergio Pent, Silvio Perrella e Vanni Ronsisvalle.

Tra i vari collaboratori ci sarò anch’io. Nel primo numero troverete, infatti, una lunghissima e interessante intervista che mi ha rilasciato Melania G. Mazzucco sulla figura del pittore Tintoretto (in riferimento alla pubblicazione di questo suo romanzo e di questo suo saggio).
Tra le varie domande che ho posto a Melania, ci sono queste… che rivolgo anche a voi (con l’intento di avviare una discussione parallela a quella sulla rivista):

Esistono connessioni tra pittura e letteratura?

In cosa il pittore somiglia allo scrittore? E in cosa se ne differenzia nettamente?

A proposito, qualcuno di voi ha letto il romanzo “La lunga attesa dell’angelo” della Mazzucco (edito da Rizzoli)?

Una delle novità più rilevanti del ritorno in edicola di Stilos è la seguente: a ciascun numero sarà allegato un libro inedito in omaggio. Il primo sarà “Lo stivale di Garibaldi” di Andrea Camilleri, una gustosa parodia in dialetto siciliano di avvenimenti veri nella Sicilia postunitaria, illustrata da Piero Guccione.
Come in passato”, spiega una nota della società editrice, “Stilos intende privilegiare la letteratura e la nuova scena italiana, entro un impegno che auspichi il ritorno del libro al centro dell’interesse culturale e la sua riconsiderazione anche come strumento di impiego del tempo libero: contro le logiche del mercato, lo strapotere di televisione e telematica, le recrudescenze di tipo accademico, la riduzione dell’attività editoriale a fredda impresa speculativa”.
Credo che il ritorno in edicola di un magazine cartaceo di libri e letteratura meriti senz’altro di essere celebrato. Tanti in bocca al lupo a Stilos, dunque!

Massimo Maugeri

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AGGIORNAMENTO DEL 10 MARZO 2010: È USCITO IL N. 2 di STILOS

stilos-n-2Il numero di marzo di Stilos, il magazine culturale dedicato alla letteratura e alle arti, è in edicola con due omaggi: un testo inedito di Marcello Fois e una monografia su Leonardo Sciascia.

Stilos propone un testo teatrale di Fois per atto unico dal titolo Stanze. La pièce rappresenta il dramma di due sorelle che si ritrovano in una casa e fanno i conti con il loro passato. In un’intervista, inclusa nel libro, l’autore sardo ne spiega lo spirito surreale e intimistico.

Il supplemento di 32 pagine su Sciascia, il primo dei Quaderni di Stilos, raccoglie testi rari e dispersi nonché cinque lettere inedite a Gaspare Giudice (il biografo di Pirandello) più scritti dei maggiori studiosi di Sciascia, fra cui Claude Ambroise e Massimo Onofri.

La cover story del nuovo numero di Stilos è poi dedicata a tre esordienti under 30: Silvia Avallone con Acciaio (Rizzoli), Valentina Brunettin con I cani vanno avanti (Alet) e Paolo Piccirillo con Zoo col semaforo (Nutrimenti), che, da Nord a Sud, mettono sotto accusa il sistema sociale e la qualità della vita delle città in cui vivono. Completa il servizio sulla nuova scena un’intervista ad Alessandro D’Avenia, autore di Bianca come il latte, rossa come il sangue (Mondadori).

In anteprima anche un brano del prossimo romanzo di Dario Voltolini dal titolo Foravia, in uscita da Feltrinelli a maggio.

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AGGIORNAMENTO DEL 10 APRILE 2010: È USCITO IL N. 3 di STILOS

stilos-n-3Il numero di aprile di Stilos, il mensile dei libri, è in edicola con allegato un inedito di Giancarlo De Cataldo, il celebre autore di Romanzo criminale.

Non so che farmene degli angeli è il titolo del romanzo breve inedito dello scrittore-magistrato di origini tarantine e abbinato a Stilos. Si tratta di un testo scritto nel 2000 a quattro mani con la moglie Tiziana Pomes. «Ispirato da fatti veri, di persone vere», come afferma lo stesso autore in un’intervista al termine del volumetto, il romanzo è costituito da un diario incrociato di due bambini che osservano il mondo enigmatico degli adulti giudicandolo e intervenendo per cambiarlo.

Stilos dedica la cover story di aprile a Georges Minois, storico francese e uno dei massimi esperti in tema di religione. Minois è autore del saggio Il libro maledetto (Rizzoli, 2010) che ricostruisce la secolare vicenda del libro De tribus impostoribus (che tutti conoscono sin dal medioevo ma che nessuno ha mai letto) secondo il quale Mosè, Gesù e Maometto sarebbero stati degli impostori.

All’ambito religioso riportano le altre tre interviste: ad Armando Torno, editorialista del Corriere della Sera, autore de La scommessa; a Sandro Mayer, vicedirettore di Dipiù e direttore di Dipiù Tv e TvMia, autore de La grande storia di Gesù; a Vito Mancuso autore de La vita autentica.

Stilos dedica inoltre un dossier ai libri che sulla mafia sono apparsi in Italia tra il 2009 e il 2010. In un’intervista, Antonio Laudati, magistrato, coautore insieme a Elio Veltri del saggio Mafia pulita, sostiene che «la mafia ha cambiato volto. È quella dei colletti bianchi, del business e delle imprese. È diventata una regola dell’agire civile», afferma Laudati nell’intervista e conclude affermando che «può essere sconfitta solo col contributo di tutti». Vincenzo Ceruso, palermitano, nel suo saggio Il libro che la mafia non ti farebbe mai leggere racconta l’evolversi della nuova mafia.

Stilos è distribuito nelle librerie Feltrinelli e in edicola sempre al prezzo di 4 euro. È facilmente acquistabile sul sito www.stilos.it dove è anche possibile sottoscrivere un abbonamento.

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AGGIORNAMENTO DEL 10 MAGGIO 2010: È USCITO IL N. 4 di STILOS

Giorgio Bocca: “Italiani e cattolici fascisti inconsapevoli”
Su Stilos di maggio un’intervista al giornalista scrittore di Cuneo

stilos-n-4Roma,  maggio 2010. “Gli italiani sono dei fascisti inconsapevoli o fascisticamente tracotanti. Altro che popolo sovrano”. A dirlo è il celebre giornalista e scrittore Giorgio Bocca in un’intervista rilasciata al magazine culturale Stilos, in edicola e nelle librerie Feltrinelli da mercoledì 5 maggio.

Per Giorgio Bocca “il fascismo è nel Dna degli italiani, anche tra i cattolici”. È lo j’accuse che nel suo ultimo libro Annus horribilis (Feltrinelli) Bocca rivolge “non tanto a Berlusconi che ho conosciuto bene sin da quando lavoravo con lui, ma agli italiani”. Infatti secondo il giornalista “per noi italiani la politica, come la religione, come la giustizia, come tutto, significa sopravvivere usando furbizia e volubilità”.

Bocca nell’intervista ricorda poi il suo passato al Guf senza fare politica e la guerra partigiana che definisce “una grande illusione”.

E la cultura? “È terribile la debolezza intellettuale degli italiani. La voce della cultura in questi anni è stata flebile, a meno di considerare cultura la voce di Di Pietro che grida”.

Si segnala, altresì:

  • Un’intervista a Erri De Luca nel sessantesimo compleanno e nel momento di suo massimo successo in Italia
  • Interviste a Emanuele Trevi, Sebastiano Nata, Domenico Starnone, Giorgio Bocca, Gillo Dorfles, Paolo Nori Pieter Aspe, Dan Fante, Preeta Samarasan
  • Una ricerca sul Cenacolo di Leonardo dal quale risulta una nuova anagrafe del genio fiorentino
  • Uno speciale sui nuovi pamphlet
  • Un servizio sulle prime edizioni più ricercate e la classifica secondo le loro quotazioni
  • Le rubriche di Benedetta Centovalli, Arnaldo Colasanti, Andrea Cortellessa, Antonio Debenedetti, Cesare de Seta, Aurelio Grimaldi, Filippo La Porta, Giulio Mozzi, Sergio Pent, Silvio Perrella, Vanni Ronsisvalle

Stilos è distribuito nelle librerie Feltrinelli ed è disponibile in edicola dal 5 maggio al prezzo di 4 euro. È facilmente acquistabile sul sito www.stilos.it dove è anche possibile sottoscrivere un abbonamento.

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AGGIORNAMENTO DELL’8 GIUGNO 2010: È USCITO IL N. 5 di STILOS

cover-stilos-giugno-010Nel numero di giugno di Stilos:
Esclusivo: Roberto Saviano si racconta a Gianpaolo Mazza che è andato a trovarlo nella residenza segreta dove si trova.
«Per me la televisione è fondamentale perché mi ha protetto e mi protegge fisicamente» – e ancora – «il meccanismo di protezione militare lo devo alla mia esposizione mediatica altrimenti, in un paese come l’Italia, sarei ignorato» – dice Saviano – e poi aggiunge: «Non ho la spocchia degli intellettuali di considerare la televisione sterco del demonio».
Gli scrittori più amati, quelli che lo hanno formato, le letture preferite;  e poi gli hobby, la musica, il cinema, Lionel Messi, la personale visione del mondo: dal suo nascondiglio segreto, l’uomo più ricercato dalle mafie parla a un inviato di Stilos di se stesso, un giovane che sta diventando velocemente adulto e che, nelle ristrettezze delle sue condizioni, vive al massimo delle possibilità. Un uomo che ragiona sul suo stato, sulla sua “fortuna”, sugli invidiosi, gli amici e i nemici. E tra i primi figura senz’altro Vincenzo Consolo, che racconta per la prima volta come conobbe Saviano molto tempo prima di Gomorra, e di come finì per “adottarlo”.

In allegato alla rivista: un inedito di Enzo Siciliano.
A quattro anni esatti dalla morte dello scrittore, Stilos lo ricorda pubblicando un suo inedito dal titolo Tournée, gentilmente concesso dalla famiglia Siciliano: l’originale è andato perduto, tuttavia la famiglia ne conservava una fotocopia e Stilos ha provveduto a pubblicare il testo, rimanendo fedele all’autore e rispettando le correzioni indicate a penna sul dattiloscritto. Atto unico con due soli personaggi, una coppia di attori che lavorano poco recitando piccole parti e conducendo una vita di povertà e ristrette che esasperano la loro relazione, è stato scritto nel 1984 e mai pubblicato, ma nello stesso anno fu tuttavia portata in scena in occasione del “Festival del Partito repubblican” di Perugia.

Nella rivista segnaliamo inoltre:
Zanzotto: “La mia poesia” : a Pieve di Soligo, il paesino trevigiano dove vive,  Andrea Zanzotto il massimo poeta italiano vivente, ha ricevuto il nostro Fabio Pedone per parlargli del suo mondo, del suo ultimo libro Conglomerati e della sua poetica.
Francesco Alberoni: “L’amore al tempo dell’equivoco”: è perché immaginare le peripezia si una storia d’amore che alla fine si risolve in un epilogo felice per cui si possa dire che gli innamorati vissero “felici e contenti”? Perché non fare in modo che felici e contenti lo siano sin dal primo momento? Alberoni parla a Stilos delle strategie meno esplorate dei sentimenti
Mario Capanna: Rivoluzione ragionata : un libro per riflettere sul Sessantotto: da rifarsi, dice l’ideologo della contestazione, ma stavolta ragionando, senza più scendere in piazza o alzare barricate.

Stilos, il mensile dei libri, è distribuita in tutte le Librerie Feltrinelli, nelle Librerie della catena “La Nuova Editrice Librerie” in Abruzzo e ad Ascoli Piceno, nelle edicole del Gruppo Edicolè, nonché nelle principali edicole del centro di ogni capoluogo di provincia d’Italia.

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AGGIORNAMENTO DEL MESE DI LUGLIO 2010: È USCITO IL N. 6 di STILOS

stilos-cover-di-luglioIl numero di luglio di Stilos è in edicola e in libreria.

La cover story è dedicata a un’inchiesta sui centocinquanta anni dall’impresa dei mille: prendendo spunto dalla recente pubblicazione del libro “Terroni” del giornalista Pino Aprile, viene raccontato il lato oscuro dell’annessione del Meridione al Piemonte.

Nella rivista:
• una lunga intervista a Nicolai Lilin, che rivela a Stilos il suo punto di vista sulla guerra e sulla letteratura.
• Sebastiano Vasssalli e Giancarlo Carofiglio parlano dei loro ultimi libri.
• Giulio Ferroni critica il panorama culturale ed editoriale italiano e definisce la televisione oggi “cattiva letteratura”.
• Tzvetan Todorov e la lectio magistralis tenuta al Salone del libro di Torino.

Come ogni mese, il numero è arricchito da numerose recensioni e dalle rubriche di Benedetta Centovalli, Arnaldo Colasanti, Andrea Cortellessa, Antonio Debenedetti, Cesare de Vita, Aurelio Grimaldi, Filippo La Porta, Giulio Mozzi, Raffaele Nigro, Sergio Pent, Silvio Perrella, Vanni Ronsisvalle.
La sezione dedicata all’arte propone un’intervista di Andrea Caterini all’artista siciliano Piero Guccione; mentre le pagine dedicati ai fumetti e alla graphic novel curate da Sergio Rotino, presentano tra le altre cose, una recensione al romanzo grafico Groenlandia Manhattan (ispirato a una storia vera) della francese Chloé Cruchaudet.

Stilos è distribuita in tutte le Librerie Feltrinelli, nelle Librerie della catena “La Nuova Editrice Librerie” in Abruzzo e ad Ascoli Piceno, nelle edicole del Gruppo Edicolè, nonché nelle principali edicole del centro di ogni capoluogo di provincia d’Italia.
La rivista è ogni mese in edicola al costo di 4 € ma è possibile sottoscrivere l’abbonamento annuale per riceverla comodamente a casa, con tutti gli allegati e con notevole risparmio economico.

Si segnala anche il nuovo blog dedicato a Stilos.

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AGGIORNAMENTO DEL MESE DI AGOSTO 2010: È USCITO IL N. 7 di STILOS

stilos-6Dopo “Lo stivale di Garibaldi”, un secondo romanzo inedito di Andrea Camilleri, “Il palato assoluto”, metafora del primato della vita comune su quella di successo.
La storia di Caterino Zappalà, che diventa famoso e ricco grazie alla sua dote naturale di garantire la genuinità dei pasti, e dunque di decretare la fortuna o la rovina di un ristorante, e il sogno di avere una vita normale come vorrebbe la sua Annarosa. Un apologo in tono di fiaba e un paradosso sui valori che contano di più.
Ancora sul numero 7 di agosto due servizi di forte attualità: le reazioni in Italia alla morte di Saramago dopo l’attacco dell’Osservatore Romano, e le polemiche di ritorno sull’ultimo Premio Strega.
Sull’opera e la figura del Nobel portoghese, Stilos ha raccolto le opinioni di decine di scrittori e critici, verificando quanto anche in Italia i libri di Saramago dividano le coscienze.
Sul più importante trofeo letterario nazionale, oltre a una panoramica storica sul Premio e le sue particolarità, le interviste a due editori “interessati”: Stefano Mauri del Gruppo Mauri-Spagnol e Raffaello Avanzini di Newton & Compton. Accuse senza risparmio da entrambi: il primo parla di “squilibrio” nella scelte della giuria e il secondo di “giochi sporchi”.
Da segnalare ancora le interviste alla coppia che si cela sotto lo pseudonimo di Lars Kepler, l’ultimo fenomeno scandinavo, a Eugenio Scalfari, Pierluigi Battista, Antonio Calabrò, Stefano Bartezzaghi, Enrico Palandri, Marco Risi e Marco Baliani.
Stilos offre, in esclusiva, due racconti di altrettanti autori di successo: Federico Moccia e Loriano Macchiavelli. L’autore caro alle teen agers racconta di un suo viaggio a Tavolara per incontrare il re dell’isoletta sarda, mentre il pioniere della scuola bolognese del giallo testimonia la vicenda delle mondine del suo paese di cui narra l’epopea.
Inoltre, un appuntamento per gli amanti della letteratura classica: una ricognizione delle opere che negli ultimi tempi si sono occupate di Proust; e dunque un ritorno al genio europeo del primo novecento.
E ancora: recensioni, le rubriche dei maggiori critici e intellettuali italiani e le incursioni nel mondo dell’arte, del cinema, del fumetto e della musica.
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Fonte: comunicato stampa della redazione di Stilos

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È IN EDICOLA E IN LIBRERIA IL N. DI SETTEMBRE di STILOS

stilos-settembreIn questo numero:

Milano non è più la cap­i­tale ital­iana della cul­tura.

Lo dicono a Sti­los scrit­tori come Vin­cenzo Con­solo e Cor­rado Sta­jano, intel­let­tuali come Anto­nio Fran­chini, edi­tor quali Elis­a­betta Sgarbi e Valentina Fortichiari.
Ricorda Con­solo: “Quanti arrivai ebbi modo di fre­quentare Qua­si­modo, Mon­tale, Vit­torini. In quel peri­odo era davvero la cap­i­tale della cul­tura. Per questo decisi di trasferirmi”. Critico Sta­jano: “L’impressione è che gli edi­tori milanesi non abbiano più la pas­sione di un tempo e siano diven­tati dei con­tabili”. Fran­chini non vede molto romanzi ambi­en­tati a Milano: “ Roma, Napoli e il Nord-Est pos­sono vantare una mag­giore pre­senza di scrit­tori. Sono aree prob­lem­atiche. E le aree prob­lem­atiche pro­ducono più arte di quelle di rel­a­tivo benessere”.
Inter­ven­gono in questo spe­ciale ded­i­cato a Milano anche Daria Big­nardi e Piero Colaprico.

Alle­gato omag­gio al numero di set­tem­bre La vera sto­ria del papiro di Artemi­doro di Luciano Can­fora. Dopo mostre, libri, con­vegni e una svari­ata quan­tità di arti­coli di stampa, la decen­nale dis­puta filo­log­ica e arche­o­log­ica circa l’autenticità o meno del papiro si arric­chisce adesso di un nuovo capi­tolo, che nelle inten­zioni dell’autore è quello defin­i­tivo. Ricostru­endo l’intera vicenda, dal suo ritrova­mento in poi, Can­fora, suf­fra­gato anche dalle con­clu­sioni di una super­per­izia fotografica e dalla tes­ti­mo­ni­anza di un fun­zionario di polizia che ha svolto accu­rate indagini, e avval­en­dosi soprat­tutto delle ultime acqui­sizioni cui è per­venuto, apporta nuove argo­men­tazioni alla sua tesi, sec­ondo la quale si tratta di un falso: con­trari­a­mente all’opinione di insigni stu­diosi anche stranieri che ne sosten­gono l’autenticità.

La cover story di questo numero è ded­i­cata a un’inchiesta sugli e-book e al futuro dell’editoria con inter­viste a Bruce Ster­ling, Gino Roncaglia, Giuseppe Granieri ed Ettore Bian­cia­rdi, esperti e intel­let­tuali non tutti con­vinti che per il libro, come oggi lo con­cepi­amo, sia già stato into­nato il de pro­fundis. Il punto sulle ricerche, la situ­azione del mer­cato inter­nazionale e delle librerie, le prospet­tive dell’immediato futuro: la guerra tra e-book e libro è giunta all’ultima battaglia.

Il numero di set­tem­bre con­tiene inoltre inter­viste a Carlo Lucarelli, Gian­carlo De Cataldo, Gad Lerner, Marco Travaglio, Per Olov Enquist, Dmitry Glukhovsky e Luc Ferry.
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È IN EDICOLA E IN LIBRERIA IL NUMERO DI OTTOBRE di STILOS

cover_ottobre_stilosGli intellettuali italiani di fronte alla politica e alla società. Franco Ferrarotti e Mirella Serri discutono della loro condizione oggi. Per Ferrarrotti «ciò che distingue l’intellettuale italiano è la sua ambiguità che deriva dalla sua storia e dalla sua evoluzione». Per la Serri in Italia esiste sì il dissenso ma è frenato «da una forte tradizione di conformismo intellettuale determinato soprattutto dalla televisione lottizzata e dai giornali che non sono indipendenti».
Dopo il pronunciamento di Gheddafi a Roma, ci si chiede se gli autori islamici che pubblicano in Italia non facciano già da anni opera di indottrinamento. Rispondono Tahar Ben Jelloun e Khaled Fuad Allam. «Io ragiono, non voglio convertire nessuno» dice Allam.
Roma oggi. Bella e insipiente? Che ne è stato della dolce vita, del bar Rosati, del caffè Greco? Ne parlano Corrado Augias, Luca Canali, Ascanio Celestini, Roberto Cotroneo, Antonio Debenedetti, Giancarlo De Cataldo, Elido Fazi, Rosetta Loy e Valerio Magrelli.
Un saggio inedito in Italia di Lásló Földenyi, il filosofo ungherese che si interroga sullo stato della cultura oggi in Europa giungendo alla conclusione che è stata sostituita dall’informazione e dal mondo delle immagini.

Un dossier dedicato alla grande letteratura straniera sconosciuta in Italia o dimenticata: otto tra i migliori traduttori italiani parlano di autori e libri assolutamente da tradurre o ritradurre.

In anteprima su questo numero di Stilos: “Il bambino che sognava i cavalli” di Piano Nazio (ed. Sovera) dedicato a una storia che ha inorridito l’opinione pubblica: l’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo per mano della mafia con la più terribile delle esecuzioni: lo “scioglimento” nell’acido.
Pino Nazio, giornalista, inviato del programma di Raitre “Chi l’ha visto?”, da cronista di razza, ha ricostruito la vicenda grazie alla testimonianza del padre del bimbo, Santino Di Matteo e conduce il lettore in un mondo, quello di “cosa nostra”, in cui la legge della violenza miete vittime anche tra gli innocenti. Una docu-fiction, quella scritta da Nazio, in cui la realtà non conosce omissioni.

Inoltre:

Viaggio nel mondo dei cantautori italiani. Discutono Giorgio Conte, Eugenio Finardi, Federico Sirianni, Piji Siciliani, Gianmaria Testa e Mirco Menna.

Carlo Lucarelli parla a Stilos del suo brigadiere Leonardi, il personaggio da fumetto che torna dopo quasi vent’anni.

Ida Di Benedetto discute con Aurelio Grimaldi di cinema e attori. “Il più grande di tutti i tempi è Gian Maria Volontè”.

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È IN EDICOLA E IN LIBRERIA IL NUMERO DI NOVEMBRE di STILOS

copertina-stilos_novembreQuanto vale la letteratura oggi? E cos’è la letterarietà? E’ vero che un libro tanto è più letterario e tanto più difficile è piazzarlo sul mercato? Sergio Pent riflette su questi temi giungendo a conclusioni sconfortanti: la letteratura è diventata merce da supermercato e vale nel segno di quanto si è visto nella cerimonia di consegna del Campiello: Bruno Vespa che guarda e ammira la scollatura della Avallone. Ne parlano anche Luperini, Canali, Tesio e Manica, quattro critici di diversissima estrazione.
Le cronache continuano a sciorinare rivelazioni sul cosiddetto “patto” tra mafia e stato. Pochi sanno però che ancor più di Massimo Ciancimino, un ruolo centrale lo ha avuto un mafioso, Luigi Ilardo, che nel 1995 stette per consegnare Provenzano alla giustizia, ma gli apparati più enigmatici dello stato lo fermarono. La sua vicenda è ora raccontata in un libro, Il patto, scritto da Nicola Biondo e Sigfrido Ranucci che Stilos ha intervistato, che costituisce il più aggiornato libro sulla mafia dal Dopoguerra in poi.

Altri apparati, altri intrighi. Sono usciti in concomitanza due libri che riguardano il Vaticano: uno (di Perluigi Nuzzi), Vaticano S.p.A., di indagine interna, sostenuta dall’archivio segreto di un prelato che ha voluto rendere pubblici i retroscena dell’attività dello Ior; l’altro (di Corrado Augias), I segreti del Vaticano, di riscoperta esterna dei tanti fatti e misfatti che dentro il colonnato di San Pietro, sono diventati storia rovente. Stilos ha intervistato entrambi gli autori per fare nuova luce sulla Santa Sede.

Dopo Roma e Milano è la volta di Torino. La vecchia e nobile capitale italiana, oggi una città in formidabile crescita, viene passata a rassegna, nei suoi aspetti prevalentemente culturali, da nove torinesi Doc e di importazione, da Baricco a Barbero. Ne viene fuori l’immagine di una regina colta nel suo massimo fulgore ma incapace di osare e sognare.

Nel numero di novembre interviste a Pietro Citati sul suo Leopardi, a Scurati, Romagnoli, Rankin, Schlesak, Fuentes, Russo, Di Ruscio, Lattanzi, Bianchi, Cibrario, Zanetti.
E ancora le sezioni dedicate ai fumetti (con un’intervista a Joe Sacco), al cinema (con uno speciale su Valerio Zurlini), all’arte (con un’intervista ad Andrea Fogli , un articolo di Massimo Raffaeli su un quadro che ha amato e un altro di Giuseppe Montesano sulla fotografa scandalo Nan Goldin) e alla musica (con un articolo di Toi Bianca sulla presenza della musica nella narrativa di genere oggi).

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È IN EDICOLA E IN LIBRERIA IL NUMERO DI DICEMBRE di STILOS

stilos-dicembreNel numero di dicembre di Stilos Pupi Avati parla con Aurelio Grimaldi di cinema, ma anche di se stesso dicendo che da molti suoi insuccessi ha tratto ragion per film fortunati.
“Non ho mai chiesto fondi ministeriali – ha dichiarato – perché uno che ha fatto quaranta film non può chiedere l’aiuto dello stato ma deve farcela da solo. La libertà la perdo solo se il pubblico non mi segue. Il mio ultimo film, Una sconfinata giovinezza, è andato male. So bene che affrontava un tema doloroso, ma mi aspettavo molto di più, ed è stata per me una profonda sofferenza, una delusione. E ora, progettando il prossimo film, ho dovuto accantonare un progetto a me molto caro perché “troppo difficile”, e dopo questo insuccesso non me lo posso permettere. Nel cinema, come nella vita, la libertà te la devi conquistare da solo”.
Stilos propone anche interviste ad Andrea De Carlo, Alessandro Piperno, Eraldo Affinati, Gianrico Carofiglio, Raffaele Nigro, Sandro Veronesi, Diego De Silva, Bret Easton Ellis, John Burnside e Karl Ove Knausgard.
E inoltre servizi sui poeti italiani under 35, una tavola rotonda su Napoli, un reportage dal paese natale di Saramago, una conversazione tra Tracy Chevalier e Massimo Ortelio, il suo traduttore italiano.
E come sempre ampi servizi, articoli e recensioni di arte, cinema musica, teatro e fumetti.

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È IN EDICOLA E IN LIBRERIA IL NUMERO DI GENNAIO di STILOS

cover-stilos-gennaioNel numero di gennaio la cover story di Vincenzo Ruggiero Perrino è dedicata ai crolli di Pompei, e venti scrittori dicono la loro sullo vergogna della gestione dell’area archeologica.
Sette anni dopo essere stata eletta “capitale europea della cultura”, Mara Pardini chiede a illustri cittadini e estimatori di Genova cosa pensano della città e se quel riconoscimento sia stato davvero un’opportunità di crescita e sviluppo.
Il recente Nobel a Mario Llosa riporta l’attenzione sugli autori latinoamericani e li scopriamo molto cambiati.
Stilos propone anche interviste ad Giancarlo De Cataldo, Enrico Remmert, Amara Lakhous, Riccardo Iacona e Giampaolo Pansa, Brunonia Barry, Gerard Roero di Cortanze, Federico Rampini.
E come sempre ampi servizi, articoli e recensioni di arte, cinema musica, teatro e fumetti.

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lunedì, 11 gennaio 2010

LA RAGAZZA DI VIA MAQUEDA. Incontro con Dacia Maraini

Dacia Maraini torna a essere ospite di Letteratitudine (avevamo già avuto modo di incontrarla qui e qui).
L’occasione ce la fornisce la recente uscita di questa sua nuova opera letteraria: “La ragazza di via Maqueda” (Rizzoli, pp. 270, € 18,50).
Si tratta di una raccolta di racconti (alcuni già pubblicati su riviste e giornali, altri inediti) che compone una sorta di geografia dell’anima dell’autrice. Ci sono gli anni dell’adolescenza, qui. E quelli dei grandi incontri (Pasolini, la Callas, ovviamente Alberto Moravia). Ma è anche un libro che, mescolando la pura fiction con racconti della memoria, abbraccia i “luoghi per eccellenza” di Dacia Maraini: la Sicilia, Roma, l’Abruzzo.
Fornirò ulteriori informazioni nel corso della discussione.
Per il momento vorrei concentrarmi sul bel racconto che dà il titolo al volume (La ragazza di via Maqueda, appunto)… un racconto lungo ambientato a Palermo, una storia di denuncia che stigmatizza una sorta di doppio abuso, trattando due temi forti, duri: quello dello smaltimento illegale di sostanze radioattive e quello della prostituzione minorile. Il protagonista del racconto è un ingegnere palermitano, indicato con le sole iniziali: D.B.
Pur essendo un uomo onesto – e un buon padre di famiglia – finisce con il rivelarsi come un inetto, un debole. Per certi è una vittima del sistema. Una di quelle vittime, però, che non avendo la forza e il coraggio di ribellarsi finiscono, loro malgrado, per diventare parti del sistema stesso. Ingranaggi. Anelli della catena.
L’uomo si trova costretto ad apporre la propria firma su un foglio che – di fatto – (come avrà poi modo di scoprire) consente alla ditta per cui lavora di procedere allo smaltimento illegale (e occulto) di materiale radioattivo. L’ingegnere, all’inizio, tenta una timida protesta… che non sortisce alcun effetto. Poi si trova a vivere un conflitto che potrebbe sintetizzarsi nella seguente domanda: decidere di denunciare l’illecito (rischiando di perdere il posto di lavoro), oppure non reagire (ché in fondo lui stesso non è altro che una vittima)?
Mi fermo qui…
Sulla scorta di quanto accenato, provo a porre un paio di domande per favorire una discussione parallela a quella incentrata sul libro.

- La letteratura, oggi, ha ancora la forza e la capacità di denunciare, di stimolare le coscienze?

- Si diceva che il protagonista del primo racconto, in fondo, è un buon padre di famiglia a cui viene a mancare la forza e il coraggio di reagire a certe situazioni (anche se poi sfoga la propria frustrazione in maniera ulteriormente vergognosa e disdicevole)…
Oggi, il rischio di ritrovarsi (proprio malgrado) nello scomodo ruolo di “eroi” per perseguire il proprio “ordinario” senso di responsabilità… è più alto o più basso rispetto al passato?

Vi invito a intervenire e a porre domande a Dacia Maraini che parteciperà al dibattito.

Massimo Maugeri

Qui potete ascoltare l’intervista che Dacia ha rilasciato a Fahrenheit

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giovedì, 7 gennaio 2010

YOANI SÁNCHEZ e UNA TERRIBILE EREDITÁ

Rimetto in primo piano questo post dedicato alla blogger cubana Yoani Sánchez e – contestualmente – ne approfitto per presentare il nuovo romanzo di Gordiano Lupi (che è anche il traduttore del volume “Cuba libre” della Sánchez): “Una terribile eredità” (Perdisa Pop, 2009, p. 128, € 12).
Mi piacerebbe che Gordiano ci aggiornasse sulle condizioni di Yoani e che ci raccontasse qualcosa su questo suo nuovo libro (molti di voi ne avranno già sentito parlare… magari l’avranno anche letto). Anticipo che si tratta un romanzo a metà strada fra horror e reportage, che attinge a Cuba, ma anche alle inquietudini più profonde della natura umana.
La storia nasce nel cuore della guerra in Angola: i soldati cubani sono costretti a vivere un tormento assurdo e privo di logica, nel cuore di un’Africa selvaggia, tra mangiatori di scimmie, ritualità macabre e violenza efferata. Tra quei soldati c’è il protagonista del libro: un cittadino comune che si ritrova immerso in un incubo, mentre la moglie incinta lo aspetta a casa… all’Avana… insieme a un destino di follia. Un incubo che dura cinque anni, il suo (che tocca perfino l’esperienza del cannibalismo), e che si trasforma in un rinnovato incubo allorquando l’uomo torna a casa: la spersonalizzazione causata dalla guerra e le tragedie vissute, sommate alla crudeltà del regime, faranno di lui un disumano assassino.
Rimasto vedovo, l’uomo brancolerà tra le strade povere dell’Avana per dare la caccia alle vittime innocenti della sua mente devastata; eppure, paradossalmente, non verranno meno la sua sensibilità di base, l’amore per il figlio, il senso di colpa.
Una storia che si alterna tra macabro, follia, amore e morte in una terra che resta ancora da scoprire.

Questo libro di Gordiano offre vari spunti di riflessione. Uno di questi è quello della fragilità dell’uomo resa “estrema” di fronte alla guerra.
Per favorire un possibile dibattito, ho pensato di proporvi la seguente domanda: le devastazioni della guerra – a vostro avviso – agiscono più a livello collettivo o più a livello individuale? E con quali conseguenze?

Ne approfitto per evidenziare che “Una terribile eredità” è edito dalla piccola, ma prestigiosa, casa editrice Perdisa Pop nell’ambito della collana Walkie Talkie diretta da Luigi Bernardi. Il volume sarà presentato a ROMA, venerdì 15 gennaio 2010 – ore 16,30 – presso la SALA DEL CARROCCIO – CAMPIDOGLIO. Con Gordiano Lupi ci sarà Giovanni De Ficchy.

Vi ringrazio in anticipo per la partecipazione.
Segue il post originario dedicato a Yoani Sánchez.
Massimo Maugeri
(continua…)

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sabato, 19 dicembre 2009

UN SOGNO CHIAMATO AURORALIA

auroraliaA volte i sogni si realizzano. Non sempre, ma a volte sì.
Quello di cui discuteremo in questo post è il frutto di un sogno. Un sogno nato da un’immagine e da una grande immaginazione. L’autrice del sogno è Gaja Cenciarelli. L’immagine da cui il sogno è partito è una fotografia di Jerry Uelsmann: quella che vedete qui ritratta nella copertina.
Una donna nuda, in volo. Una donna volante.
Una foto molto evocativa, questa di Uelsmann. Gaja – grandissima estimatrice del celebre fotografo di Detroit – ne è rimasta colpita… e ha chiesto a un po’ di amici (io, tra questi) di condividere le impressioni e le emozioni suscitate dall’osservare questa immagine.
È nato così. In maniera semplice, casuale. Come accade per i sogni più belli. Perché Gaja non avrebbe mai pensato di ricevere così tante adesioni, né avrebbe osato sperare che Jerry Uelsmann in persona le scrivesse per complimentarsi… autorizzandola a utilizzare (gratuitamente) la foto per la pubblicazione del libro.
Sì, perché adesso quelle impressioni ed emozioni sono confluite in un libro edito dalla casa editrice Zona.
Per chi ama la letteratura un buon libro è sempre un sogno. È questo curato da Gaja Cenciarelli è un buon libro: dunque, è un sogno transitato da un sogno… a cui auguro la migliore delle fortune.

Ciò premesso, mi piacerebbe discutere di questo sogno e di questo libro con tutti voi e con la stessa Gaja Cenciarelli (che mi aiuterà ad animare e moderare questo post).
Gli autori coinvolti nel progetto sono invitati a partecipare al post per raccontare la loro esperienza.
E poi una proposta per tutti…
Guardate l’immagine della Donna Volante: che cosa vi evoca?
Vi invito a scrivere un testo (un microracconto o una poesia) sulla base della vostra impressione.

Di seguito, Gaja racconta la propria esperienza… rappresentata anche dall’ottimo book trailer realizzato da Monica Mazzitelli.
È la cronistoria di un sogno: un sogno chiamato Auroralia.

Massimo Maugeri

P.s. Il volume Auroralia sarà presentato sabato 19 dicembre 2009 ore 18.30, a Roma, al caffè libreria Flexi in via Clementina 9 – rione Monti

(continua…)

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lunedì, 14 dicembre 2009

LETTERATURA DI MADRI E FIGLIE: Sandra Petrignani, Dora Albanese

sandra-petrignani-dora-albanese

Il filo conduttore di questo post è il rapporto tra madre e figlia: uno dei più importanti tra quelli contemplati nell’ambito delle relazioni umane. Un rapporto non sempre facile, ma essenziale. Che muta nel tempo, ma che – alla fine (forse) – rimane sempre uguale.

Vorrei discuterne con voi insieme a due scrittrici (appartenenti a generazioni diverse) che hanno pubblicato – di recente – due testi di narrativa che, a mio avviso, sono collegati proprio dal tema che propongo in questa discussione: Sandra Petrignani (scrittrice notissima) e Dora Albanese (esordiente, ma già nota ai frequentatori di questo blog).

Introduco subito qualche domanda con l’intento di favorire la discussione:

Rispetto agli altri tipi di rapporti umani, cos’è che caratterizza quello tra madre e figlia?

È un rapporto basato più sulla complicità o sulla conflittualità?

Quali sono i rischi? E quali le opportunità?

Quali sono le fasi della vita (sia della madre, che della figlia) più delicate? Quelle che influenzano di più il loro modo di relazionarsi?

E come è cambiato il rapporto madre/figlia, in questi anni? Che differenza c’è – oggi – rispetto a venti, trenta, cinquant’anni fa?

Infine… che differenza c’è – a vostro avviso – tra il rapporto madre/figlia e quello madre/figlio?

I due libri protagonisti di questo post, in un modo o nell’altro, affrontano questo argomento.

Il libro di Sandra Petrignani è un romanzo intitolato  “Dolorose considerazioni del cuore” (edito da Nottetempo). Ecco la scheda…

Dal suo rifugio sotto le coperte, Tina racconta a Vittoria, amica amatissima, persa e ritrovata, i fatti, il disordine e i ricordi degli anni in cui una brusca rottura le ha tenute lontane. Nel tentativo di ricondurre a un unico, ricorrente malamore i tanti modi in cui ha amato, Tina recupera dai suoi cassetti brani di romanzi incompiuti e li annoda alla testimonianza di un presente insopportabile. L’assistenza a due genitori anziani, incattiviti da una relazione infelice, riporta in superficie le sofferenze infantili e permette di ricomporre gli indizi di un antico rifiuto. Si delinea così l’”autobiografia di una borderline” dalla caotica vita sentimentale, nella quale gli affetti vivono di strappi e tormentosi ritorni. Eppure il cielo resta alto sulle rovine e una ricomposizione è possibile.


Dora Albanese, invece, per i tipi di Hacca, ha pubblicato la raccolta di racconti “Non dire madre“…

Attraverso il topos della maternità, Dora Albanese racconta tre metamorfosi sociali e culturali del Sud postbellico: la dura maternità della Lucania “interna”, ancora legata a feroci e dolcissimi stili contadini; la frustrata maternità piccolo-borghese di una Matera “piana”, dimentica della superba e misera civiltà dei Sassi; e, infine, la maternità delle nuove generazioni, sospese tra “ritorni al passato”, fastidi per un benessere di facciata, e goffi e ostinati tentativi di abbracciare il mondo, magari attraverso un altro topos di questo libro, quello dell’emigrazione. In Non dire madre il tema della maternità e della femminilità è ossessivamente indagato e sviscerato con franchezza, senza abbellimenti estetici e senza indulgenze; anzi, le donne di questo libro sono sempre colte in un estremo momento di quotidianità scoperta, finanche di buffa sciatteria. A Dora Albanese interessa il trucco che si scioglie sul viso, l’odore immediato della carne e della placenta, la calata delle maschere, l’emergere impietoso delle paure, delle viltà, dei sentimenti più immediati, senza temere né la crudeltà né il sentimentalismo – dilagante attitudine, quest’ultima, di un Sud che, a furia di recitare, ha pure imparato a recitare i sentimenti.

Seguono due recensioni: la prima, firmata da Stefania Nardini, riguarda il romanzo di Sandra Petrignani; la seconda, di Gianfranco Franchi, è relativa alla raccolta di racconti di Dora Albanese.

(Spero che Stefania e Gianfranco abbiano la possibilità di partecipare al dibattito).

Siete tutti invitati a discutere dei due libri e dei temi proposti.

Massimo Maugeri

P.s. Potete ascoltare le interviste che le autrici protagoniste di questo post hanno rilasciato alla trasmissione Fahrenheit. Quella di Sandra Petrignani è qui… quella di Dora Albanese è qui. (continua…)

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domenica, 13 dicembre 2009

DIBATTITO SUL ROMANZO STORICO

dibattito-sul-romanzo-storicoImmagine 30 StoriaQuesto post, già avviato a partire dall’estate del 2009, si è progressivamente trasformato in un dibattito permanente sul romanzo storico.
Fino a questo momento hanno partecipato alla discussione i seguenti scrittori (li cito in ordine alfabetico): Andrea Ballarini, Rino Cammilleri, Giulio Castelli, Rita Charbonnier, Alfredo Colitto, Nicole Fabre, Andrea Frediani, Giulio Leoni, Giorgia Lepore, Simona Lo Iacono, Leda Melluso, Adriano Petta, Marco Salvador, Cinzia Tani, Jasmina Tešanović, Filippo Tuena.
Altri autori di romanzi storici, nel tempo, saranno invitati a partecipare.
Le domande poste per favorire la discussione sono le seguenti…

1. Quali caratteristiche dovrebbe necessariamente possedere il romanzo storico?

2. Quale dovrebbe essere la sua funzione?

3. Che cosa – viceversa – dovrebbe evitare?

4. Qual è, a vostro giudizio, lo stato di salute del romanzo storico, oggi, in Italia?

5. E nel resto del mondo?

6. Domanda-sondaggio: qual è il più grande romanzo storico di tutti tempi (quello che potrebbe essere eletto come “rappresentativo” del genere)?

La seconda parte del dibattito sul romanzo storico si è svolta in questo post.

Massimo Maugeri
(continua…)

Pubblicato in A A - I FORUM APERTI DI LETTERATITUDINE, EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI, SEGNALAZIONI E RECENSIONI   734 commenti »

martedì, 24 novembre 2009

IL SUD NELLA NUOVA NARRATIVA ITALIANA

Parliamo di letteratura, parliamo di Sud. L’occasione ce la fornisce questo interessante saggio di Daniela Carmosino (docente presso l’Università del Molise, editor e consulente editoriale) uscito di recente per i tipi di Donzelli con il titolo: “Uccidiamo la luna a Marechiaro. Il Sud nella nuova narrativa italiana”.
Ecco la scheda del libro:
Oggi che i problemi del Sud d’Italia sono temi di successo su cui puntano media ed editoria, viene da chiedersi: che ne è stato del riscatto sociale e culturale del Mezzogiorno che una quindicina d’anni fa pareva imminente? Questo volume è un ideale grido di battaglia “futurista” dei giovani scrittori – Saviano, De Silva, Parrella, Cilento, Cappelli, Pascale – che, a partire dagli anni novanta, hanno deciso di raccontare un Sud svincolato dagli stereotipi del paradiso turistico o dell’inferno senza redenzione, svincolato dalla pizza, dal mandolino e dal vittimismo. Un sud diverso, aggiornato al presente: il sud della nuova criminalità e della nuova borghesia, degli extracomunitari integrati e dei lavoratori precari. A metà tra il saggio e il reportage, la ricostruzione e il pamphlet, il testo esamina il fenomeno della rinascita della narrativa meridionale tanto auspicata negli anni novanta, e nel frattempo raccoglie dichiarazioni inedite, ragiona su contestazioni e polemiche e finisce per toccare questioni che oltrepassano i confini del sud. Sempre nel tentativo di ricostruire, al di là delle più immediate letture, un fenomeno tuttora fonte di dibattiti e capire il ruolo che può avere la letteratura nella comprensione e nella rappresentazione del sud di oggi.

Mi piacerebbe organizzare un dibattito su questo interessante volume ragionando insieme a voi sul “Sud nella nuova narrativa italiana” e sulle tematiche a esso connesse. Inoltre vorrei tentare di mettere “a confronto” Daniela Carmosino con alcuni degli scrittori citati nel suo saggio. Fino a questo momento ho avuto modo di contattare: Roberto Alajmo, Gaetano Cappelli, Antonella Cilento, Francesco Dezio, Giuseppe Montesano, Antonio Pascale, Livio Romano (i quali – compatibilmente con i loro impegni – cercheranno di prendere parte, più o meno direttamente, alla discussione).
Naturalmente sono invitati a partecipare al dibattito tutti gli altri amici scrittori, critici, giornalisti culturali, lettori, ecc.
Come al solito proverò a porre alcune domande al fine di favorire la discussione. Eccole: (continua…)

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sabato, 14 novembre 2009

IO TI PERDONO di Elisabetta Bucciarelli

Sono molto lieto di poter ospitare nuovamente Elisabetta Bucciarelli. L’occasione ce la fornisce l’uscita del suo nuovo romanzo: Io ti perdono (Kowalski). Un titolo bello, evocativo… che già da solo si presterebbe per un corposo dibattito.
Protagonista del libro, ancora una volta, è l’ispettore di polizia Maria Dolores Vergani (che molti di voi conosceranno per averla incontrata negli altri libri di Elisabetta).
Credo che la scrittura di Elisabetta, in questo libro, affondi come un coltello, fluisca rapida mettendosi al servizio della storia in maniera egregia.
Di seguito potrete leggere le recensioni di Paola Pioppi e Alessandra Buccheri (che saranno anche le co-moderatrici di questo post), vedere (e ascoltare) il booktrailer del libro, rispondere (con la pazienza che vi contraddistingue) alle mie solite domande…

Intanto, per capire meglio di cosa parla il libro… ecco la nota di copertina:
Risate, voci allegre ai confini di un bosco in montagna: cercano castagne. Un cagnolino scodinzola vicino alla piccola Arianna. Lei lo insegue nel labirinto degli alberi in una corsa malferma fino all’abbraccio di qualcuno. Scomparsa. Richiamata da un sacerdote che la conosce da quando era bambina, l’ispettore Maria Dolores Vergani torna in quel paesino della Val d’Aosta. L’uomo le chiede di aiutare la madre di Arianna in veste di psicologa, professione che non svolge più da tempo. Ma c’è anche dell’altro, che il prete non vuole o non può dire. Una leggenda antica, una richiesta di perdono, un senso di colpa che non trova pace. Intanto a Milano vengono rinvenuti in un’area industriale dismessa i resti di una donna e il collega Pietro Corsari la coinvolge, suo malgrado, in un’indagine ben oltre le mura della città, dove i milanesi sciamano per soddisfare desideri inveterati. In questo momento difficile, Maria Dolores può fidarsi solo di Achille Maria Funi, il suo aiuto, che la segue in missioni oltre la loro stretta competenza e che si rivela questa volta inaspettatamente sensibile e perspicace. L’ispettore Vergani si ritrova a fare i conti con l’amore, quello da cui non si può sfuggire e dal quale si vuole a tutti i costi scappare. E mai come ora Maria Dolores deve ripercorrere il proprio passato – un percorso che la porterà forse a diminuire la distanza di sicurezza fra sé e le persone della sua vita.

Come ho scritto prima, il titolo del romanzo – già da solo – si presterebbe per un bel dibattito. Così vi chiedo (come al solito con l’intento di favorire la discussione)…

Qual è il senso profondo del perdono?
Che rapporto c’è (se c’è) tra capacità di perdonare e capacità d’amare?
E tra perdono e fede?

Il perdono può essere considerato come un antitodo per contrastare il male?
La nostra, è una società che è capace di perdonare?
Fino a che punto è giusto perdonare?
C’è un limite oltre il quale il perdono può essere controproducente… o bisogna puntare a esso sempre e comunque?

Di seguito le recensioni di Paola e Alessandra… e due video. Ovviamente Elisabetta parteciperà alla discussione.

Massimo Maugeri

P.s. Qui potete ascoltare l’intervista che Elisabetta Bucciarelli ha rilasciato a Fahrenheit (continua…)

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lunedì, 2 novembre 2009

POZZOROMOLO E MERIDIANO ZERO. Incontro con Marco Vicentini e L.R. Carrino

È da tempo che seguo con interesse Meridiano Zero, la casa editrice condotta da Marco Vicentini. Ed è da tempo che mi riprometto di dedicare un post a uno dei suoi libri.
Così, quando qualche giorno fa ho ricevuto una mail dallo stesso Vicentini… ho colto, come si suol dire, la palla al balzo.
Nella mail, tra le altre cose, si parla di un libro in particolare. Un romanzo che, così mi scrive Marco, “tratta temi gravi e importanti, quello dell’identità sessuale e della malattia mentale, tramite la storia di un giovane travestito che è rinchiuso in un ospedale psichiatrico giudiziario ante-legge Basaglia, e li tratta con la sapienza e delicatezza del poeta che sa quando affondare la lama oppure accarezzare con il suo respiro”.
Poi Vicentini continua così: “Non sono un illuso, però. So benissimo che se nessuno ne parla, il libro può essere bello quanto si vuole, ma lo sapranno in pochi. Spero tanto che si riesca a innescare un passaparola che ritengo sarebbe uno dei più giustificati e ragionevoli della storia della letteratura degli ultimi anni”.
Ho promesso a Marco che avrei organizzato una discussione su Letteratitudine
Vorrei discutere con lui, e con voi, del progetto editoriale di Meridiano Zero. E dello stato di salute della piccola editoria.
E poi vorrei approfondire la conoscenza di questo libro grazie alla conpresenza dell’editore e dell’autore. Il titolo del romanzo è “Pozzoromolo”. L’autore si chiama Luigi Romolo Carrino (e si era già messo in evidenza con il precedente romanzo Acquastorta). Ho già avuto modo di leggere le prime cento pagine e sono rimasto colpito dalla scrittura nervosa, lirica e visionaria della voce narrante (organizzata seguendo una struttura diaristica). Una storia dura e poetica, al tempo stesso. Un incrocio tra amore e violenza, sogno e incubo.

Mi piacerebbe, inoltre, discutere sulle tematiche del libro… in particolare quella legata alla malattia mentale.

(continua…)

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lunedì, 26 ottobre 2009

CITTA’ PER LE STRADE. ROMA E ALTRI LUOGHI

citta-per-le-stradeParliamo di città… di città e di strade, di quartieri urbani e letteratura.
L’occasione ce la fornisce questo progetto lanciato dalla casa editrice AZIMUT, a cui ho aderito con piacere ed entusiasmo.
Come prima cosa ci tengo a evidenziare che Città per le strade è un progetto editoriale NO PROFIT: i proventi degli autori, dei curatori, degli agenti, e dell’editore saranno devoluti ad ospedali, associazioni, centri che si occupano dell’infanzia. Il progetto consiste in una serie di raccolte di racconti incentrate su alcune città e le loro strade… sui loro quartieri, sui loro luoghi. Una sorta di stradario, un “Tuttocittà” dei narratori… i quali non hanno alcuna limitazione espressiva se non quella di collocare la propria storia in un quartiere o in una via della città. Prende così corpo un mosaico di avventure e intrecci, di personaggi e situazioni: il tutto per creare la mappa di una città che va svelandosi nella sua topografia attraverso la fantasia di chi scrive.
E – proprio come nelle città nuovi quartieri vanno aggiungendosi a quelli antichi e conosciuti – anche nella collana Città per le strade, narratori esordienti si affiancano a nomi già affermati nel panorama letterario nazionale e internazionale.
Sono già stati pubblicati i volumi Milano per le strade, Napoli per le strade e un primo volume dedicato a Roma. (continua…)

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lunedì, 19 ottobre 2009

LETTERATURA E FUMETTI, LETTERATURA A FUMETTI

inferno_topolinoTempo fa avevamo già avuto modo di trattare il tema Letteratura e fumetti nell’ambito di questo post. Adesso mi piacerebbe approfondire ulteriormente l’argomento e creare, contestualmente, una sorta di  spazio permanente sulla suddetta tematica. L’occasione ce la forniscono una interessante pubblicazione di Annalisa StancanelliVittorini e i balloons (Bonanno) - e una rivista che ha a cuore sia i fumetti che la letteratura: Mono.
In fondo al post avrete modo di leggere un saggio firmato dalla Stancanelli (sul rapporto tra Elio Vittorini e i fumetti) e un articolo di Angelo Orlando Meloni su Mono (che privilegia il numero della rivista dedicato alla letteratura).
Uno spazio sempre aperto, dicevo, sul tema (e sul rapporto) letteratura/fumetti dove – periodicamente – inviterò alcuni ospiti a partecipare alla discussione. Annalisa Stancanelli e Angelo Orlando Meloni mi aiuteranno a moderare e animare questo post e a rendere lo “spazio permanente” sempre vivo.
Vi invito, dunque, a discutere sia su “Vittorini e i fumetti” e sulla rivista “Mono”, sia – più in generale – sull’argomento Letteratura e fumetti, letteratura a fumetti.
E ora… alcune domande, formulate nella speranza di favorire la discussione (vi invito a rispondere… se ne avete voglia, s’intende).

- L’arte del fumetto è inferiore, uguale o superiore a quella della letteratura?

- “I fumetti sono più per i ragazzi, la letteratura è più per gli adulti”. Questa frase è un luogo comune o nasconde un fondo di verità?

- Che rapporto avete con le “grapich novel” (romanzi a fumetti)?

- Cos’è che un romanzo a fumetti non potrà mai eguagliare in un classico romanzo? E, viceversa, cos’è che un romanzo tradizionale non potrà mai eguagliare in un romanzo a fumetti?

- Qual è il personaggio dei fumetti che preferite?

- In generale, lo “spessore” dei più grandi personaggi dei fumetti può essere paragonato a quello dei più grandi personaggi dei romanzi tradizionali?

Di seguito: il saggio di Annalisa Stancanelli e l’articolo di Angelo Orlando Meloni.

Massimo Maugeri
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venerdì, 2 ottobre 2009

ORONZO MACONDO

oronzo-macondoQuale rapporto c’è tra letteratura, linguaggio e nuovi media? A distanza di oltre 10 anni dall’esplosione del web, le nuove tecnologie hanno cambiato il modo di scrivere, di raccontare, di farsi leggere? Le speranze di rilancio della letteratura e della scrittura creativa che agli inizi degli anni ‘80 alcuni intellettuali avevano riposto in internet sono state disattese o si sono concretizzate in nuovi orizzonti? E come ha reagito a tutto questo il mercato? Quali sono le prospettive artistiche ed economiche di questo mondo?
ORONZO MACONDO” vuole porsi e porre queste ed altre domande in un week-end (dal 2 al 4 ottobre 2009) di incontri, dibattiti, workshop, approfondimenti sulla letteratura italiana contemporanea. Una residenza artistica per analizzare le nuove frontiere della cultura, le sue prospettive, i suoi successi, i suoi fallimenti, le illusioni. Scrittori, blogger, sociologi, studiosi e critici saranno ospiti del Salento in una sorta di grande fratello della comunicazione.
Ho avuto il privilegio di essere uno degli autori contattati. Oltre me, parteciperanno: Gianni Biondillo, Davide Borrelli, Girolamo De Michele, Carlo Formenti, Elisabetta Liguori, Giulio Mozzi, Paolo Nori, Antonio Pascale, Livio Romano, Michele Trecca, Giorgio Vasta, Dario Voltolini (qui l’elenco dei partecipanti; e qui il programma).
“Oronzo Macondo” è organizzato dall’omonima associazione culturale, vincitrice del concorso “Principi Attivi – Giovani idee per una Puglia migliore” promosso dalla Regione Puglia e dal Ministero per la Gioventù.
Vorrei provare a condurre, contestualmente, una discussione anche qui su Letteratitudine, partendo proprio dalle domande formulate da Oronzo Macondo riportate all’inizio del post.
Francesca Giulia Marone mi darà una mano a moderare il dibattito che (spero) possa svilupparsi anche qui.
Ne approfitto inoltre per presentare il libro di Rosa Maria Di NatalePotere di link. Scritture e letture dalla carta ai nuovi media” (Bonanno, 2009) – recensito, di seguito, da Salvo Mica – e per chiedere all’autrice il suo parere sull’argomento (e di raccontarci l’esperienza di scrittura di questo libro).
Massimo Maugeri
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lunedì, 28 settembre 2009

NEL CUORE CHE TI CERCA. Incontro con Paolo Di Stefano

Post del 28 luglio 2008 (con aggiornamento in coda)

paolo-di-stefano.jpgPaolo Di Stefano (nella foto), nato ad Avola – Siracusa – nel 1956, laureato con Cesare Segre all’Università di Pavia, ha debuttato nel giornalismo come responsabile del “Corriere del Ticino” di Lugano. Ha lavorato per l’Einaudi, e per il quotidiano “La Repubblica”. Attualmente è giornalista culturale del “Corriere della Sera”. Tra le sue opere, la raccolta di poesie Minuti contati (Scheiwiller 1990) e l’intervista con Giulio Einaudi Tutti i nostri mercoledì (Casagrande 2001). E poi, per Feltrinelli: La famiglia in bilico (2001), Tutti contenti (2003; Premio Chianti, Premio Vittorini, Premio Flaiano) e Aiutami tu (2005; Premio Mondello).
Sulle pagine web de “Il Corriere della Sera” gestisce il forum Leggere e scrivere.

Ho il piacere di ospitare Paolo Di Stefano qui a Letteratitudine per presentare il suo nuovo e ottimo romanzo (in lizza per il SuperCampiello 2008): Nel cuore che ti cerca (Rizzoli, 2008, pag. 296, euro 19), una storia struggente e coinvolgente; caratterizzata dalla presenza di più voci che si avvicendano alle due principali: quelle di un padre e di una figlia.
La figlia si chiama Rita ed è solo una bambina quando viene rapita da un maniaco che per ben otto anni riesce a tenerla segregata in condizione spesso disumane (per di più infliggendole terribili violenze fisiche e psicologiche). Il padre si chiama Toni Scaglione, ed è un uomo obeso che fa il giornalista in un giornale scandalistico.
Scaglione va alla ricerca della figlia. Non si rassegna al tempo che passa senza esiti, non si piega alla disperazione dei fallimenti; né alle beffe delle illusioni.
Infine la figlia viene ritrovata.
Ma è ancora Rita, la giovane che è sopravvissuta al pluriennale rapimento?
Vi chiedo di discutere del libro – interagendo con l’autore – e di riflettere sulla piaga dei sequestri (e sulle conseguenze che lasciano sulla pelle e nella mente delle vittime).
Le vittime di un rapimento (soprattutto quelle di un rapimento lungo e prolungato) potranno mai tornare a essere davvero se stesse?
Ritenete che, rispetto al reato di sequestro, i bambini di oggi siano più a rischio di quelli di ieri?
E i genitori? I genitori di oggi sono più “attenti? Più “guardinghi”?

Allargando il dibattito, e parlando di famiglia,… ha ragione Di Stefano nel sostenere (vedi intervista sotto) “ho come l’impressione che le famiglie sane tradizionalmente intese non esistano più”?

Qual è la vostra sensazione?

Di seguito avrete la possibilità di leggere gli approfondimenti di Salvo Zappulla: recensione del libro (pubblicata su La Sicilia del 12/7/08) e intervista all’autore.

Massimo Maugeri
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mercoledì, 16 settembre 2009

IL POSTO DI OGNUNO di Maurizio de Giovanni

In questi giorni sto leggendo “Il posto di ognuno” di Maurizio de Giovanni, il romanzo che ci presenta la nuova stagione letteraria del commissario Ricciardi. Avevamo già avuto modo di incontrare Ricciardi nelle altre due stagioni della sua vita libresca: l’inverno e la primavera.
Adesso, siamo in estate.

Ecco la scheda del libro:
“Napoli 1931. Le stagioni si susseguono incuranti del sangue e della morte e la città si prepara ad affrontare il caldo torrido dell’estate. Luigi Alfredo Ricciardi, commissario in forza alla Regia Questura di Napoli, affronta un nuovo caso di omicidio insieme all’inseparabile brigadiere Maione. Ricciardi è un commissario fuori dal comune, un solitario, uno che non ama eseguire gli ordini che gli vengono impartiti e di solito fa di testa sua. Non è ben visto dalla gerarchia fascista che lo controlla a distanza ma lo lascia lavorare, perché stranamente i casi li risolve tutti. In molti cominciano a sospettare che Ricciardi abbia un segreto, si dice parli direttamente con il Diavolo. In realtà Ricciardi si limita ad ascoltare le ultime parole dei morti: più che un dono, una condanna. L’estate del commissario Ricciardi vedrà la morte della bellissima duchessa di Camparino, una donna misteriosa dalla chiacchierata vita notturna. Anche stavolta saranno le ultime parole pronunciate dalla vittima a far partire l’indagine che condurrà il commissario, e noi lettori insieme a lui, a scoprire una Napoli riarsa e poco conosciuta, abitata da personaggi inquietanti che tenteranno di ostacolare il suo lavoro”.

Di seguito avrete la possibilità di leggere la recensione e l’intervista realizzate da Morena Fanti, che mi darà una mano ad animare e a moderare il dibattito.

Vi invito, come al solito, ad approfondire la conoscenza di questo libro approfittando della presenza dell’autore (che parteciperà alla discussione). Chi ha già letto il romanzo è, ovviamente, invitato a rilasciare il proprio parere.
Poi, come sempre, tenterò di avviare delle discussioni collaterali su alcuni dei temi affrontati dal libro; per farlo formulerò le mie solite domande. Le trovate di seguito.

[Domande ispirate dalla recensione]:
Per il commissario Ricciardi l’amore, quello vero, non vuole mai il male della persona amata: “(…) si dovrebbe riparare dal male l’oggetto del sentimento, anche se il male è proprio in chi si ama. Soprattutto se il male è in chi si ama. […] e quindi, nel suo caso, doveva mantenere Enrica lontana dalla sua maledizione, dal dolore selvaggio e terribile di cui era portatore”.
Cosa ne pensate? Siete d’accordo sul fatto che bisogna riparare dal male l’oggetto del sentimento, anche se il male è proprio in chi si ama?
E quando ciò non è possibile?
Bisognerebbe rinnegare l’amore, o continuare ad amare?

Che rapporto c’è tra amore e dolore? È un rapporto imprescindibile? Esiste amore senza dolore?

[Domande ispirate dall’intervista:]
Il duca di Camparino afferma che “Un uomo muore nel momento in cui non significa più niente per nessuno”.
È davvero così? Fino a che punto è vera questa frase? Fino a che punto è essenziale significare qualcosa per qualcuno?
E qual è il “posto di ognuno”?
Esiste “un posto”, per il quale siamo stati “predestinati” (e che magari ricerchiamo disperatamente)?
O è solo una pia illusione? Un luogo chimerico?

Di seguito, la recensione e l’intervista realizzate da Morena Fanti.
Massimo Maugeri

P.s. Se avete voglia di ascoltare la voce di Maurizio de Giovanni, vi consiglio di ascoltare l’intervista rilasciata a Fahrenheit (Radio Ra Tre).

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domenica, 2 agosto 2009

CELESTE AIDA di Marinella Fiume

Apro una nuova pagina della rubrica Letteratura è diritto, letteratura è vita che ho affidato a Simona Lo Iacono, presentando un romanzo forte, duro, per certi versi terribile – ma direi anche necessario – scritto da Marinella Fiume (nella foto in basso, all’epoca in cui era sindaco del Comune di Fiumefreddo di Sicilia). Si intitola Celeste Aida. Una storia siciliana” (Rubbettino, pagg. 136, euro 8). Una storia ambientata nell’anno 1933, XI dell’era fascista. Questi i fatti: “In un villaggio siciliano, un ventenne commerciante di vini uccide la cognatina di cinque anni seppellendola viva. La relazione adulterina con l’ancor giovane suocera e la paura che la bambina possa rivelarla al padre emigrato in America, induce i due amanti a liberarsi della scomoda testimone. Al processo, la difesa della donna ha buon gioco nell’affermare la non punibilità per il reato di adulterio, mancando la querela del coniuge offeso. Così, si condanna a morte il giovane “debosciato”, assolvendo la madre per insufficienza di prove anche dell’imputazione di procurato aborto, che il Codice Rocco punisce severamente, in quanto sovvertitore della famiglia e perciò, come l’adulterio, reato contro lo Stato.

Così come è riportato sulla scheda,”il romanzo ricostruisce la torbida vicenda familiare da cui scaturì l’esecuzione capitale attraverso i canti dei cantastorie, fonti orali e giornalistiche, atti giudiziari, che consentono di mettere a fuoco il contesto del dramma: il “disordine” della famiglia contadina siciliana e la politica familiare del fascismo. Squisitamente letterari sono, invece, l’impianto narrativo e il linguaggio: la storia di una bambina, segnata dalla diversità già nel nome e travolta dall’assurda banalità del male, comunica una profonda impressione anche per l’efficacia e la profondità con cui sono tratteggiati i personaggi che balzano vivi dalle pagine, uscendo dal coro che commenta ai margini.”

Il tema che vorrei affrontare, in parallelo con la discussione sul romanzo di Marinella, è quello della violenza ai minori e della imputazione della colpamettendo in relazione la colpa individuale con quella collettiva.
Nell’ambito della discussione interverranno “ospiti speciali” che avrò modo di presentare adeguatamente.
Ecco alcuni spunti e domande volti a favorire il dibattito…

1- La condanna di Giovanni appaga un’intera società, sebbene anche l’amante sia colpevole del delitto di procurato aborto (confessato ma da cui andrà assolta per carenza di prove). Che rapporto c’è tra colpa individuale e colpa collettiva?

2- Victor Frankl (1905-1997), medico e psichiatra, filosofo e psicoterapeuta, saggista e conferenziere di fama mondiale, fondatore della logoterapia, scampato ai lager nazisti diceva: “Signori e signore, vi prego in quest’ora di ricordare con me mio padre, che morì nel lager di Theresienstadt; mio fratello, che morì nel lager di Auschwitz; mia madre, che finì in una camera a gas di Auschwitz; e la mia prima moglie, che perse la vita nel lager di Bergen-Belsen. E tuttavia devo chiedervi di non aspettarvi da me una sola parola di odio. Chi mai dovrei odiare? Io conosco soltanto le vittime, non i carnefici, quantomeno non li conosco personalmente – e io rifiuto di dichiarare qualcuno collettivamente colpevole. Una colpa collettiva infatti non esiste, e io questo non lo dico oggi, l’ho detto fin dal primo giorno in cui fui liberato dal mio ultimo campo di concentramento” (Cit. in: Paola Giovetti, Victor Frankl. Vita e opere del fondatore della logoterapia, Edizioni Mediterranee, Roma, 2001, p. 54). Siete d’accordo? Esiste o non esiste una colpa collettiva?

3- La voce di Aida viene messa a tacere dalla violenza e dalla paura. Ma viene riportata in vita dalla poesia del cantastorie Orazio Strano e di Marinella Fiume. Che rapporto c’è tra violenza e poesia?
C’è una correlazione sanante e necessaria oppure, come si domandava il poeta tedesco Friedric Holderin: “A che (servono) i poeti in tempo di povertà?”

Di seguito, la bella recensione di Simona Lo Iacono, che mi darà una mano ad animare e coordinare la discussione.
Massimo Maugeri
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Pubblicato in LETTERATURA È DIRITTO... È VITA (a cura di Simona Lo Iacono), SEGNALAZIONI E RECENSIONI   192 commenti »

lunedì, 20 luglio 2009

LE CERE DI BARACOA di Davide Barilli

Conosco Davide Barilli dai tempi di Musica per lo Zar.
Non so se qualcuno l’ha mai fatto prima, ma osservando la foto che vedete qui sulla sinistra ho appena deciso di ribattezzare Barilli come il Tom Selleck della letteratura italiana.
Ciò premesso (e tornando seri) bisogna dire che Barilli è un ottimo romanziere dalla penna raffinata (uno di quelli che, già leggendo le prime pagine dei suoi libri, capisci subito che sa scrivere Storie con la esse maiuscola e ama la letteratura); fa parte della redazione della «Gazzetta di Parma» (si occupa di cronaca giudiziaria e della pagina culturale) e per la sua attività di giornalista ha vinto la prima edizione del Premio «Egisto Corradi». Oltre al già citato Musica per lo zar ha pubblicato il romanzo La fascia del turco e alcuni libri di racconti, Poltrona per acqua, La casa sul torrente e Piombo e argento.
Ho deciso di invitare Davide Barilli qui a Letteratitudine per approfondire la conoscenza del suo nuovo romanzo “Le cere di Baracoa” (Mursia, 2009, € 17).
Riporto il testo che trovate sulla bandella laterale del libro.
Novembre 1944. Durante una rappresaglia scoppia un incendio in una cereria della Bassa Padana. Muoiono due ragazzi: i fratelli Gabbi. Per oltre mezzo secolo Celso, il fratello maggiore emigrato in Centro America, cova la vendetta che, al suo ritorno, sfocia in un omicidio.
Risucchiato dalle leggende di un uomo dal sangue zingaro e incuriosito da una vecchia cartolina in bianco e nero, un misterioso narratore ripercorre la vita dell’assassino per inseguire un delitto privo di enigmi investigativi, ma ricco di misteri.
Dai nebbiosi argini del Po comincia un avvincente viaggio in una Cuba inedita, lontana dai luoghi comuni del turismo di massa, un peregrinare durante il quale il protagonista incontra le ombre, spesso appena accennate, di personaggi realmente esistiti: dal campione di scacchi cubano Capablanca a un inedito e immaginario Italo Calvino bambino, da Errol Flynn a Magdalena Rovieskuya, la cantante lirica russa che scappò dalla rivoluzione dei bolscevichi per gestire un hotel nell’antica città di Baracoa; ma anche Gino Donè Paro, l’ex partigiano veneto che sbarcò sull’isola con Fidel Castro per liberarla dalla dittatura di Batista. E poi il bicicletero Barroso, il tapizero Orlando e tanti altri anomali personaggi che affollano le assolate strade cubane.

“Le cere di Baracoa” (lo sto leggendo in questi giorni) è un romanzo avvincente, ben scritto, ambientato in una Cuba diversa da quella “solita”. Ma è anche un romanzo che tocca diverse tematiche: c’è il tema della vendetta, quello della ricerca, quello del viaggio… e quello degli incontri.
E proprio rispetto a quest’ultimo mi piacerebbe aprire una discussione parallela.
Provo a porvi un paio di domande…

Cosa rimane degli incontri che facciamo nel corso della vita… durante il nostro peregrinare… nei nostri viaggi?

Quando e perché un incontro – piuttosto che un altro – riesce a incidere nelle nostre esistenze?

Davide Barilli parteciperà alla discussione.
Di seguito vi propongo la recensione di Giovanni Tesio, apparsa su Tuttolibri di sabato scorso e l’articolo – in esclusiva per Letteratitudine – di Francesca Giulia Marone (che mi darà una mano a animare il dibattito)
Massimo Maugeri

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lunedì, 6 luglio 2009

L’ESTATE CHE PERDEMMO DIO, di Rosella Postorino

lestate-che-perdemmo-dioChe vuol dire avere colpa, quando sono proprio le tue radici la causa del tuo male, ed è così difficile liberarsene?

Qual è il confine tra colpa e innocenza?

Sono queste alcune delle domande che aleggiano sulle pagine del nuovo romanzo di Rosella Postorino, giovane scrittrice già segnalatasi con il precedente “La stanza di sopra” (Neri Pozza, 2007) molto apprezzato dalla critica e vincitore del Premio Rapallo Carige Opera Prima.
Questo nuovo libro si intitola “L’estate che perdemmo Dio” (Einaudi, € 19, p. 230). Un titolo forte, accompagnato da un incipit graffiante. Una frase urlata che segna l’inizio di un’irreversibile tragedia familiare.
I temi affrontati sono quelli dell’esilio e della forza dei sentimenti. L’esilio di chi è dovuto fuggire dalle spire ferali della ‘ndrangheta; i sentimenti di chi prova a reinventarsi dentro e fuori di sé per continuare a vivere.
Comincia tutto con quella frase: “Chi focu chi ‘ndi vinni”. Caterina aveva otto anni quando la zia la pronunciò. Adesso ne ha dodici, ma quelle parole le sono rimaste addosso. Parole di sciagura. Solo che certe sciagure non possono essere combattute. Bisogna andarsene, scappare; ché la ‘ndrangheta uccide. Quattro, i fuggiaschi verso l’Altitalia: Salvatore, il padre; Laura, la madre; Caterina, la figlia maggiore; Margherita, la piú piccola. Quattro esseri umani costretti a voltare le spalle alle proprie radici e a cercare salvezza e libertà in luoghi distanti, che non sono i loro. Ma poi Salvatore deve tornare indietro. E nella vicenda si aprono nuovi squarci.
La Postorino consegna una storia dura, dolente; resa al lettore con stile sferzante e linguaggio fluviale, dal quale emerge la “voce” di una ragazzina che è dovuta crescere troppo in fretta.
Nonostante la giovanissima età, Caterina percepisce il peso delle proprie origini; ne sente quasi il marchio sulla pelle. Eppure non si rassegna: «Piú di tutti, di tutti quanti loro, di tutta la loro famiglia messa assieme, piú di chiunque altro, Caterina lo ha preteso. Il diritto di essere felice. Loro no, non ci avevano mai pensato. Come se la felicità includesse anche un prezzo da pagare, un prezzo raddoppiato, lì dove è nato il padre si vive nel solco di una disgrazia sempre in agguato, non per paura, non per senso di minaccia, per fatalismo piuttosto, non si è altro che pedine nelle mani di Dio, non si può osare chiedere di piú, non si può scegliere».
Vorrei approfondire la conoscenza di questo libro insieme a voi e all’autrice (che parteciperà al dibattito). E contestualmente vorrei discutere dei temi che esso tratta.
Per favorire la discussione, come al solito, tento di porre qualche domanda ripartendo da quelle che hanno aperto il post:

Che vuol dire avere colpa, quando sono proprio le tue radici la causa del tuo male, ed è così difficile liberarsene?

Qual è il confine tra colpa e innocenza?

E poi… fino a che punto è possibile liberarsi delle proprie radici, pur essendo radici malefiche?

Viceversa… è sempre giusto mantenere saldi i legami con la propria famiglia, a prescindere da tutto?

Che tipo di responsabilità ha la società (se c’è l’ha) nei confronti dei bambini appartenenti a famiglie legate alla criminalità organizzata?

Per una ragazzina che vive una situazione simile a quella della protagonista di questo romanzo è davvero possibile raggiungere la felicità? E in che modo?

Di seguito, la recensione di Sergio Pent apparsa su Tuttolibri de La Stampa.

Massimo Maugeri
(continua…)

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lunedì, 29 giugno 2009

LE DUE RAGAZZE CON GLI OCCHI VERDI, di Giorgio Montefoschi

In questi giorni sto leggendo “Le due ragazze dagli occhi verdi” (Rizzoli, 2009), il nuovo romanzo di Giorgio Montefoschi: uno dei principali scrittori italiani (con La casa del padre – 1994 - ha vinto il Premio Strega).

La vicenda narrata nel romanzo si snoda in un arco temporale molto ampio che abbraccia tre generazioni e può essere suddiviso in più fasi che provo a semplificare qui di seguito.

1956: la prima fase è incentrata sul rapporto tra un bambino (Pietro) e suo Nonno (Cesare). Pietro è il personaggio principale del libro.

1966: Pietro, a 22 anni, incontra Laura: la prima ragazza dagli occhi verdi. I due si innamorano, ma – a un certo punto – Laura rifiuta l’amore di Pietro considerandolo – forse – troppo invasivo… possessivo.

1988: Passano vent’anni…
Laura è sposata con figli. Pietro la ritrova e si innamora di nuovo di lei (o forse è meglio dire che non ha mai smesso di amarla). Tra i due scoppia una nuova passione, che però ha vita breve.

Passano altri dieci anni. Maria – la seconda ragazza con gli occhi verdi – incrocia la vita di Pietro. Giovane e bella, è identica a Laura (si scoprirà che ne è la figlia)… e Pietro si accorge che la ragazza si sta innamorando di lui.

Quella narrata in questo libro è una grande storia d’amore… un amore anticonvenzionale, che tenta di superarare gli ostacoli, il tempo, i tradimenti.

Per farvi capire meglio la trama inserisco la nota presente in quarta di copertina del romanzo:
L’eros, inteso come attrazione dei corpi e dell’anima che non conosce regole e confini, è il grande protagonista di questo romanzo, che a molti potrà parere inverosimile e invece è custode di una profonda verità. Pietro e Laura si sono amati da ragazzi. Poi, lei lo ha lasciato. Si rivedono, casualmente, dopo vent’anni, e di nuovo scoppia una passione travolgente. Ma Pietro è un uomo solo, Laura è sposata e madre di due figli. La vita è andata troppo avanti per il loro amore: in pochi mesi, i sensi di colpa e un evento drammatico chiudono definitivamente la vicenda. Dieci anni più tardi, Maria, la figlia maggiore di Laura, incontra Pietro: anche lei casualmente. È identica a sua madre: ha la sua voce, i suoi occhi. Presto consapevole che la ragazza si sta innamorando di lui, Pietro è sconvolto: diviso tra la tenerezza che Maria gli ispira e la nostalgia per la perdita dell’unica donna che ha amato, da cui non è mai riuscito a liberarsi. È un dissidio profondo, in cui ancora una volta il senso della colpa fronteggia la tentazione.
“Le due ragazze con gli occhi verdi” racconta un amore straordinario, capace di superare ogni limite, nel tempo e fuori del tempo, che ha sullo sfondo il complesso mondo di una famiglia borghese nell’arco di tre generazioni. Ambientato in una Roma splendida, da cogliere in tutti i sensi, il romanzo è sostenuto dalla raffinata scrittura di un impareggiabile scrutatore dell’animo umano qual è Giorgio Montefoschi, che con queste pagine sembra volerci dire che credere fino in fondo nell’amore è oggi l’unica vera rivoluzione. Che la fedeltà è ormai la sola trasgressione possibile
.

Ciò premesso…
mi piacerebbe approfondire con voi la conoscenza di questo libro, discutendo dei temi da esso affrontati. Inviterò Giorgio Montefoschi a partecipare al dibattito. Per favorirlo, come al solito, pongo alcune domande…

La prima parte del libro (ambientata nel 1956) affronta il tema del rapporto nonno-nipote (ovvero, l’amore di un bambino per un nonno e di un nonno per un bambino).
Oggi – trascorsi oltre cinquant’anni da quella data – il rapporto nonno-nipote è cambiato o, in fondo, è rimasto uguale? E se è cambiato… è cambiato in meglio, o in peggio?

Un’altro dei temi che affronta il libro è: la relazione tra tempo, amore e “contrasti”.

Quali sono le condizioni ideali perché un amore possa durare nel tempo?

Un amore “contrastato” -  seppur travolgente – ha maggiori o minori possibilità di rimanere vivido (anche solo nella mente), rispetto a un amore privo di ostacoli?

Gli amori che sopravvivono agli ostacoli, al tempo, alle imboscate della vita… sono ancora credibili, o solo il frutto di una romantica illusione?

Di seguito potrete leggere la recensione di Antonio Debenedetti pubblicata sul Corriere della sera.

Massimo Maugeri
(continua…)

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lunedì, 22 giugno 2009

TU NON DICI PAROLE di Simona Lo Iacono

premio-vittorini-20091Conobbi Simona Lo Iacono nel 2006 in una libreria, a Catania, nel corso della presentazione di un volume (io ero tra i relatori). In quell’occasione ebbi modo di accennare alla mia esperienza letteraria on line su Letteratitudine (che era appena nato). Finita la presentazione Simona mi si avvicinò e mi chiese l’indirizzo del blog, affermando di essere molto interessata da questa esperienza.
In verità non intervenne subito. Passarono mesi. Credo che il suo primo commento letteratitudiniano sia datato 26 settembre 2007. Vi riporto uno stralcio: “la letteratura è solo quella dei libri? Non è spesso aria, desiderio, pensiero non ancora incarnato? Non è anche eco di versi? E che differenza fa se questi versi prendono forma in musica o nella voce di un altro poeta? A volte la poesia rinasce dalla stessa poesia, e la narrazione da un suono. Tutto, nell’arte, può convivere con tutto, purchè le combinazioni non turbino l’armonia, la bellezza, l’etica del linguaggio“.
Tutto, nell’arte, può convivere con tutto. E – in effetti -, da quel giorno, l’arte di Simona cominciò a convivere anche con questo blog.
I suoi commenti si fecero sempre più frequenti… e interessanti.
Una delle prime cose che subito mi colpì fu la sua tendenza a miscelare in maniera mirabile diritto e letteratura… la sua esperienza di magistrato, con quella di scrittrice. Per tale ragione il primo post che le affidai fu questo dedicato al romanzo “In una lingua che non so più dire” di Tea Ranno (era il 19 novembre del 2007). Il protagonista di quella storia era un magistrato. Pensai: chi meglio di lei?
Il post ebbe grande successo. Nel frattempo continuò a scrivere commenti su commenti… dai quali venivan fuori la sua abilità di scrittrice frammista alla sua esperienza di giurista.
A un certo punto ebbi un’intuizione, determinata anche dalla lettura della bozza del suo primo romanzo “Delle parole e delle sue figliolerie” (rispetto al quale mi permisi di darle qualche consiglio… compreso quello di cambiare il titolo).
E capii…
Le dissi: “secondo me devi portare avanti una nuova poetica, capace di mettere insieme diritto e letteratura; parola e processo”. Fu per questo che le proposi di condurre, su questo blog, una rubrica intitolata Letteratura è diritto, letteratura è vita (era il 10 luglio del 2008).
(E le dissi che, secondo me, avrebbe dovuto cercare di approfondire questa “poetica” anche con i libri futuri).
Il 29 luglio del 2008 parlai di lei sulla pagina Cultura del quotidiano Il Mattino, all’interno di un articolo sulla letteratura siciliana (l’articolo fu poi ripubblicato su Carmilla on line)… dove la presentai come una scommessa.
Ecco. Credo che l’attribuzione del Premio Vittorini 2009 – sezione Opera prima – a “Tu non dici parole”, sancisca la vincita di questa scommessa.
Di seguito troverete il post originario… e tre video tratti dalla presentazione catanese di questo romanzo.
Il mio piccolo omaggio a una scrittrice che è cresciuta insieme a questo blog e che è destinata a raggiungere traguardi sempre più importanti.
Auguri, Simona!

Massimo Maugeri

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POST DEL 21 GENNAIO 2009

tu-non-dici-parole.JPGParliamo di un romanzo ambientato in Sicilia, a Bronte, nel 1638… ai tempi dell’Inquisizione.
Non tutti sanno che l’Inquisizione siciliana nacque sotto forma di… balzello. In effetti fu formalmente introdotta intorno al 1224 dall’imperatore Federico II, quando dispose che tutti gli eretici e gli Ebrei dovessero pagare una tassa a suffragio degli inquisitori di fede preposti al loro controllo.
Il 6 ottobre 1487 Ferdinando II il Cattolico creò il Tribunale dell’Inquisizione e fu inviato in Sicilia il primo inquisitore delegato, un certo Frate Agostino La Pena, la cui nomina fu approvata da Papa Innocenzo VIII.
Nel solo anno 1546 i quindici tribunali attivi condannarono 120 persone al rogo, 60 in effigie e 600 a penitenze minori. I reati per i quali si veniva processati erano l’eresia… ma anche la bestemmia, la stregoneria, l’adulterio, l’usura.
L’Inquisizione nell’isola venne abolita con decreto regio del 6 marzo 1782 (disposto da Ferdinando III di Sicilia).

Torniamo al romanzo.
Francisca Spitalieri è una innamorata delle parole. Ma non di parole qualsiasi… delle parole belle. Francisca “ruba” queste parole. Le ripete. Per certi versi le re-interpreta. Sono parole latine, per lo più. Parole liturgiche e dell’offertorio… sentite in convento.
Cos’è che colpisce Francisca? Forse la loro austerità… che le fa sembrare al di sopra delle parole ordinarie. O, ancor di più, la loro musicalità. Qualunque sia la ragione, Francisca ama queste parole, rimane estasiata dalla loro bellezza. E le ripete. Le ripete senza nemmeno conoscerne il significato.
Ora, questo suo amore per le parole viene considerato… strano. Anormale. E viene messa a giudizio.
Il romanzo si intitola “Tu non dici parole” (Perrone, 2008, € 15). L’autrice è Simona Lo Iacono.

Vi invito a discutere di questo libro interagendo con Simona.
E poi vi invito a riflettere (e a discutere) sul ruolo della parola. E sulla sua importanza.

Quante persone - tra cui scrittori e intellettuali - hanno pagato, stanno pagando, o pagheranno, sulla pelle… il peso delle loro parole?

Di seguito potrete leggere la recensione di Maria Rita Pennisi e la monografia di Maria Lucia Riccioli. Su “Lo schiaffo” c’è una recensione di Salvo Zappulla. Mentre sul blog “La poesia e lo spirito” trovate una mia minirecensione con intervista all’autrice.
Massimo Maugeri
(continua…)

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martedì, 16 giugno 2009

ISOLE SENZA MARE, di Antonella Cilento


“Isole senza mare” è il nuovo romanzo di Antonella Cilento, ma è anche la storia parallela di due donne che attraversano l’Otto e il Novecento: Aquila, nobile caduta in povertà e costretta a lasciare la Spagna, vende se stessa e tenta il riscatto diventando l’amante del marchese Campana, collezionista di arte e di vite altrui, un amore che la trascinerà in una trama di ossessioni, vendette e fantasmi. Nina, ultima erede di una catena di donne che dalla Spagna sono fuggite, ha più di ottant’anni, ha vissuto il Fascismo e una difficile intimità famigliare percorsa da molti nodi silenziosi: orfana di padre, sposa tardiva, madre mancata. Aquila e Nina amano con infelicità, entrambe sono esiliate: legate a doppio filo da rimandi, coincidenze ed eredità, le loro vicende si intrecciano con un coro di indimenticabili personaggi sullo sfondo del Mediterraneo.
Un romanzo sulla solitudine, sull’isolamento, sull’esilio. Sull’amore deluso. Un’opera letteraria che ha impegnato Antonella Cilento per ben dieci anni e che finalmente vede la luce.
Ce ne parlano Luigi La Rosa e Simona Lo Iacono.
Vi invito a discuterne con loro e con l’autrice.
Di seguito pongo alcune domande/riflessioni – ispirate al romanzo – con l’intento di favorire la discussione.

1 -Isole senza mare. Isole senza amore.
Siamo isole quando amiamo? E quando scriviamo?

2 – Isole senza approdo, anche. Perchè se non c’è mare, non c’è riva. Se scriviamo come isole siamo, anche, viaggiatori senza ritorno?

3 – Isole senza tempo. Le generazioni che sfalsano e scombinano destini.
Il tempo che scorre è solitudine? È compimento?

4 – Isole senza viaggio.
Un viaggio, per scrivere, è necessario? E quale viaggio?

Di seguito, gli ottimi contributi di Luigi La Rosa e Simona Lo Iacono.
Massimo Maugeri
(continua…)

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mercoledì, 10 giugno 2009

IL MARESCIALLO BONANNO E I PERSONAGGI SERIALI. Incontro con Roberto Mistretta

Con questo post vi invito a discutere sui personaggi seriali che popolano la letteratura. Sono tantissimi. Pensateci un attimo: dallo Sherlock Holmes di Sir Arthur Conan Doyle, a Hercule Poirot di Agatha Christie; dal commissario Maigret di Georges Simenon al commissario Montalbano di Andrea Camilleri.
E ce ne sono tanti altri… e non solo nell’ambito della cosiddetta letteratura di genere. Basti citare – uno per tutti – Nathan Zuckerman di Philip Roth.

Vi chiedo:

Che rapporti avete con i personaggi seriali in letteratura?
Vi piacciono? Vi appassionano? Li detestate?

A vostro giudizio, chi è il personaggio letterario seriale più importante? E perché?

E qual è il vostro preferito? Quello a cui siete più legati?

Sarebbe bello riuscire a creare, nell’ambito di questo post, una sorta di “mappa” dei personaggi seriali che hanno attraversato le pagine dei libri. Ci proviamo?

Colgo l’occasione per ri-presentarvi un personaggio seriale di nuova generazione: il maresciallo Saverio Bonanno, ideato da Roberto Mistretta. Avevamo avuto modo di incontrarlo nell’ambito di questo post. Di recente è tornato in libreria con il romanzo “Il diadema di pietra“, anche questo edito da Cairo (in fondo al post potrete leggere la recensione di Salvo Zappulla).

Ma chi è il maresciallo Bonanno?
Ecco come si vede l’interessato a pag. 27 de “Il diadema di pietra”:

Bonanno si esaminava con occhio impietoso e disfattista: sbirro di provincia prossimo alla quarantina, perennemente in soprappeso, per non dire grasso, con una figlia già grande, un’ex moglie scappata di notte con un trapezista, una madre come donna Alfonsina e due cani che amava come veleno per topi.

Insomma… tutto un programma, questo Bonanno.

Ne approfitto per invitarvi alla presentazione catanese de “Il diadema di pietra” che si svolgerà presso la libreria Cavallotto di Catania – in C.so Sicilia – venerdì 12 giugno alle h. 18,00. Condurrò la presentazione insieme a Enrico Guarnieri (in arte, Litterio) e con la partecipazione dello stesso Roberto Mistretta.
Segue l’invito.
Massimo Maugeri
presentazione-il-diadema-di-pietra-cavallotto-12609.jpg (continua…)

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giovedì, 4 giugno 2009

METTERE IN PIEGA UNA STORIA. “I racconti del parrucchiere” di Elvira Seminara

Che caratteristiche deve avere un racconto breve per “funzionare”?
L’incipit di questo post coincide con una domanda (ovviamente vi invito a rispondere). Lo spunto per la discussione ce lo offre la nuova opera narrativa di Elvira Seminara: “I racconti del parrucchiere” (Gaffi, 2009). [Peraltro siete tutti invitati alla libreria Giunti, di Piazza Duomo, a Catania (giorno 5, intorno alle h. 18,30) dove la stessa Elvira, insieme al sottoscritto e a Luigi La Rosa offrirà una sorta di workshop sul racconto presentando - contestualmente -"I racconti del parrucchiere"].

In questi racconti l’autrice dimostra di essere eclettica: la scrittura e lo stile si trasmutano da racconto in racconto – da voce in voce – mantenendo una qualità narrativa molto elevata e mettendo in scena un campionario umano completo, complesso e perfetto nella sua differenziazione.
C’è una sciampista dotata di poteri arcani di cui non era consapevole e che le consentono di carpire i pensieri delle clienti ogni volta che, per fare lo shampoo, tocca con le sue dita l’altrui cuoio capelluto. C’è un’extra comunitaria che decide di farsi bionda e che immola la lunga e nera treccia – curata per anni sotto il burqa – sull’altare dell’integrazione in un mondo che è diversissimo da quello d’origine (il taglio della treccia può essere visto come metafora della recisione delle proprie radici). C’è un poeta transessuale che decide di tagliarsi i capelli e di cambiarne la tinta: (E poi perché ci chiamano trans? Vuol dire attraverso, l’ho cercato sul dizionario. Attraverso cosa, la materia e lo spirito, gli ormoni e il silicone? E allora perché non chiamarci mutanti, sconfinanti, o che ne so. Vivere sul bordo, sulla linea, sul margine, vivere in punta di piedi facendo un fracasso del diavolo. In modo furtivo e smaccato). C’è il marito che si apposta poco fuori la bottega del parrucchiere per fare una sorpresa alla moglie. C’è la figlia di un detenuto che scrive la propria storia per inviarla a una rivista (qui lo stile e la scrittura della Seminara si trasfigurano per uniformarsi a quello del personaggio a cui si presta la voce… in questo caso la penna, caratterizzata dalla punteggiatura un po’ bizzarra). C’è una donna che una mattina si risveglia con gli occhi di colore viola e che vive, con leggerezza, una sorta di provvisorio risveglio kafkiano (la donna asseconderà il cambiamento tagliando i capelli cortissimi e tingendoli di rosso; ma la mattina dopo gli occhi torneranno a essere castani). C’è una giovane suora, dalla fervida immaginazione, che – prima di entrare in convento – decide di passare dal parrucchiere: (Ho capelli castani lunghi, né belli né brutti. Ma per ficcarli tutti sotto il velo, e tenere la testa pulita senza perdere tempo e fantasia, devo per forza tagliarli).
C’è il racconto struggente di un padre separato che, in compagnia del figlio (che non riesce più a vedere ogni giorno come vorrebbe), attende in macchina l’ex moglie che sta per uscire dalla bottega del parrucchiere.
E c’è altro. Molto altro. Perché i capelli hanno anche un forte valore simbolico e, in fondo, esprimono noi stessi. La nostra personalità, la nostra cultura, le nostre origini. E attorno ai capelli e al parrucchiere si accavallano e si alternano storie, caratteri, esistenze, destini. Voci che si mischiano e confluiscono fino a formare un unico particolarissimo coro.
Di seguito potrete leggere la recensione di Sabina Corsaro, direttore editoriale del magazine Lo Schiaffo (chiedo a Sabina collaborazione per animare e moderare il post relativamente ai racconti di Elvira).
Invito Luigi La Rosa ad aiutarmi per portare avanti la discussione sui racconti in generale.
Naturalmente interverrà anche l’autrice della raccolta.

In coda al post potrete leggere una storia tratta da “I racconti del parrucchiere”. L’ho scelta perché è una delle più dolenti… e anche perché proverò a “interpretarla” alla libreria Giunti (Piazza Duomo, Catania) giorno 5. Vi aspettiamo!

Dunque: discuteremo sia di questi racconti della Seminara che dell’arte del racconto in generale.
Vi ri-formulo la domanda: Che caratteristiche deve avere un racconto breve per “funzionare”?
E aggiungo questa (in tema): che rapporto avete con i vostri capelli?
A voi!
Massimo Maugeri

(continua…)

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martedì, 26 maggio 2009

MONTEVERDE di Gianfranco Franchi

Di Gianfranco Franchi avevamo già avuto modo di parlarne qui, in merito ai volumi “L’inadempienza” e “Pagano“.
Torniamo a incontrare questo giovane intellettuale romano, nato a Trieste, classe 1978, creatore e gestore del popolare Lankelot, nonché scrittore e consulente editoriale di varie case editrici.
L’occasione ce la fornisce l’uscita del suo nuovo lavoro letterario: Monteverde, edito da Castelvecchi.

Trovo che la nota al libro sia molto intrigante. Ve la riporto di seguito: “Nella schiera degli antieroi che solo la migliore letteratura sa regalarci, ecco il protagonista di Monteverde, trentenne laureato e precario sempre in cerca di lavoro, e di volta in volta arbitro, giornalista-magazziniere, inseritore notturno, tirocinante, addetto allo sportello. Un nostalgico che seppellisce il suo vecchio palmare sotto la pianta di rosmarino, tifoso accanito della Magica, spirito rock, collezionista di mug. Un esule, un italiano, un letterato che rivendica orgogliosamente il suo ruolo. Uno a cui ogni tanto appare all’improvviso un cane, per strada, con un occhio più chiaro dell’altro. Ma chi è davvero Guido, che percorre avanti e indietro la sua isola, Monteverde, sulle tracce di Pasolini, e che fa strani incontri al cimitero, tra le tombe di Keats e Gramsci? Un duro o un romantico? Un asociale? Uno che si innamora? Ascoltalo: è tutto ciò che non ha patria e si ribella, e sembra non voler morire mai”.

Monteverde inizia con queste frasi:
Sono una foglia che pesa ottanta chili. Sogno refoli di vento.
Sono una batteria che si sta ricaricando. Voglio ricaricare in pace, senza sbalzi di corrente. Sono un navigatore senza programma, non so orientarmi con le stelle. Sono lo stipite stanco di una vecchia porta. Sono un contratto firmato in bianco, sono una lettera senza mittente. Sono una tela d’acqua su una cornice di carta, un telecomando che non spegne niente; se mi punto sul cielo m’accendo, funziono. Sono un orologio che batte secondi sulle tempie della sua cassa. Sono un pallone bucato.
Sono una sigaretta che non si spegne, fuma soltanto.
Sono queste mani che dovresti mutilare.

Guido Orsini è l’alter ego di Gianfranco Franchi. Un personaggio che ci fornisce alcune indicazioni sulla condizione di alcuni giovani intellettuali italiani.

Ho chiesto ad Andrea Di Consoli e a Barbara Gozzi di dire la loro su questo libro, e vorrei discuterne con voi insieme all’autore (che parteciperà al dibattito). E poi vorrei interrogarmi (e interrogarvi) sulla figura e sul ruolo dei giovani intellettuali oggi in Italia.

Così mi domando (e vi domando)…

Qual è la condizione dei giovani intellettuali oggi in Italia? Quale il ruolo?

Gli intellettuali trentenni di oggi, in cosa si differenziano da quelli di venti, trenta, quarant’anni fa? In cosa si assomigliano? I loro sogni sono uguali o sono cambiati?

Inoltre ho chiesto a Gianfranco di mettermi a disposizione uno dei bellissimi racconti di Monteverde. Ho scelto Catafalco (potete leggerlo in coda al post), per un motivo ben preciso. È un racconto che affronta il tema della morte dal punto di vista dei bambini. Un racconto che mi ha fatto tornare indietro nel tempo. Che mi ha fatto domandare: quand’è stata la prima volta che ho preso consapevolezza della morte?
Giro la stessa domanda a voi. E aggiungo quest’altra.
Secondo voi, è giusto parlare della morte ai bambini? E in che termini?

Ne approfitto per sottolineare che, oltre che con Monteverde, Gianfranco Franchi è in libreria con: “Radiohead. A Kid. Testi commentati” (Arcana).

Di seguito, le recensioni di Andrea Di Consoli e Barbara Gozzi.

Massimo Maugeri
(continua…)

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mercoledì, 13 maggio 2009

OMAGGIO A GIUSEPPE BONAVIRI

POST DEL 22 MARZO 2009

Ho appena appreso la notizia. Giuseppe Bonaviri, uno dei più grandi scrittori del Novecento, è morto ieri sera (21 marzo 2009) all’età di 84 anni. L’avevo incontrato di recente – nel mese di maggio dell’anno scorso – presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Catania. Giorno 19 marzo l’aspettavamo al Palazzo della Cultura in Via Museo Biscari 5, a Catania, per un pubblico omaggio organizzato da Sarah Zappulla Muscarà e Enzo Zappulla in occasione della ri-edizione de «La ragazza di Casalmonferrato», (romanzo del 1954) – La Cantinella. Le condizioni di salute non gli hanno consentito di essere presente.
A lui il mio e il nostro pensiero…
Non aggiungo altro. Ripropongo il post pubblicato martedì, 4 novembre 2008: Omaggio a Bonaviri.
In coda potrete leggere una lunga intervista esclusiva che Giuseppe Bonaviri ha rilasciato a Massimiliano Perrotta (che ringrazio per avermela concessa).
Grazie, Giuseppe, per le grandi opere letterarie e i bellissimi scritti che ci hai lasciato.
Massimo Maugeri

P.s. In data 15 settembre 2011, questo post è stato tradotto in lingua estone e pubblicato qui.

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Post di martedì, 4 Novembre 2008
giuseppe-bonaviri.jpgÈ con molto piacere che dedico uno spazio “speciale” a uno dei grandi autori del Novecento letterario italiano: il più volte candidato alla vittoria del Premio Nobel, Giuseppe Bonaviri.
Sarah Zappulla Muscarà, nella sua prefazione alla nuova edizione de “L’infinito Lunare” (Bompiani, 2008, € 9,20, p. 264), lo presenta così: “Giuseppe Bonaviri è nato l’11 luglio 1924, “al canto delle cicale”, a Mineo, paesino alto su un monte, in provincia di Catania, fondato da Ducezio, re dei Siculi. Lì erano nati nel Seicento il padre gesuita Ludovico Buglio che, nel corso della sua lunga vita missionaria in Cina, pubblicò ben ottanta volumi, fra cui la Summa teologica di San Tommaso d’Aquino, in elegante lingua cinese; sempre nel Seicento il poeta Paolo Maura, autore del poemetto autobiografico in dialetto siciliano La pigghiata (La cattura); e nell’Ottocento Luigi Capuana, uno dei maggiori esponenti del Verismo, i cui interessi spaziarono dal giornalismo alla narrativa, alla critica, alla poesia, alla favolistica, al teatro, allo spiritismo. Da queste radici geografiche e antropologiche – “A Miniu li pueti a ccientu a ccientu / pirchì è lu mastru di lu puitari”, come suona il detto popolare – scaturisce il canto, sorretto dalle più variegate letture, di Bonaviri. Il suo esordio risale al 1954, con “Il sarto della stradalunga”, apparso nella collana einaudiana “I gettoni”. Da quel lontano romanzo che, come ben intuirono Vittorini, Calvino e la Ginzburg, rivelava nel giovane sottotenente medico lo scrittore di razza, Bonaviri non finisce di stupirci. “Le sue cortesie sono come i frutti del giardino di Armida, che ‘E mentre spunta l’un l’altro matura’”: così da Mineo il 24 giugno 1884 il conterraneo Luigi Capuana a Federico De Roberto. Lo stesso potrebbe dirsi dei dolci frutti di Bonaviri. Di quelle “possibilità infinite di conoscenza” che gli riconosce Sebastiano Addamo. Gli è che dalla mitica pietra della poesia dell’altipiano di Camuti, contrada di Mineo, odorante “di fior di nepitella e di iris”, “Parnaso siculo”, “Elicona dei rustici poeti”, l’omphalos dei greci, di cui narra anche il medico palermitano studioso di tradizioni popolari Giuseppe Pitrè, lamento doloroso e nostalgico, specola dell’anima, patria incorrotta della memoria, dalla madre donna Papè Casaccio, “decameron vivente”, dal padre don Nanè, l’ingenuo poeta de “L’arcano”, per misteriose, labirintiche vie ctonie e cromosomiche, Giuseppe Bonaviri ha ereditato il “potere di fare miracoli” che possiede il vecchio “Gesù a Frosinone”. Il potere incantatorio del narratore in grado di dar vita a quella suspension of disbelief di cui parla Samuel Coleridge.”

Mi piacerebbe organizzare un grande dibattito sulla figura di Bonaviri. E per farlo mi avvarrò del supporto della già citata Sarah Zappulla Muscarà (ordinaria di Letteratura Italiana nell’Università di Catania), e della sua prefazione a “L’infinito Lunare”, di cui avete già letto uno stralcio qui sopra; del critico e scrittore Subhaga Gaetano Failla (il quale, tra l’altro, mi darà una mano a coordinare e a animare la discussione), che ci offre un’intervista al celebre autore di Mineo (l’intervista, realizzata insieme alla sorella Valeria Failla, è apparsa sulla rivista cartacea “Orizzonti” n. 26, aprile-luglio 2005); e di Rawdha Zaouchi-Razgallah (italianista e docente di letteratura italiana presso l’Università del «7 Novembre a Carthage» di Tunisi), che ci offre un duplice spunto (e punto di vista) sulla scrittura di Bonaviri.

Nei prossimi giorni aggiornerò il post introducendo alcune immagini e un video da me realizzati nel mese di maggio di quest’anno presso la facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Catania, in occasione di un pubblico incontro con Bonaviri.

Il dibattito è incentrato sulla figura di Giuseppe Bonaviri e sulle sue opere (cercherò di coinvolgere gli amici della Fondazione Bonaviri); ma ne approfitto per proporre un argomento di discussione collaterale che, in parte, abbiamo già avuto modo di affrontare in altre occasioni. Nella prefazione della Zappulla Muscarà a “L’Infinito Lunare” leggiamo il seguente stralcio virgolettato: “Credo che per colui che scrive non per mestiere ogni libro rappresenti come un immergersi in un labirinto di se stesso per entrare dentro, per mezzo delle parole, in un disagio vitale che soltanto con la pagina scritta si può curare”.
Esiste davvero un potere salvifico della scrittura? E fino a che punto la scrittura è in grado di curare il disagio vitale?

Non credo che Bonaviri avrà modo di partecipare al dibattito, ma di certo ne sarà informato in maniera dettagliata.

Massimo Maugeri
(continua…)

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lunedì, 11 maggio 2009

FUORI GIOCO di Salvatore Scalia

Il calcio come metafora della vita. Questa frase sintetizza una delle possibili letture del nuovo ottimo romanzo di Salvatore Scalia (nella foto): “Fuori gioco” (Marsilio, 2009, pag. 128, euro 12).
Così come nel precedente libro, “La punizione” (anche questo edito da Marsilio), le vicende narrate traggono spunto da una storia realmente accaduta. Se il primo romanzo vede come protagonisti quattro ragazzini vittime della mafia, in questa nuova opera Scalia fornisce dignità letteraria al mito indiscusso dei nostri tempi: il calciatore. Nell’immaginario collettivo il calciatore – oggi, ancor più di ieri – incarna il successo, la fama, il denaro, il fascino. Eppure il mondo del pallone non è tutto rose e fiori. Ne sanno qualcosa celebrità calcistiche di fama mondiale (tra cui Gigi Buffon, portiere d’acciaio della Nazionale) che hanno dovuto fare i conti con il continuo logorio dello stress da performance – e dell’estraniamento da successo – capace di sfociare nella depressione.
In questo romanzo Scalia offre una versione rovesciata del mito; perché, laddove l’agognato successo viene solo sfiorato, esso si trasforma in repentina sconfitta. O fallimento. E per ogni traguardo raggiunto da un individuo, in migliaia cadono durante il percorso.
Il protagonista della storia è Paolo Malerba, giovane calciatore della provincia di Catania che porta già nel cognome il segnale presago di un tragico destino. Paolo va a Milano, il provino con l’Inter sembra dare esiti positivi. Il sogno pare a un passo dal diventare realtà. Ma si sfalda di fronte a una radiografia. I medici della società calcistica attestano un piccolo problema ai polmoni. Nulla di grave, per una persona normale. Un insuperabile impedimento, per un calciatore professionista.
Paolo viene scartato. Il suo sogno si infrange e gli implode dentro con effetti devastanti, allargando squarci dell’anima già aperti da un’adolescenza difficile, dal problematico rapporto col padre, da paure mai domate. In tal senso Malerba è due volte perdente: perché prima patisce la sconfitta (per via di un disturbo fisico inatteso) e poi il fallimento (per via di equilibri interiori già fortemente precari). Non gli rimare che attorcigliarsi dentro se stesso, ancora di più; consumandosi tra amori irrisolti e una depressione serpeggiante che ne segnerà la fine.
Con un lirismo efficace e dolente Salvatore Scalia, tratteggiando i risvolti farseschi e paradossali della vita di provincia del profondo Sud, rovescia il mito moderno dell’uomo di successo miscelandolo con quello classico che narra la fine di Empedocle tra le fauci infuocate dell’Etna. Ne viene fuori un ritratto duro, impietoso, dolente. Credibile. E se è vero – come è vero – che per la popolazione etnea il vulcano è femmina (a’ muntagna), l’idea del lasciarsi precipitare nel cratere non riflette altro che il ferale desiderio (inconscio e insopprimibile) di tornare nel ventre materno: mettersi fuori gioco, scomparendo nelle origini della propria esistenza.

Mi chiedo, e vi chiedo…

I calciatori sono davvero i nuovi eroi dei tempi moderni?

Il gioco è metafora della vita o non è piuttosto la vita metafora del gioco?

Fare squadra ha ancora senso?

La felicità – in famiglia, nella società, nel lavoro – passa dal fare squadra?

E qual è il rapporto tra successo e felicità?

Di seguito, gli approfondimenti di Simona Lo Iacono e Salvo Zappulla (che mi daranno una mano a moderare la discussione)

Massimo Maugeri
(continua…)

Pubblicato in LETTERATURA È DIRITTO... È VITA (a cura di Simona Lo Iacono), SEGNALAZIONI E RECENSIONI   160 commenti »

martedì, 5 maggio 2009

ITALIA DE PROFUNDIS, di Giuseppe Genna

È da tempo che meditavo di dedicare un post a questo nuovo libro di Giuseppe Genna: Italia De Profundis. Uno dei libri più recensiti degli ultimi anni: lodato dalla critica e amato dal pubblico dei lettori (è stato scelto come libro del mese dagli ascoltatori della trasmissione Fahrenheit).
Attraverso il racconto di vicende personali, trasfigurate nella narrazione, Genna canta il de profundis a un’Italia malata. Un’Italia cancerosa. Un paese affetto da un male simile a quello che divora i corpi. E il male tumorale che ha portato via il padre dell’autore, ora avvinghia la madre patria. Al punto che bisogna distaccarsene (forse) per non esserne trascinati a propria volta. Al punto che bisogna “disimparare ad amarla”, l’Italia.
Così come evidenzia la scheda del libro “si formano sotto i nostri occhi episodi di un’autobiografia impazzita, rivelazioni plausibilmente autentiche di quanto il personaggio «Giuseppe Genna» ha vissuto: il drammatico ritrovamento del cadavere del padre, in un’atmosfera lynchiana, una tardiva autoiniziazione all’eroina, l’esplosione dell’iracondia in una forma che guarda alla scrittura di Burroughs e l’intervento attivo e criminale nell’eutanasia di un caso simile a quello di Piergiorgio Welby. Fino all’avventura surreale in una estate solitaria presso un villaggio turistico in Sicilia, dove le tessere di questo racconto scomposto trovano una soluzione che è esilarante fino all’inabissamento finale.
Fiction reale o realtà finzionale, questo libro pretende e concede un atto d’amore assoluto, formulato come appello al lettore, affinché sia cancellato l’autore e si ascolti l’inquietante risata con cui Genna stesso e l’Italia vengono seppelliti
“.

Sul Riformista Andrea Di Consoli ha scritto: Italia De Profundis è un libro grandioso. E’ un’eruzione vulcanica, un’opera monstre, una potentissima deflagrazione dei saperi, dei generi letterari e della psiche. Non s’era mai letto un libro così potente, in Italia; un libro, cioè, dove ci fosse tutta la nostra contemporaneità: la depressione, l’ipocondria, l’ansia, la morte, l’amore, il sesso, il sadomaso, la disoccupazione, la letteratura, Milano, Palermo, le periferie, il lumpenproletariat milanese, l’eroina, l’autobiografia, la finzione, il villaggio turistico siciliano, la morte del padre, un’orgia transessuale, il sapere enciclopedico, il cinema, la Mostra di Venezia, David Lynch, Mantova, Berlino, Burroughs, Kafka, il narcisismo, l’autopunizione, l’agonia, l’eutanasia, il disprezzo, la pietà, gli ospedali, la psichiatria, il corpo, la difficoltà di amare e la sperdutezza”.

Subhaga Gaetano Failla, a cui ho chiesto di predisporre una recensione appositamente per Letteratitudine, mi scrive: “Dagli anni Ottanta in poi rari sono stati i libri di autori italiani per me così importanti.”

E poi c’è l’epigrafe prescelta da Giuseppe Genna. Sembra quasi una premessa al libro. È tratta da Petrolio di Pasolini. E dice così: “Nel progettare e nel cominciare a scrivere il mio romanzo, io in effetti ho attuato qualcos’altro che progettare e scrivere il mio romanzo: io ho cioè organizzato in me il senso o la funzione della realtà; e una volta che ho organizzato il senso e la funzione della realtà, io ho cercato di impadronirmi della realtà. (…)
Nello stesso tempo in cui progettavo e scrivevo il mio romanzo, cioè ricercavo il senso della realtà e ne prendevo possesso, proprio nell’atto creativo che tutto questo implicava, io desideravo
anche di liberarmi di me stesso, cioè di morire”.

Vorrei che discutessimo insieme di questo libro.

E poi, vi chiedo di fare il punto della situazione sui malanni d’Italia.

Secondo voi il nostro è davvero un paese-cadavere su cui recitare il de profundis?

Quali sono stati i “mali” che l’hanno ridotto in queste condizioni?

È possibile “risorgere”? Se sì, in che modo?

Di seguito le recensioni di Andrea Di Consoli e di Subhaga Gaetano Failla (che mi darà una mano a animare e moderare il dibattito).

Massimo Maugeri
(continua…)

Pubblicato in SEGNALAZIONI E RECENSIONI   205 commenti »

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